"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Il tempo si è fermato a Srebrenica

memoriale di Potocari

Abitare il conflitto. Forme e prassi di riconciliazione nel contesto post conflitto

di Michele Nardelli

«...le peggiori atrocità possono scaturire da ciò che è apparentemente innocuo, dalla "normale" passività che può caratterizzare la vita quotidiana di milioni di individui nella società di massa: la triste verità è che il male è compiuto il più delle volte da coloro che non hanno deciso di essere o agire né per il male né per il bene»

Hannah Arendt
"La banalità del male"

Questo testo è stato scritto per il volume "Srebrenica, fine secolo" Ed. Israt - 2005

Di Srebrenica se n'è parlato tanto, ma forse non abbastanza. O almeno non come se ne avrebbe dovuto parlare, cioè non in forma retorica o propagandistica. Lo stesso si potrebbe dire - per la verità - anche della "guerra dei dieci anni", della quale sono rimasti gli stereotipi, una cortina di fumo grigio che avvolge gli avvenimenti senza lasciar traccia di essi sul piano dell'elaborazione e di una memoria condivisa.

Eppure non c'è libro sulla guerra degli anni '90 che non parli di Srebrenica, si sono fatti reportage, articoli, dibattimenti nei tribunali internazionali, spettacoli teatrali, forse più di ogni altro luogo che ha conosciuto la tragedia della pulizia etnica e della guerra. E la città di Srebrenica ha reagito chiudendosi a riccio, come se il tempo si fosse fermato.

Se vi capita di andare a Srebrenica avrete come la sensazione che la guerra non sia mai realmente finita: la potete avvertire dietro ad ogni porta, nel silenzio assordante, negli obitori ancora affollati di cadaveri da poco riesumati, nella diffidenza degli abitanti verso chi viene in questa cittadina spettrale per stuzzicare le ferite, ricavarne sensazioni forti e reportage vendibili.

La guerra non è finita nel ritorno ancora molto limitato, nella cupezza degli sguardi, nel senso di colpa o nella falsa coscienza di chi è ancora convinto che è stato meglio così, "perché altrimenti ci avrebbero cacciati loro". Persino i signori della guerra che, tolta la tuta mimetica ed indossati i panni degli uomini d'affari, sono ovunque in Bosnia diventati i nuovi feudatari, signori della terra e degli uomini, mafiosi che controllano il territorio occupando la politica, l'economia, il controllo militare, la stessa religione, sembrano rarefatti nel contesto di degrado che segna oggi Srebrenica. Anche degli affari di qui ci si occupa da lontano, Srebrenica viene venduta a pezzi, tanto che persino le vecchie fabbriche in via di privatizzazione o i vecchi stabilimenti termali un tempo gloriosi passano di mano senza che la comunità abbia alcuna voce in capitolo. Né lo potrebbe avere, perché il degrado tende a non risparmiare nessuno.

La guerra non è ancora finita nello sguardo perso, quasi autistico, degli uomini nei pochi bar, sigaretta accesa, rakija e rancore... qualcosa che assomiglia alla vecchia balkanska krcma (la locanda balcanica), il luogo della terevenka (la sbornia collettiva) che cancella la memoria e le inibizioni, che stordisce e rafforza il branco. O nella disperazione dei centri collettivi, dove le persone marciscono ormai da dieci anni, vecchi senza alcuna speranza, bambini che diverranno a breve carne da macello per la criminalità.

In questa parte della cosiddetta Republika Srpska, risultano introvabili i Karadzic e i Mladic, non perché nessuno li cerchi, ma perché si confondono e mimetizzano alla perfezione, a dimostrazione del fatto che la loro cattura è legata più al cambiamento del contesto che non all'abilità della polizia internazionale. "Avete visto Karadzic?" chiede un militare della forza internazionale ad un passante durante uno dei tanti ed infruttuosi blitz di questi anni. "Sì, come no?" risponde il passante "L'ho visto poco fa che passava di qua, il signor Karadzic" riferendosi ad un'altra persona che condivide con il ricercato numero uno del TPI uno dei cognomi più diffusi in quell'area. E' come se Srebrenica si prendesse ancora gioco della comunità internazionale, dopo esserne uscita a pezzi in quel tragico luglio di dieci anni fa.

Laddove un po' di ritorno c'è stato, questo risulta particolarmente problematico. Basti pensare alla vicenda della chiesa ortodossa di Konjevic Polje, nei pressi di Bratunac, sempre nella zona di Srebrenica, costruita illegalmente nel 1996 sul terreno di una bosgnacca, Fata Orlovic, dopo che quest'ultima - durante la guerra - era stata espulsa dal proprio villaggio assieme ad altri bosgnacchi locali. Dopo che Fata Orlovic è rientrata ed ha riottenuto la propria proprietà ha chiesto alle autorità religiose e civili di rimuovere l'edificio, costruito proprio di fronte alla sua casa di famiglia: il caso ha semplicemente fatto riemergere quel che cova sotto la cenere. Uno scontro solo sopito fra comunità nelle quali non si è voluto o saputo riflettere sulla natura reale di quanto accaduto negli anni ‘90. Ognuno chiuso nella propria memoria e nel proprio rancore.

Immagini conosciute, quasi famigliari, dopo anni di frequentazione di un'altra "comunità maledetta" [1] qual è stata Prijedor, luogo forse meno conosciuto di Srebrenica, ma non per questo meno tragico se pensiamo a Omarska, a Trnopolje, a Keraterm, la vecchia fabbrica di mattoni che fu già campo di concentramento durante l'occupazione nazifascista. Dove un percorso di pace sembrava impossibile.

Ecco perché vorrei proporre uno sguardo parallelo fra queste due città, Srebrenica, città prigioniera del proprio passato, e Prijedor, città del ritorno. Città lontane che il mio amico Sead Jakupovic [2] ha cercato di avvicinare per poi gettare la spugna di fronte ad una realtà di cui si ama parlare piuttosto che agire.

 

 

Hanno vinto Mladic e Karadzic?!

 

Ho avuto infatti la sensazione che di Srebrenica in questi anni se ne sia parlato più in termini propagandistici che nella ricerca di ricostruire percorsi veri di riconciliazione. Anche di riconciliazione se n'è parlato spesso a vanvera. Perché si tratta di percorsi che non s'improvvisano, che richiedono un paziente lavoro di prossimità, di ricostruzione di fiducia, di dialogo fra le parti e, prima ancora, di capacità di ricercare frammenti di rilettura condivisa di ciò che è accaduto. Che la comunità internazionale non ha saputo mettere in moto e che i nazionalismi si sono ben guardati dal sostenere, in modo da poter usare la divisione etnica come chiave di lettura di ogni contraddizione o malessere sociale.

Intervenendo in un convegno a Trieste sul tema delle "Città divise" [3] chiedevo al pubblico presente se ritenevano davvero che le città, con il loro portato di cosmopolitismo, avessero saputo resistere alla guerra, agli assedi e alla distruzione dei simboli di quel "milieux" costruito nell'intreccio di culture, profumi, venti così straordinariamente descritti da Predrag Matvejevic nel suo saggio "L'altra Venezia" [4].

La risposta che mi sono dato è che se le città hanno saputo talvolta resistere, ne sono uscite comunque profondamente provate, non più le stesse. Se questo vale anche per Sarajevo, figuratevi per piccole città come Srebrenica o Prijedor. Andate a Visegrad, il luogo descritto da Ivo Andric nel suo grande capolavoro... Quel ponte sul fiume Drina, con le possenti arcate di marmo ingrigito dal tempo appare oggi come qualcosa di estraneo, tanto poco ha a che vedere con il monumento costruito lì a due passi a simboleggiare la nazione serba come baluardo verso l'islam, tanto che quasi quasi ne farebbero a meno.

In questo senso dobbiamo dirci che hanno vinto Mladic e Karadzic. Nell'assedio alle città e ai loro simboli cosmopoliti si è giocata anche un'altra partita, forse meno appariscente ma per questo non meno concreta, che investe la natura delle guerre moderne come una delle forme più acute dell'economia globalizzata, la deregolazione estrema come terreno in cui prosperano rendita e profitto.

In questo senso, la "guerra dei dieci anni" non è stata l'ultima del ‘900, ma la prima del nuovo secolo. Una guerra carica di tragica modernità, una guerra di tipo nuovo che successivamente abbiamo incontrato sempre più frequentemente e sotto ogni latitudine, dove i protagonisti indossano i panni degli antichi guerrieri e viaggiano sulle automobili abbrunate delle nuove mafie e della finanza. No, non c'erano soltanto i cavernicoli ad assediare la cultura, c'era qualcosa di molto più complesso. Ecco perché ha vinto Karadzic. Perché se Sarajevo ha resistito per 1300 lunghissimi giorni all'assedio, dimostrando al mondo intero come una città possa non imbarbarire nonostante la barbarie, nulla ha potuto contro il cancro che la circondava e che nel contempo cresceva anche dentro il proprio corpo sociale.

 

 

Cavernicoli in doppio petto

 

Mi viene in mente l'incontro nella primavera del 2002 fra il sindaco di Sarajevo, Muhidin Hamamdzic, e l'ambasciatore dell'allora Federazione Jugoslava a Roma, Miodrag Lekic, al quale ho assistito in prima persona [5]. Fu un incontro emozionante. L'ambasciatore Lekic chiese scusa al sindaco di Sarajevo per ciò che la sua gente aveva potuto fare con l'assedio durato più di tre anni della capitale bosniaca. Parole vere, sofferte, di un uomo che avvertiva su di sé il peso della storia. Hamandzic ringraziò, ma lo fece in modo straordinariamente irrituale e disincantato. "Se l'assedio alla mia città è durato per tutti quei mesi e anni - disse - questo è anche perché qualcuno della mia parte ha voluto che questo accadesse".

Dentro queste parole c'era una verità scomoda, quasi inconfessabile, una diversa chiave di lettura della guerra, delle nuove guerre dove l'intreccio fra affari e politica diviene una costante, dove si ridisegnano poteri, dove le vecchie nomenclature succedono a se stesse, dove prendono corpo nuove classi e nuovi poteri di stampo "neofeudale", quei signori della terra e degli uomini che incontriamo nella vecchia Jugoslavia, come in ogni altra area deregolata del pianeta.

Fantasmi e modernità si rincorrono. Era il marzo del 1996, a pochi mesi dalla fine della guerra di Bosnia, ci trovammo a Prijedor, in un ristorante della nomenclatura nazionalista serba, in compagnia degli esponenti di quel "Comitato di crisi" che qualche anno prima aveva organizzato una fra le più spaventose pulizie etniche e fatto riapparire dopo mezzo secolo nel cuore dell'Europa il male assoluto, il campo di concentramento. Fra quei personaggi l'allora sindaco di Prijedor, Milomir Stakic, oggi in carcere a L'Aja, primo condannato all'ergastolo dal TPI per crimini di guerra. Non riuscivano a capire perché noi fossimo lì a dialogare con loro, i criminali, tale era il loro disinteresse verso i profughi serbi che vivevano in fetidi centri collettivi nei dintorni di Prijedor, paria e testimonianza vivente di una tragedia della quale loro portavano una buona parte di responsabilità. Non fu facile, per noi, fare quel passo, stringere quelle mani, ma cogliemmo al volo che quello poteva essere il modo per rompere lo stereotipo del nazionalismo, il complotto internazionale contro la nazione serba. Noi che non corrispondevamo ad alcuno dei richiami di suolo e di sangue della loro ossessione, tanto che per trovare una qualche affinità scomodarono persino la regina Elena di Montenegro, di casa dei Savoia.

Ad un certo punto chiesi loro quale futuro immaginavano per la Republika Srpska (allora la parola Bosnia a Prijedor non aveva cittadinanza). La risposta fu di quelle che ti aprono gli occhi di fronte ad una realtà prima confusa. Stakic mi disse: "Un porto franco". Ovvero un luogo dove gli investimenti avrebbero potuto trovare tutte le condizioni più favorevoli, la deregolazione nel cui contesto nulla è tutelato, né il lavoro, né l'ambiente, né la salute.

La guerra era stata una grande operazione di camaleontismo politico ed un grande affare, il dopoguerra lo era ancora di più.

Così cadevano le maschere. Il nazionalismo era la copertura ideologica di operazioni inserite a pieno titolo nella modernità dell'economia globale, forma di controllo sociale e chiave per gestire ogni contraddizione e per rinfocolare conflitti spuri ogni qual volta insorgessero sintomi di malessere sociale. Le comunità, orfane delle vecchie ideologie e prive di adeguati strumenti interpretativi, arruolate in una rappresentazione teatrale in bilico fra passato e presente, incapaci di comprendere ciò che era accaduto, cadevano in una forma di autismo diffuso dal quale ancor oggi faticano ad uscire.

 

"La prossima volta andiamo via noi"

 

Come svelare le "maschere per un massacro" [6], per usare l'efficace metafora di Paolo Rumiz? Come squarciare il velo di miti e di menzogne che i signori della guerra hanno saputo abilmente tessere?

Non basta un'altra narrazione, anche perché la verità non è mai in bianco e nero. Perché la gente spesso tende a conoscere quel che vuol sapere, quel che corrisponde alle proprie chiavi di lettura, quel che non ne disturba la falsa coscienza.

Così può accadere che ad un certo punto su un muro di Prijedor appaia una scritta. Una mano serba che scrive "la prossima volta andiamo via noi". Come a dire che "gli altri" se n'erano andati di propria volontà, come se non ci fossero stati migliaia di morti, come se i campi fossero un'invenzione della propaganda internazionale antiserba, come se gli stupri in quell'albergo sul Kozara dove avevano la loro base le truppe speciali non fossero mai avvenuti, come se... ci sarà "una prossima volta".

Una narrazione che racconta la propria verità, che verrà trasmessa ai propri cari, diventando di passaggio in passaggio sempre più epica, sempre più sorda, sempre più ostile. Che si alimenta dell'invidia verso chi ritorna dopo essere stato profugo all'estero, con un po' di risparmi per ricostruirsi una casa accogliente, con i figli che hanno potuto studiare, fare esperienze, conoscere lingue. Più forti anche sul piano psicologico perché hanno avuto la forza di rientrare e perché privi dei sensi di colpa di chi invece è rimasto e non ha alzato un dito contro la barbarie della pulizia etnica.

Una narrazione contrapposta, una memoria divisa. E' questa, vorrei dire, la condizione che il Novecento ci ha lasciato in eredità, almeno laddove i confini degli stati-nazione si sono trovati a fare i conti con la storia, le sue guerre e i suoi domini, le sue migrazioni e le sue diaspore, producendo lacerazioni profonde mai elaborate e mai sanate. Quante sono le città divise? Quanti i territori contesi fra diverse identità?

E' il concetto stesso di stato-nazione che ha segnato la storia moderna a lasciare dietro di sé cumuli di macerie. Tanto da mettere in discussione anche quello di autodeterminazione, che pure ha segnato il post colonialismo e grandi processi di liberazione. Ma questo è un altro discorso.

Il nuovo secolo si è aperto nel 1989. Qualche muro è caduto, molti sono ancora più alti e spessi di prima.

E non parlo del muro della vergogna che divide la Terra Santa, o di Mitrovica [7] e di quel ponte (uno solo, fra i tanti che uniscono in quella zona le due sponde del fiume Ibar) che invece di unire separa i serbi dagli albanesi. Nemmeno delle enclave, nuova forma di segregazionismo nel cuore della moderna Europa, e nemmeno di lingue comuni che s'inventano diverse e di diversità etniche artificialmente costruite.

Parlo dei muri che separano le diverse narrazioni, che dividono le città e i luoghi nel vissuto delle persone. Di muri invisibili, che riemergono come ferite del giorno prima a Sarajevo come a Trieste, a Pec-Peja come a Bolzano. Dove basta proporre (maldestramente, per la verità) di cambiare il nome di una piazza intitolata a quella "vittoria" che segnò l'avvio della colonizzazione italiana del Sud Tirolo in piazza della pace, perché la divisione si approfondisca, i muri diventino ancor più insormontabili.

Si abbatte il muro che per mezzo secolo ha separato Gorizia e Nova Gorica, per poi dover costatare che la pista ciclabile che ne ha preso il posto è sempre deserta. Un deserto affollato di fantasmi che lacerano le coscienze, le storie, le vite, come il dibattito sulle foibe ha testimoniato. Ai fantasmi si accompagnano maldestre ricostruzioni che le fiction televisive rendono ancor più manichee, e quindi laceranti e dolorose.

 

L'elaborazione del conflitto.

 

Si è ripetuto fin quasi alla noia che la pace è qualcosa di più complesso dell'assenza di guerra. Potremmo definirla come un percorso individuale e collettivo che si fonda su una storia ed una memoria condivise. Il che ci dovrebbe far riflettere sul nostro stesso impegno per la pace e la solidarietà internazionale. Interrogandoci sul senso del nostro agire e delle cose che facciamo. E' come ci portassimo dietro un fardello di cultura economicista, del quale facciamo fatica a liberarci. Come se la pace potesse ridursi al pane e al lavoro, magari accompagnata con un po' di sostegno psicologico alle persone. Chiediamoci quanti sono i progetti di cooperazione che agiscono sul tema del conflitto. In quanti hanno avuto la lungimiranza di finanziare processi di pace fondati sulla valore essenziale della parola?

E non basta nemmeno il pacifismo di bandiera. Certo è importante continuare ad invocare il rispetto del diritto internazionale, e per l'Italia della Costituzione e del suo articolo 11, ma è necessario contemporaneamente interrogarsi ed agire sulla violenza globale e locale. In una parola, "abitare i conflitti". E' questa la sfida di un nuovo possibile movimento per la pace, quella di coniugare l'idealità dei valori con la concretezza dell'intervento sul campo, del mettersi in mezzo là dove le contraddizioni dei conflitti acuti sono più aspre. Perché è dall'interno, dal "cuore di tenebra" della violenza dispiegata che si possono superare gli schematismi semplicistici del bianco e del nero, del buono e del cattivo, del con noi o contro di noi. Si scoprono invece le infinite tonalità di grigi, le voci di chi di solito non viene ascoltato, le storie delle vittime diventate carnefici, e dei carnefici diventati vittime. E s'impara così a costruire la pace, oltre che a declamarla.

Qui però sta il difficile, perché agire mentre tutt'attorno imperversa la violenza, o dopo che essa ha lasciato la sua scia di morte, è impresa delicata. Come si può affrontare un processo di riconciliazione quando, come nei Balcani, migliaia di persone hanno vissuto l'esperienza dei campi di concentramento? Come si può parlare di futuro quando ancora non sono stati trovati tutti i cadaveri delle persone uccise, e quando molti criminali sono tuttora in libertà? Dubbi che pesano come macigni, eppure rischiano di pesare ancora di più i ricordi di tali tragedie se nulla interviene a fissarli, a renderli oggettivi ed insieme ad avviarne una pur lenta elaborazione di tipo collettivo. I fantasmi del passato purtroppo non scompaiono da soli, e anzi se lasciati a sé rischiano di costituire un materiale ideale per gli agitatori di domani. Così è accaduto proprio nei Balcani degli anni '80 con i ricordi non elaborati della seconda guerra mondiale - ripresi, mitizzati e piegati al proprio uso dai diversi nazionalismi.

Chiariamoci subito: non penso alle ragioni storiche del passato come causa diretta della guerra dei dieci anni. Luoghi comuni, odi secolari, barbarie congenita ai popoli balcanici. In molti hanno raccontato di come a Sarajevo e nelle altre città della Bosnia non si volesse credere ad una guerra imminente, neppure quando questa era già scoppiata nella vicina Croazia... Quella "etnica" anzi è stata ed è tuttora una gabbia interpretativa deleteria che annacqua, nei Balcani come in Africa, le ragioni reali dei conflitti ascrivendoli ad una sorta di carattere genetico dei popoli.

Bisogna invece interrogarsi sulla guerra moderna come "malattia della civiltà", per usare l'espressione di  Nicole Janigro [8], come esito del lungobreve XX secolo e delle premesse positivistiche dei pensieri che si sono confrontati lungo il Novecento, sulla perdizione dell'uomo moderno schiacciata fra promesse mancate e delirio dell'homo faber. Su quella combinazione di modernità e barbarie, di guerre stellari e carneficine, dove il soldato - che tendenzialmente non muore mentre a morire sono i civili - ha la faccia pulita ed inespressiva del professionista americano che fa il suo lavoro (ma non era anche la tesi di Eichmann al processo di Gerusalemme?) e insieme quella brutale del generale serbo che accarezza il ragazzino di Srebrenica prima di dare il via alla mattanza. E ai bulldozer nordamericani che seppelliscono decine di migliaia di morti nel deserto dell'Iraq corrisponde la "zampata ultima" del guerriero balcanico che toglie ogni velo sulle guerre patriottiche.
Figlie di una stessa crisi di civiltà, modernità e barbarie si rincorrono, s'intrecciano, ma non riescono a nascondere il loro vuoto, il loro rimosso, il loro non elaborato. «Le nuove guerre - scrive la Janigro - condotte in nome dell'umanità, appaiono sempre però idealmente deboli, tanto da dover essere, ogni volta di nuovo, alimentate con le ragioni del passato. È la Shoa il peccato originale della postmodernità, la metafora del male da sconfiggere e da evitare...» Così che si può solo essere a favore della guerra, se in gioco è l'umanità. Quella "crisi di civiltà" che incontriamo non solo lungo le lande desolate dei moderni dopoguerra, ma anche nelle periferie delle metropoli, laddove ricompare la pulizia etnica e dove, come afferma Akbar S. Ahmed [9], tutti diventano primitivi e selvaggi.
Allora indagare sulla guerra significa ragionare sulla condizione dell'uomo contemporaneo, sulla perdita d'identità, sullo spaesamento. E capire che oggi la guerra, pure bandita dalle Carte internazionali, è rientrata a far parte della nostra vita quotidiana come della normalità del nuovo ordine internazionale.

L'uso della storia nelle guerre moderne

 

Eppure la storia entra pesantemente nelle guerre moderne, se non come causa certo come strumento della violenza. La storia cioè è stata usata, debitamente manipolata, per giustificare e legittimare le divisioni su base nazionale, funzionali in realtà ai soli gruppi al potere. Si pensi così all'uso distorto dei media di massa e delle memorie del passato, alla revisione dei programmi scolastici, alle rievocazioni storico-religiose che nella seconda metà degli anni '80 attraversano tutta l'allora Jugoslavia creando le basi culturali di ciò che poi sarebbe successo. Tutte azioni che rispondevano a precisi intenti dei gruppi nazionalisti, che proprio in quegli anni si appropriavano del potere nelle diverse repubbliche.

E anche gli "odi etnici", le rappresentazioni cioè violentemente negative dei gruppi nazionali diversi dal proprio, se non sono la causa sono però un effetto degli scontri sul campo. La potenza significante del sangue e della morte, in un contesto in cui l'unica interpretazione pubblica offerta è quella dello scontro "etnico", li rende quasi auto-evidenti. Non dunque gli odi che generano violenza, ma viceversa la violenza che genera odio e distanza.

Dobbiamo chiederci se nei Balcani - e in generale in quelle che ormai comunemente si definiscono le nuove guerre - il conflitto è derivato da un'esplosione di violenza dovuta alla rottura della comunicazione fra culture diverse o all'avidità di qualche dittatore, oppure se esso è il risultato di un mutato rapporto fra cittadini e potere, per affermare forme statuali ed economiche più idonee per vivere ai margini (o al centro?) della globalizzazione. Nel primo caso avremo bisogno di strumenti di riconciliazione basati sulla mediazione culturale e sull'interposizione fra le parti, al fine di fornire ad entrambe gli strumenti culturali ed i valori affinché non si facciano più la guerra; nel secondo avremo bisogno di strumenti essenzialmente politici volti a dare il giusto valore agli interessi sociali e a far partecipare le persone perché possano decidere del proprio futuro e discutere del proprio passato.

Personalmente propendo per la seconda ipotesi, e dunque che il conflitto non sia il prodotto della vittoria del male sul bene come non lo sono la guerra, la pulizia etnica, i campi di concentramento, l'esilio. Sono, al contrario, il prodotto di un insieme di fattori che chiamano in causa il contesto internazionale, le dinamiche sociali, le vicende storiche, le psicologie sociali. Ridurre questa complessità ad uno solo di tali aspetti rischia di essere fuorviante.

Come ci ricorda Mark Duffield "...la risoluzione dei conflitti da parte delle ONG internazionali e locali è pesantemente influenzata dalla psicologia. [...] Da questa prospettiva il conflitto è visto come una rottura della comunicazione fra gli individui e fra i gruppi. In un periodo di tensione, l'incomprensione si sviluppa e porterebbe gli uni contro gli altri finché non si raggiunge il punto di rottura [...] La logica di vedere la violenza politica come una rottura della comunicazione fra individui e gruppi fa sì che la pulizia etnica e la guerra diventino una forma di errore, qualcosa che è iniziato a causa di una serie di incomprensioni che sono state lasciate sfuggire di mano. Questo approccio ignora il problema dell'economia di guerra e della razionalità del conflitto e, inoltre, che i progetti nazionalisti primordiali dei vari stati che si erano venuti creando erano stati orchestrati e preparati con largo anticipo dalle élite politiche e intellettuali. In altre parole non si vuole vedere la guerra e la crisi protratta come un mezzo per raggiungere un fine. L'approccio del conflict-resolution è non solo incredibilmente ingenuo, ma insulta anche tutte quelle persone che hanno sofferto durante la guerra" [10].

È altresì vero che ogni totalitarismo ha avuto basi di massa, così le dittature, i nazionalismi e finanche le teorie di difesa dei propri interessi ovunque questi si manifestino, usando a questo scopo le categorie del bene e del male quali leve di mobilitazione ideologica. Senza dimenticare che la degenerazione violenta dei conflitti affonda le proprie radici nei "normali" comportamenti quotidiani, nell'indifferenza, nei privilegi, nell'insostenibilità di modelli di sviluppo escludenti... e fors'anche nella natura umana.

Il che significa indagare la forma stessa delle nostre società, delle logiche di dominio e di profitto che le pervadono; la "banalità del male" e la guerra come prodotto di pulsioni "normali" di donne ma soprattutto di uomini nella loro normalità; riconoscere l'antropologia della guerra senza nasconderci che "la guerra è festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli" [11] e neppure quella "felicità dei campi di concentramento" di cui ci ha parlato Imre Kertesz [12].

L'approccio che ho sperimentato sul campo si propone di indagare a fondo la natura della guerra e la capacità di presa sulle coscienze dei popoli come degli individui, affrontando senza reticenze il tema della colpa nelle sue implicazioni criminali, politiche, morali e metafisiche [13]. Di conseguenza per "elaborazione del conflitto" non intendo l'impegno a fermare una guerra - che è altra cosa, quand'anche importantissima - bensì quel bisogno di stare dentro i conflitti per prevenirne la degenerazione. Un approccio diverso al conflitto, alla sua umanizzazione e riducibilità, alla ricerca di vie d'uscita in grado di evitare la scomparsa o l'annichilimento di uno dei contendenti.

 

Un percorso teorico e pratico

 

Così, dopo anni di presenza nel cuore del conflitto, ci si rende conto che tutto quel che è stato fatto, che pure è tantissimo, conta poco o nulla se non si ricostruisce una narrazione comune, una memoria condivisa.

Quel che è stato fatto è in realtà importantissimo, è il punto di partenza. Un rapporto di fiducia costruito nel tempo, fatto di piccoli gesti, di sguardi, di prossimità. Di solidarietà concreta, ma che sfiora appena la condizione delle persone, il loro pensiero, le loro paure, i loro pregiudizi e il loro rancore.

Si capisce che il passare del tempo non attenua il dolore, lo ingigantisce invece. Che il tempo non è galantuomo e che le ferite o si curano, oppure sono destinate ad infettarsi. E che la condizione economica non cancella la memoria, perché le storie sono parte integrante dell'identità delle persone, al di là del loro relativo benessere economico.

E che se si vuol agire nel conflitto è necessario qualcosa di ben diverso dall'appello ai buoni sentimenti. Che l'elaborazione del conflitto è una ricerca complessa, costosa per chi decide di mettersi in gioco, dolorosa ma anche straordinariamente liberatoria. Senza la quale non c'è convivenza, né tanto meno riconciliazione, figuriamoci perdono.

Alle persone con le quali avevamo condiviso l'impegno per la ricostruzione sociale e civile, a prescindere dalla loro appartenenza nazionale o religiosa, abbiamo proposto di avviare un percorso un po' meno scontato ed un po' più difficile, nel quale indagare a fondo sulla guerra, sulle sue cause, su ciò che è accaduto. Un percorso pratico e teorico insieme, che intendeva portare al costituirsi del Forum civico di Prijedor [14].

Che ha inteso partire proprio dalla lettura del nostro tempo, da quel Novecento in cui si è consumato il delirio dell'homo faber, dalla cultura dello sviluppo con i suoi splendori e le sue miserie, con le sue magnifiche sorti progressive che non mettevano limiti all'azione dell'uomo, al delirio di onnipotenza di un antropocentrismo che tutto poteva. E che accomunava tanto il pensiero liberale come quello socialista. Novecento rintracciabile nei tratti urbanistici del villaggio di Ljubija, a qualche chilometro da Prijedor, nelle case operaie di inizio secolo, nelle edificazioni del funzionalismo socialista, nella miniera un tempo simbolo della forza della tecnica ed oggi del degrado, nei monumenti della retorica di stato. Per condividerne la narrazione.

Lo stesso abbiamo fatto con la storia della Jugoslavia, quel paese "che nasce e muore nel Novecento". A partire dall'efficace immagine che ci ha proposto Rada Ivekovic nel prologo del suo "Autopsia dei Balcani" [15], quando racconta di una scatola di sardine "made in Jugoslavia" trovata nel 1996 in un paesino del Guatemala dove, accanto al marchio di fabbrica, era impressa la scritta "Rok trajanja neogranicen", ovvero durata illimitata e il fatto surreale che delle scatole di conserva potessero durare più a lungo del loro paese d'origine.

Per poi inoltrarci nel racconto della dissoluzione di questo paese, degli anni della guerra attraverso il diario delle persone, le lettere ricevute, gli oggetti conservati, i disegni... per comprendere come ciascuna persona avesse vissuto i "propri" anni '90, le storie di ciascuno, il dolore, la perdita di persone care e di amici, le divisione che hanno lacerato le pur numerose famiglie miste, la fuga, il restare in un luogo che non era più quello di prima, le paure, lo smarrimento, l'aiuto dato ad un amico ma anche la falsa coscienza di chi non ha voluto vedere...

Le manifestazioni per la pace di prima della guerra, l'ingorgo di una follia ben organizzata, la voglia di resistere, la banalità del male. Immagini che si sovrappongono per ricercare i punti in comune di diverse narrazioni, per costruire tratti di memoria condivisa.

E poi ragionare sulla riconciliazione, a partire dalle esperienze - rare, per la verità - in cui l'elaborazione del conflitto non è passata solo attraverso i tribunali: quella sudafricana, ad esempio, nello straordinario lavoro della Commissione per la verità e la riconciliazione guidato da Desmond Tutu.

Un lavoro che prosegue oggi con il "progetto memoria", un percorso fatto di letture, di immagini, di storie, di quel che è avvenuto in uno spazio di tempo e di vicende che accomunavano terre lontane (la mostra fotografica sul Novecento della città di Trento che verrà scambiata con quella della città di Prijedor), fra impero austroungarico e migrazioni, che coinvolge il Museo storico in Trento ed il Museo del Kozara [16].

Un percorso che ha inteso guardare non solo indietro, ma anche al futuro, alla prospettiva di un'Europa come casa comune delle tante minoranze, cogliendone limiti ma anche il suo rappresentare un presidio di civiltà giuridica e sociale, ed in questo la straordinaria occasione per demarcarsi delle derive nazionaliste che hanno lacerato la vecchia Jugoslavia, come della deregolazione che pesa come un macigno sul presente e futuro di questa terra. Quel desiderio di Europa che ha portato il Forum Civico, nei giorni 12 e 13 giugno 2004, mentre l'Europa dei 25 eleggeva il nuovo Parlamento Europeo, all'organizzazione di un voto simbolico "I ja sam gradanin Evrope!", unica città della Bosnia Erzegovina nella quale migliaia di persone si sono recate nei seggi elettorali della Municipalità per dire "Anch'io sono cittadino europeo" [17].

Cittadinanza europea come "identità in divenire" rispetto a quella che scava nel sangue e nel suolo, che valorizza la cultura e le tradizioni di ogni regione come parte integrante di un grande processo di unificazione europea che se vuole essere tale non può che essere multiculturale, aperto ed in continua trasformazione.

Un lavoro in corso, quello del Forum Civico di Prijedor sull'elaborazione del conflitto, che si interroga oggi su come trasferire ad una dimensione più ampia di persone e nelle forme più semplici ed efficaci e che porterà di qui a breve alla realizzazione nel cuore della città di un centro civico, luogo di incontro culturale e caffè concerto, dove ospitare presentazioni letterarie e mostre fotografiche, riviste internazionali e pensieri locali, una finestra sul mondo e su se stessi. Che sarà possibile realizzare grazie alla fitta rete di relazioni di comunità avviate in questi anni nell'ambito della cooperazione comunitaria promossa dal Progetto Prijedor.

Prossimità e reciprocità

 

E' quello della cooperazione comunitaria, infatti, lo scenario in cui è concretamente possibile avviare ciò che abbiamo indicato come elaborazione del conflitto. Che richiede tempo sgravato dall'ansia dei progetti finanziati e scadenzati, conoscenza del contesto e terzietà, comunità coinvolte ed in relazione fra loro: in pochissime parole, prossimità e reciprocità.

Un diverso approccio alla cooperazione dunque, di chi si prende carico e si mette in mezzo, che richiede capacità di ascolto del territorio, ricerca di interlocutori adeguati, progettazione condivisa. E insieme la consapevolezza che abitiamo il tempo dell'interdipendenza nel quale le distanze svaniscono, i processi si intrecciano, le contraddizioni riverberano. Una cooperazione che ci insegna a stare al mondo. Qualcosa di più profondamente diverso dalla cooperazione tradizionale di cui abbiamo conosciuto invasività ed insostenibilità, e qualcosa di diverso dalla stessa cooperazione decentrata che spesso tende a riprodurre gli stessi limiti della vecchia cooperazione, differenziarsi da questa solo negli attori che ne sono protagonisti.

Nella cooperazione comunitaria i protagonisti della relazione sono i territori, soggetti viventi che intrecciano istituzioni e volontariato, sensibilità e competenze, saperi e storia.

Una relazione di comunità che induce ad un continuo e reciproco interrogarsi, che aiuta al dialogo e al confronto nella propria stessa realtà, osservata allo specchio e dunque forse più nitidamente. Visto che di imparare ad abitare i conflitti ne abbiamo un po' tutti bisogno.

Penso che proprio questo lavoro sia mancato a Srebrenica.

 

In questi anni ho girato la Bosnia di lungo e in largo ma a Srebrenica in realtà non ci sono mai andato. Quel che ho scritto sono sensazioni, immagini che mi vengono buttate addosso dai reportage degli amici dell'Osservatorio sui Balcani e che s'intrecciano con quelle che mi passano davanti agli occhi dopo anni di frequentazione di questi luoghi, col loro fascino, con la loro inquietudine. Forse è stato il caso, forse una forma di autoprotezione: mi piacciono le sfide e non so se sarei riuscito dopo esserci stato a non esserne coinvolto. Intanto Srebrenica attende che qualcuno le voglia bene. 

 

Trento, aprile 2005

 


[1]

Aldo Bonomi, La comunità maledetta, Edizioni di Comunità

[2]

Vicepresidente della "Fondazione per il ritorno e la ricostruzione Prijedor 98". Venne incaricato, visti i successi ottenuti nell'area di Prijedor, di organizzare il ritorno nella Municipalità di Srebrenica.

[3]

"Le Città Divise. La cittadinanza e i Balcani tra nazionalismo e cosmopolitismo", Trieste lunedì 21 marzo 2005 

[4]

Predrag Matvejevic, L'altra Venezia, Garzanti

[5]

L'incontro avvenne a Roma nella residenza privata dell'ambasciatore,  in occasione della presentazione dell'appello "L'Europa oltre i confini" promosso dall'Osservatorio sui Balcani, sottoscritto da un centinaio di intellettuali europei, che sarebbe avvenuto nei giorni 4-7 aprile 2002 con un evento di grande rilievo a Sarajevo alla presenza del Presidente della Commissione Europea Romano Prodi.

 

[6]

Paolo Rumiz, Maschere per un massacro - Editori Riuniti

[7]

Mitrovica (o Kosovska Mitrovica), città a nord del Kossovo divisa in due settori, quello a sud del fiume Ibar dove abitano popolazioni di nazionalità kossovaro albanese e quello a nord, di nazionalità serba

[8]

Nicole Janigro, La guerra moderna come malattia della civiltà - Bruno Mondadori

[9]

Akbar S. Ahmed "Pulizia etnica: una metafora per la nostra epoca" in "La guerra moderna come malattia della civiltà", Bruno Mondadori

[10]

Mark Duffield, Guerre postmoderne. L'aiuto umanitario come tecnica politica di controllo - Il ponte

[11]

«Per contrastare la guerra con una ancorché remota possibilità di successo, è necessario cominciare a riconoscere che il conflitto e l'ostilità sono fenomeni tanto costitutivi dei legami sociali come l'interdipendenza stessa e che la nozione di una società armoniosa è una contraddizione in termini.
Lo sradicamento dei conflitti e il loro dissolvimento in una convivenza fraterna non è una meta raggiungibile, né desiderabile nella vita personale - in amore o in amicizia - ma nemmeno nella vita collettiva.
È necessario, invece, costruire uno spazio sociale e legale dove i conflitti possano manifestarsi e svilupparsi, senza che l'opposizione all'altro porti alla sua eliminazione, uccidendolo, rendendolo impotente o riducendolo al silenzio.
È vero che un passo molto importante per raggiungere questo è il superamento delle "contraddizioni antinomiche" fra le classi e delle relazioni di dominazione fra le nazioni. Ma non è sufficiente ed è molto pericoloso credere che lo sia ... perché allora si cercherà inevitabilmente di ridurre tutte le differenze, le opposizioni e i confronti a una sola differenza, una sola opposizione, un solo confronto ... ovvero il tentativo di negare i conflitti interni e ridurli ad un conflitto esterno; con il nemico, con l'"altro" assoluto: l'altra classe, l'altra religione, l'altra nazione; ma questo è il meccanismo più intimo della guerra e il più efficace, dato che è quello che genera "la felicità della guerra".
I diversi tipi di pacifismo parlano abbondantemente dei dolori, delle disgrazie e delle tragedie della guerra - e questo a ragione, anche se nessuno lo ignora - però sono soliti tacere sopra quest'altro aspetto tanto inconfessabile e tanto decisivo, che è la felicità della guerra. Perché se si vuole evitare all'uomo il destino della guerra bisogna cominciare con il confessare serenamente e severamente la verità, la guerra è festa. Festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli, dell'individuo finalmente sciolto in essa e liberato dalla sua solitudine, dalla sua particolarità e dai suoi interessi; capace di dare tutto, perfino la sua vita. Festa del potersi approvare senza remore e senza dubbi di fronte al perverso nemico, di credere stoltamente di avere ragione e di credere ancor più stoltamente che possiamo testimoniare la verità con il nostro sangue. Se non si tiene conto di ciò, la maggior parte delle guerre sembrano stravaganze irrazionali, perché tutto il mondo sa in anticipo la sproporzione che esiste fra il valore di quello che si vuole ottenere ed il valore di quello che si è disposti a sacrificare. ...
Bisogna dire che le grandi parole solenni: l'onore, la patria, i principi, servono quasi sempre per razionalizzare il desiderio di abbandonarsi a questa sbornia collettiva.
I governi lo sanno e per negare il dissenso e le difficoltà interne, impongono ai loro sudditi l'unità, mostrando loro, come diceva Hegel, la figura del padrone assoluto: la morte. La scelta data è fra la solidarietà e la sconfitta.
È triste, senza dubbio, - prosegue Zuleta - la morte dei ragazzi argentini e il dolore dei loro parenti e quello dei ragazzi inglesi e dei loro; però è forse ancora più triste vedere la gioia momentanea del popolo argentino unito dietro a Galtieri e quella del popolo inglese dietro a Margaret Thatcher.
Se qualcuno mi obiettasse che il riconoscimento preventivo dei conflitti e delle differenze, nonché della loro inevitabilità e convenienza, rischierebbe di paralizzare in noi la decisione e l'entusiasmo nella lotta per una società più giusta, organizzata e razionale, gli risponderei che per me una società migliore è quella capace di migliori conflitti. Di riconoscerli e contenerli. Di vivere, non malgrado essi, ma produttivamente e intelligentemente con essi. Che solo un popolo scettico sulla festa della guerra, maturo per il conflitto, è un popolo maturo per la pace. » Stanislao Zuleta, "Sulla guerra" (da Naviculae periodico a cura di Akoé - Trento)

[12]

Imre Kertesz, "Essere senza destino" - Feltrinelli

[13]

Per usare lo schema propostoci mezzo secolo fa da Karl Jaspers in "La questione della colpa", Raffaello Cortina editore

[14]

Per un approfondimento consultare il sito http://digilander.libero.it/prijedor/  Nel percorso sull'elaborazione del conflitto nella comunità di Prijedor sono stati coinvolti fra gli altri Marco Revelli, Nicole Janigro, Marcello Flores, Roberto Toniatti

[15]

Rada Ivekovic, Autopsia dei Balcani, Raffaello Cortina editore

[16]

Museo storico che prende il nome dall'omonima montagna a pochi chilometri da Prijedor, che nella seconda guerra mondiale vide una delle pagine più cruente della resistenza al nazifascismo.

[17]

Quasi 7.000 cittadini della municipalità di Prijedor hanno partecipato al voto. Le schede sono state consegnate a Doris Pack, Presidente della delegazione del Parlamento europeo per l'Europa Sudorientale nel novembre 2004 in occasione di un viaggio di studio del Forum Civico di Prijedor che ha visto la partecipazione di circa quaranta persone

 

 

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