"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Fra economia legale ed economia reale

di Michele Nardelli

(giugno 2006) L'operazione è riuscita, lo scoiattolo e l'arancione hanno funzionato. Il Festival dell'economia è stato un grande successo mediatico, di pubblico, di promozione della città. Poche anche le critiche, sempre in punta di fioretto, per l'aver sorvolato su alcuni argomenti che non hanno trovato spazio (l'energia, l'economia di guerra...), ma nel complesso la grande macchina che il "Sole 24 Ore" e la casa editrice Laterza, per conto della Provincia Autonoma, del Comune e dell'Università degli Studi di Trento, hanno orchestrato è sembrata funzionare oltre ogni aspettativa.

Trento quindi si candida a divenire città-laboratorio sui temi dell'economia, così come Mantova con il suo festival della letteratura, Torino capitale dello slow food e così via. Si è anche parlato del valore politico di questo festival, nell'aver intercettato quel bisogno di sapere e di approfondire per troppi anni negato nell'orgia del pensiero debole e come banco di prova di quel Partito Democratico che dall'innovazione di pensiero come delle forme dell'agire politico non può certo prescindere.

Tutto bene, dunque.

C'è però qualcosa che vorrei dire e che riguarda l'impianto di fondo di come oggi si discute di economia. Ho come la sensazione che l'economia raccontata dagli economisti risenta di una lettura scolastica di quel che accade nei processi globali. Non che nei quattro giorni di discussione del Festival dell'economia non siano mancati sguardi diversi, del resto un evento che aveva come titolo "Ricchezza e povertà" non poteva prescindere dalla realtà della sofferenza di milioni di persone, ma l'impressione è che i cambiamenti siano tali da rendere necessario per tutti, conservatori o alternativi, uno svecchiamento dei propri strumenti interpretativi. In altre parole, la necessità di cogliere quel che sta accadendo in questo passaggio di tempo.

Che una parte dell'umanità sia costretta a vivere con meno di un dollaro al giorno non è affatto una novità. Che il divario fra ricchezza e povertà sia cresciuto viene generalmente riconosciuto.

Il fatto è che non siamo esattamente di fronte ad un confronto civile su quali debbano essere le strade per garantire a tutti il diritto alla vita e alla dignità. No.

Per la prima volta nella storia del pensiero moderno, anziché ragionare sulle modalità di inclusione, il neoliberismo teorizza apertamente l'esclusione. Come a dire che - di fronte al carattere limitato delle risorse e all'insostenibilità planetaria nel modello uscito vincente dalla sfida del ‘900 - per una parte dell'umanità non ci sarebbe  posto sulla faccia della Terra. Perché a questo porta l'affermazione che "il proprio stile di vita (il modello di consumi) non è negoziabile". E dunque alla guerra, come strumento normale per il controllo delle risorse del pianeta.

Prendo a pretesto il recente intervento di Mario Draghi all'assemblea della Banca d'Italia, che ha raccolto consensi diffusi riecheggiati nelle sale affollate del festival trentino. Leggo e rileggo la relazione del Governatore della Banca d'Italia e la sensazione cui sopra accennavo diviene quasi fastidiosa, come se le parole fossero vuote formule prive di attinenza con il mondo reale.

Draghi parte dalle trame convulse che hanno investito l'economia italiana negli ultimi mesi, il crac  della Parmalat seguito a ruota dal marasma finanziario che ha portato in pochi mesi alle dimissioni del vecchio e fino a quel momento inamovibile Governatore Fazio, tanto da far tremare la stessa istituzione finanziaria più importate del nostro paese, uscita ferita - sono parole di Draghi - da quelle vicende.

Nasce qui una prima domanda. "Trame di pochi individui" - come afferma il neo governatore di Bankitalia - oppure tratti strutturali di un'economia finanziarizzata dove i contorni del rapporto fra legalità e criminalità sono sempre più sfumati?

Anche in questo caso dovremmo interrogarci su ciò che è cambiato nel mondo della grande finanza. In primo luogo il suo peso. Il rapporto globale fra economia di produzione di beni e servizi ed economia finanziaria è sempre più a favore di quest'ultima. Per avere un'idea del peso preponderante degli scambi finanziari internazionali (valuta, titoli di credito, azioni, opzioni, ecc.) su quelli commerciali basti pensare che se la produzione annua di beni e servizi su scala mondiale ammonta a circa 30.000 miliardi di dollari, gli scambi azionari movimentano una massa di denaro almeno doppia. E questo è niente di fronte ai 180.000 miliardi di dollari di valore nominale dei cosiddetti "titoli derivati", vere e proprie scommesse sulla speculazione finanziaria. Una massa di denaro che pervade l'economia reale tanto che oggi non c'è gruppo industriale dove la dimensione finanziaria non prevalga su quella produttiva.

Altre domande seguono a ruota. Come avviene l'accumulazione finanziaria? Quali sono gli ambiti in cui il denaro produce denaro? Dov'è che la circolazione virtuale dei capitali trova il terreno adatto per la moltiplicazione della rendita?

La risposta, a guardar bene, non è poi così complicata come si tende a credere. I luoghi "virtuali" dell'investimento finanziario sono gli ambiti della massima deregolazione, le guerre moderne in primo luogo, e poi i traffici (di esseri umani e di organi, di rifiuti tossici e scorie nucleari, di armi e droga...), il riciclaggio (che investe in primo luogo il mercato immobiliare, le attività commerciali, i casinò...), le produzioni nocive, il non rispetto dei diritti delle persone, della salute, dell'ambiente. Qual è il carattere etico delle transazioni finanziarie? E che cos'è la stessa delocalizzazione delle imprese se non la ricerca dei luoghi di massima deregolazione? O qualcuno pensa che le aziende del nord est italiano siano andate in Romania per beneficenza?

Così la globalizzazione ha messo in discussione la vecchia ed anacronistica divisione fra sviluppo e sottosviluppo, rendendo a-geografica la divisione fra povertà e ricchezza. Perché i luoghi di eccellenza dell'economia finanziaria sono quelli dove non esistono regole se non quelle del "diritto naturale", ovvero dei più forti, poco importa che si tratti di mafie o di moderne democrazie. Fino al paradosso che più un paese è ricco di materie prime e più è esposto a processi di impoverimento. Nel sud come nel nord del mondo.

Che ne è dell'economia che ci è stata insegnata, dove il valore di un bene era legato alla quantità di energia incorporata sotto forma di materie prime e di lavoro? Come non accorgersi di quella che Nicholas Georgescu-Roegen definiva come la "quarta legge della termodinamica" (ogni attività produttiva comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di materia e di energia) che ci descrive in forma scientifica il senso del limite.

Come si fa a parlare di competitività quando il costo del lavoro nella Corea del Nord è di dieci volte inferiore a quello della Cina? Quando il "made in Italy" è prodotto nel Sud est asiatico o nei Balcani? Ancora. Come si fa a parlare di andamento del PIL come parametro sul quale misurare il benessere dei cittadini quando l'incidenza dell'economia nera o grigia raggiunge in alcuni paesi l'80% dell'economia reale? Che cosa descrive quel dato? E che senso ha oggi attardarsi a parlare, in questo contesto, di Paesi in Via di Sviluppo? O qualcuno pensa che la Transnistria (di cui il grande pubblico non conosce nemmeno l'esistenza) sia un paese sottosviluppato?

Altra domanda. Si fa un gran parlare di innovazione come grimaldello per fare la differenza. E siamo d'accordo. Aggiungerei anche la fantasia e l'anima. C'è un piccolo particolare. Che se con questo intendiamo il controllo sul sapere, dobbiamo avere anche consapevolezza che il 90% della ricerca applicata alle nuove tecnologie è nelle stesse mani di chi teorizza che nel mondo non c'è posto per tutti. Allora di che cosa stiamo parlando? Di quale economia? Di quale mondo?

Credo che la straordinaria partecipazione alle giornate del Festival dell'economia stia ad indicare insieme il bisogno di capire e anche di dare qualche risposta a queste ed altre domande, sul piano della capacità di leggere la realtà (la ricerca) come su quello dell'urgenza di metterci mano (la politica). Di indicare, senza schizofrenia, percorsi di sperimentazione originale e di governo di un'economia intrecciata con il territorio e le sue vocazioni. Di qualificare il sistema trentino come luogo in cui imprese private, cooperazione, credito, ma anche università e centri di ricerca, organizzazioni sociali e volontariato, propongono strategie comuni per stare nella globalizzazione senza subirne gli effetti omologanti. Valorizzando le esperienze che cercano di costruire relazioni eque e solidali con altri territori nelle forme della cooperazione comunitaria, del commercio equo e solidale, della microfinanza...

Per pensare al Festival dell'economia come momento qualificante di una pratica di educazione permanente, per imparare ad abitare in modo diverso il nostro presente. Così l'arancione sarebbe più vivo, come l'Olanda di Cruyff che cambiò negli anni '70 il modo di stare in campo.

 

 

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