"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Le Alpi come laboratorio d'Europa

Alpi

di Annibale Salsa

(22 giugno 2012) Da alcuni anni, con un crescendo esponenziale di allarmi, l'idea di Europa vacilla sotto le picconate degli euroscettici di varie provenienze ed estrazioni. Evidentemente la Storia non riesce ad essere maestra di vita. Dopo la fine della seconda guerra mondiale che segnò la fine dei nazionalismi, catastrofici per il vecchio continente, l'ideale europeo ha rappresentato una grande speranza di riconciliazione.

Le Alpi, pur con le rettifiche di confine introdotte dal Trattato di pace del 10 Febbraio 1947 sui fronti occidentale ed orientale, hanno riscoperto la loro vocazione di cerniera ridimensionando il ruolo di "sacro confine" che era stato loro assegnato con tanta enfasi retorica. Statisti lungimiranti, nonché europeisti convinti, avevano compreso che l'Europa poteva ritornare ad essere quel contenitore di popoli, affini per cultura e tradizione, che l'ideale carolingio aveva ricucito dopo la disfatta dell'Impero romano e le grandi invasioni barbariche.

Dall'incontro fra la tradizione giuridica romana e la nuova linfa vitale portata dai popoli germanici nasceva il grande soggetto politico del Sacro Romano Impero. All'interno di questa nuova entità istituzionale le Alpi troveranno una nuova centralità. Il ruolo dei passi verrà esaltato e verrà favorita la creazione, tra monti e valli, di comunità autonome (prime fra queste il Trentino-Tirolo).

Lo spazio alpino diventa fucina di buongoverno e palestra di democrazia, oltre che laboratorio privilegiato di avanzate sperimentazioni geo-politiche. Anche la libera circolazione delle persone e delle merci ne trarrà giovamento. Le Alpi diventano spazio aperto anche per la circolazione delle idee. Si formano nuovi insediamenti fondati da neo-montanari che, dalle pianure antistanti la catena alpina, spinti da facilitazioni di natura giuridica ed economica, decidono di andare a vivere in montagna.

In proposito suggerirei a quei politici e amministratori,che da tempo promettono politiche di rilancio della montagna, a trarre una qualche ispirazione dalle buone pratiche di quegli anni. È ben vero che la storia non si ripete in forma eguale. Molta acqua è passata sotto i ponti e, come diceva un antico filosofo greco, non ci si bagna mai due volte nell'acqua dello stesso fiume. Ma la storia aiuta quando la si conosce e non la si vuol rottamare per sostituirla con i tecnicismi finanziari. In una società che ha elevato l'utilitarismo a paradigma assoluto di riferimento e che ha costruito una vera e propria teologia del danaro (spesso virtuale), non vi è più posto per progettualità di lungo respiro. Le Alpi sono state la culla, oltre che delle autonomie speciali, della cooperazione.

Sussidiarietà e solidarietà affondano le radici nelle pratiche comunitarie delle corvéese nel mutuo soccorso delle popolazioni. Da Raiffaisen a Don Guetti l'economia guardava alle persone in carne e ossa, agli uomini che dalla montagna traevano reddito e lavoro. Ma dove è finito quel modello che gli storici dell'economia chiamavano «capitalismo renano-alpino»? Dove è finito il sentimento di appartenenza a un'Europa continentale, sgretolato dall'ironia anglosassone? Facciamo fatica a tutelare le minoranze alpine che parlano una lingua diversa da quella nazionale, con la scusa che i toponimi autoctoni - se non tradotti - creerebbero problemi di orientamento, ma non esitiamo a infarcire la nostra lingua di anglicismi, dagli intercalari parlati alle insegne scritte dei negozi,sostituendo i corrispondenti nomi d'uso comune del nostro ricco vocabolario. Addirittura proponiamo di impartire tutte le lezioni, in alcune Università, esclusivamente in lingua inglese. Non esiterei a parlare, in proposito, di forme mascherate di provincialismo, rovescio della medaglia dell'iper-progressismo. Una cosa è la conoscenza necessariamente strumentale della lingua, un'altra è la lingua madre. Ci si dimentica che la lingua non è un sistema di segni convenzionali, ma è un modo di pensare, una «visione del mondo».

Basta fare il confronto con la Francia che, a parte un certo sciovinismo peraltro in calo, non è disposta a farsi colonizzare da tali egemonie linguistiche. Forse la malattia mortale dell'Occidente è in agguato e non lascia scampo a speranze. Vi è ancora bisogno di pensatori, di poeti, di contadini, di montanari liberi e autonomi per poter dire l'indicibile ed esprimere l'ineffabile difronte alla povertà lessicale dei nostri linguaggi. In questo senso, le Alpi sono ancora un crocevia di esperienze, di lingue, di organizzazione sociale. Si pensi ai vicini progetti Gect-Euregio (Trentino-Sudtirolo-Tirolo) che vanno proprio nella direzione di un uso transfrontaliero dello spazio alpino. L'Unione Europea e la moneta comune sono oggi sotto attacco da parte dei suoi detrattori, dimenticando che esse rappresentano ancora una conquista di civiltà.

I problemi cui vanno incontro riguardano, semmai, la protervia con cui gli Stati nazionali rifiutano di accedere a una politica comune che passi attraverso il ridimensionamento della propria sovranità nazionale. Se non si levano voci autorevoli e pensanti, rischiamo di ritornare a chiusure nazionalistiche e a orizzonti limitati. Ricordo l'entusiasmo europeista di quando, a seguito dell'applicazione del Trattato di Schengen, avviammo tra Associazioni alpinistiche italo-francesi il progetto Interreg di cartografia «Alpi senza frontiere» nel settore occidentale. L'intendimento era quello di coprire tutta la catena alpina centrale ed orientale, dalla Lombardia all'area trentino-tirolese, dal Veneto al Friuli. Ricordo anche la grande aspettativa riposta sulla Convenzione delle Alpi per un progetto di valorizzazione pan-alpina. Negli anni della speranza europeista, vennero organizzati due importanti incontri fra politici e studiosi. Il primo, nel 1973, su iniziativa della Regione Lombardia, il secondo nel 1985 a Lugano, nella Svizzera italiana. I messaggi di quei due Convegni furono forti ed entusiasmanti. Il manifesto del Convegno di Lugano si proponeva, in particolare, di «ridare identità all'arco alpino in un contesto europeo sovranazionale» rilanciando i temi di un federalismo europeo incardinato sulle Alpi e non sulle pianure. Quest'anno ricorre il centenario della prima ricerca socio-antropologica sulle popolazioni alpine.Il sociologo Robert Hertz nel 1912, trovandosi in vacanza ai piedi del Gran Paradiso, vide nelle Alpi un «magnifico laboratorio». L'auspicio, di fronte all'attuale crisi valoriale, politica ed economica è che, attraverso le Alpi, possiamo di nuovo riscoprire un'Europa madre e non matrigna.

Annibale Salsa, già presidente del CAI ed esperto di cultura alpina. L'articolo è apparso sul quotidiano L'Adige in data odierna

 

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