"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Indagare il secolo degli assassini

Trieste

di Michele Nardelli

Il 27 gennaio è il giorno della memoria. Molte le iniziative che in questi giorni si susseguono per ricordare il giorno in cui l'Armata Rossa entrò nel campo di Auschwitz mostrando al mondo intero le immagini del male assoluto.

L'industria della morte, lo sterminio organizzato di tutti coloro che non facevano parte del disegno che voleva la supremazia di un popolo sopra ogni altro. Sei milioni di donne, uomini e bambini passarono per il camino con la sola colpa di essere ebrei, rom, serbi, malati psichici, intellettuali, omosessuali, oppositori politici, comunisti... Mai nella storia dell'umanità l'uomo era arrivato a tanto.

Ricordare è un dovere, ma non basta. Se vogliamo davvero che la storia non si ripeta occorre interrogarsi su come tutto questo è potuto accadere, comprendere e cambiare. Senza elaborazione, il passato non passa e la storia è destinata a ripetersi. 

Allora la domanda è semplice. Quanto abbiamo elaborato del nazifascismo? Il nazismo in Germania è salito al potere con un vasto consenso popolare ed è caduto non certo per volontà del popolo tedesco. Anche il fascismo in Italia ha governato per un ventennio con un vasto sostegno popolare, nonostante le leggi razziali, i campi di internamento dai quali partivano i treni per Auschwitz, Buchenwald e Dachau ed un campo di sterminio (la Risiera) che oggi sembra imbarazzare la città di Trieste tanto da nasconderlo in mezzo agli ipermercati.

Abbiamo fatto sul serio i conti con questa storia? Hannah Arendt nella sua cronaca del processo Eichmann da Gerusalemme, indicando il tema della “banalità del male” pose esattamente questo interrogativo: è sufficiente condannare i criminali o questi non rischiano di diventare dei capri espiatori che autoassolvono le responsabilità politiche e morali di un'intera nazione? O forse pensiamo che quei milioni di soldati che occuparono l'Europa non condividessero il folle disegno di dominio del loro Führer? O che il popolo non sapesse nulla di dove finissero quei treni carichi di persone e quel che avveniva nei campi della morte?

Il fatto è che dopo ogni tragedia non ci interroghiamo sulle nostre responsabilità. Si preferisce passare per le armi il dittatore (in modo che non possa coinvolgere a cascata chi ha condiviso le sue scelte) e voltare pagina. Ma, così facendo, non c'è elaborazione collettiva, non ci si interroga sulle responsabilità diffuse che hanno portato a quelle tragedie, non s'impara mai nulla. “C'era qualcosa di buono”, si dice. “Ma poi si sono commessi degli errori”. Non era questa la tesi sostenuta anche recentemente da Silvio Berlusconi, votato regolarmente negli ultimi vent'anni da un terzo degli italiani?

Indagare sulla colpa politica e morale, oltre che su quella criminale, non significa mettere sul banco degli imputati un intero popolo, ma trovare le strade per una riflessione e una catarsi collettiva, facendosi carico certo anche delle proprie responsabilità individuali, interrogandosi sulle ragioni, impegnandosi per costruire una narrazione il più possibile condivisa. Questo non è solo compito degli storici, è ciò che è richiesto ad una comunità responsabile.

Elaborare il Novecento. Perché, ad esempio, non ci chiediamo che cosa stavano a significare le parole “Arbeit macht frei?” che campeggiavano all'ingresso di Auschwitz? Non era forse l'espressione di quel delirio che Arthur Rimbaud, in una delle sue Illuminazioni, immaginando l'applicazione della rivoluzione industriale alla guerra, aveva immaginato qualche decennio innanzi nell'affermare “Questo è il tempo degli Assassini”?

Perché, analogamente, non si elabora la tragedia dei Gulag staliniani? Perché milioni di persone inghiottite nel gelo della Kolima non hanno il diritto ad un risarcimento almeno morale attraverso lo studio di quella tragedia come parte integrante di una cultura concentrazionaria che ha attraversato tutto il Novecento?

E perché non riflettere su Hiroshima e Nagasaki? Nella proliferazione che ha riempito il pianeta di armi di distruzione di massa che potrebbero mettere fine alla vita dell'uomo sulla Terra, non c'è ancora la diffusa convinzione dell'antico motto “Vis pacem, para bellum”?

E si è forse imparato qualcosa dalle tragedie che hanno segnato la seconda metà del Novecento all'indomani di una Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che avrebbe dovuto essere vincolante per tutti i paesi del sistema delle Nazioni Unite? Dalla Palestina al Vietnam, dai Grandi Laghi ai Balcani, dall'Afghanistan al Caucaso, l'elenco delle guerre sarebbe interminabile...

E allora celebrare il ricordo non basta se poi un paese come l'Italia decide di spendere miliardi di euro per il suo sistema di difesa, propagandando nel mondo la propria industria bellica, non investendo nulla sulla cultura della pace.

O sapremo elaborare il “secolo degli assassini” o, mi dispiace, ma le giornate della memoria sono destinate a diventare (e per certi versi già lo sono) un semplice esercizio di retorica e di ipocrisia.

 

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