"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Vittorio Foa, quell'incontro in un bar di via Veneto a Trento

di Michele Nardelli

Non dimenticherò mai la sua passione civile, quando aggrottava la fronte ed avvicinava lo sguardo da sopra gli occhiali, per ascoltare e vedere più da vicino le storie e i volti degli operai che raccontavano la loro condizione in fabbrica, il loro sapere di persone autodidatte ma che conoscevano l’organizzazione del lavoro della loro azienda molto di più di tanti dirigenti.

di Michele Nardelli

Non dimenticherò la curiosità che promanava dalle sue domande, tanto diversa da quella saccenteria di chi sorvola le situazioni senza chiedere niente, nella convinzione di sapere tutto. Non dimenticherò il suo sorriso, a dispetto di quella dentiera, vecchia anch’essa, che già trent’anni fa non ne voleva sapere di assecondare emozioni e parole.

La scomparsa di Vittorio Foa è di quelle che ti lasciano lì senza parole, anche se te l’aspettavi. Era del ’10 il caro Vittorio, come mio padre. In genere non mi capita di ricordare l’età delle persone, ma quella coincidenza ha fatto sì che di tanto in tanto, lungo il trascorrere degli anni magari parlando di quel decennio che cambiò ogni cosa e che oggi viene ridotto agli “anni di piombo”, mi venisse in mente Vittorio e la sua veneranda età. Ed ogni volta provavo ad immaginare il suo sguardo in questo tempo tanto disgraziato. Ma Vittorio Foa era un giovanotto ultranovantenne. Rivedere in queste ore la sua ultima intervista televisiva, quando egli descriveva il suo sentimento che non era di nostalgia verso il passato ma, ancora una volta, di curiosità verso il futuro, è stato per me un nuovo regalo.

Parlo di regalo perché ho iniziato a guardare alle cose della politica agli inizi degli anni ’70. Di quel tempo ho un’immagine indelebile. E’ l’incontro in un bar di via Veneto di alcuni delegati della Michelin con Vittorio Foa, già allora padre nobile del sindacalismo italiano. Una lunga ed estenuante vertenza aziendale contrapponeva i lavoratori con la multinazionale francese, una vertenza che non si vinceva in via Sanseverino ma a livello europeo, negli altri stabilimenti italiani ma anche a Clermont Ferrand e Barcellona. E la chiave era riuscire a fermare non uno stabilimento, ma l’intero gruppo. Quei delegati progettavano di incontrare le Comisiones Obreras a Barcellona. Non si trattava di una passeggiata, nel 1974 in Spagna c’era la dittatura del generale Francisco Franco e le Comisiones Obreras operavano in clandestinità. Insomma, andando lì rischiavano la galera, ma in quel tempo non ci si risparmiava.

Come ho scritto di recente sulla rivista UCT, il privilegio di essere in quell’incrocio di sguardi e di parole fu per me una scuola di vita. Così – non avevo ancora vent’anni – incontrai per la prima volta Vittorio Foa. Seguirono anni di impegno e di militanza comune in quella nuova sinistra in cui il vecchio costituente vedeva la continuazione di quella straordinaria (ed eretica) esperienza che era stata “Giustizia e Libertà”, soffocata nel dilagare della contrapposizione ideologica del dopoguerra, nella ricerca mai doma di spazi inediti nei quali dare voce alla narrazione sociale, quella degli operai e dei giovani in primo luogo.

Finì una stagione, e con essa anche quella dell’ormai vecchio militante sindacale e politico. «Il divario fra la realtà e la percezione generò confusione…» scrisse e seguirono gli anni del silenzio, un silenzio che «non è vuoto della storia, è un modo di risolvere problemi altrimenti non risolti». (Vittorio Foa, Passaggi. Einaudi, 2000). In punta di piedi riprese lo sforzo di riflessione e di rilettura storica del ‘900, ogni volta un affresco della condizione umana. Non c’erano più quelle sale piene di delegati sindacali e di lavoratori nei quali la sua inconfondibile voce infondeva orgoglio e diventava consiglio, ma le pagine fitte de “Il Cavallo e la Torre” e di “Questo Novecento”, nei quali ripercorreva il “lungo secolo breve” mentre questo segnava la sua fine, per averne lucida memoria. Potevi non essere d’accordo, come quando sostenne i bombardamenti della Nato su Belgrado, ma sempre ti costringeva a pensare, a cambiare lo sguardo, ad apprezzare la mossa del Cavallo, a sparigliare. Era questa disponibilità a cambiare il tratto della sua giovinezza.

«Adesso, a novant’anni, perdo la vista, non leggo quasi più, sto malamente in piedi da solo, peso tutto su Sesa. Il nuovo secolo potrebbe presentarsi poco attraente. Ma non posso cedere alla tentazione di guardare il soffitto e lasciarmi vivere finché dura. Quando si è vissuti così a lungo e così bene non si può abbandonare. Devo darmi un progetto».
Ora la tua carica di energia e il tuo sguardo curioso ci mancherà, ma ci hai insegnato molte cose. A non essere pigri, tanto per cominciare. Grazie davvero.

 

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