"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Sobre la guerra. Sulla guerra

Estanislao Zuleta

di Estanislao Zuleta

Estanislao Zuleta (nato nel 1935 a Medellín - morto nel 1990 a Cali) è stato un filosofo , scrittore e professore combiano. Più che per i suoi scritti, Zuleta è ricordato dai suoi convegni che sono stati accuratamente registrati dai suoi colleghi e allievi e pubblicati più volte durante la sua vita e dopo la sua morte.

Pienso que lo más urgente cuando se trata de combatir la guerra es no hacerse ilusiones sobre el carácter y las posibilidades de este combate. Sobre todo no oponerle a la guerra, como han hecho hasta ahora casi todas las tendencias pacifistas, un reino del amor y la abundancia, de la igualdad y la homogeneidad, una entropía social. En realidad la idealización del conjunto social a nombre de Dios, de la razón o de cualquier cosa conduce siempre al terror; y como decía Dostoievski, su fórmula completa es “Liberté, egalité, fraternité. .. de la mort”. Para combatir la guerra con una posibilidad remota, pero real de éxito, es necesario comenzar por reconocer que el conflicto y la hostilidad son fenómenos tan constitutivos del vínculo social, como la interdependencia misma, y que la noción de una sociedad armónica es una contradicción en los términos. La erradicación de los conflictos y su disolución en  una cálida convivencia no es una meta alcanzable, ni deseable, ni en la vida personal - en el amor y la amistad - ni en la vida colectiva. Es preciso, por el contrario, construir un espacio social y legal en el cual los conflictos puedan manifestarse y desarrollarse, sin que la oposición al otro conduzca a la supresión del otro, matándolo, reduciéndolo a la impotencia o silenciándolo.

Es verdad que para ello, la superación de “las contradicciones antinómicas” entre las clases y de las relaciones de dominación entre las naciones es un paso muy importante. Pero no es suficiente y es muy peligroso creer que es suficiente. Porque entonces se tratará inevitablemente de reducir todas las diferencias, las oposiciones y las confrontaciones a una sola diferencia, a una sola oposición y a una sola  confrontación; es tratar de negar los conflictos internos y reducirlos a un conflicto externo, con el enemigo, con el otro absoluto: la otra clase, la otra religión, la otra nación; pero éste es el mecanismo más íntimo de la guerra y el más eficaz, puesto que es el que genera la felicidad de1a guerra.

 

Los diversos tipos de pacifismo hablan abundantemente de los dolores, las desgracias y las tragedias de la guerra y esto está muy bien, aunque nadie lo ignora; pero suelen callar sobre ese otro aspecto tan inconfesable y tan decisivo, que es la felicidad de la guerra. Porque si se quiere evitar al hombre el destino de la guerra hay que empezar por confesar, serena y severamente la verdad: la guerra es fiesta. Fiesta de la comunidad al fin unida con el más entrañable de los vínculos, del individuo al fin disuelto en ella y liberado de su soledad, de su particularidad y de sus intereses; capaz de darlo todo, hasta su vida. Fiesta de poderse aprobar sin sombras y sin dudas frente al perverso enemigo, de creer tontamente tener la razón, y de creer más tontamente aún que podemos dar testimonio de la verdad con nuestra sangre. Si esto no se tiene en cuenta, la mayor parte de las guerras parecen extravagantemente irracionales, porque todo el mundo conoce de antemano la desproporción existente entre el valor de lo que se persigue y el valor de lo que se está dispuesto a sacrificar. Cuando Hamlet se reprocha su indecisión en una empresa aparentemente clara como la que tenía ante sí, comenta: “Mientras para vergüenza mía veo la destrucción inmediata de veinte mil hombres que, por un capricho, por una estéril gloria van al sepulcro corno a sus lechos, combatiendo por una causa que la multitud es incapaz de comprender, por un terreno que no es suficiente sepultura para tantos cadáveres”. ¿Quién ignora que este es frecuentemente el caso? Hay que decir que las grandes palabras solemnes: el honor, la patria, los principios, sirven casi siempre para racionalizar el deseo de entregarse a esa borrachera colectiva.

 

Los gobiernos saben esto, y para negar la disensión y las dificultades internas, imponen a sus súbditos la unidad mostrándoles, como decía Hegel, la figura del amo absoluto: la muerte. Los ponen a elegir entre solidaridad y derrota. Es triste sin duda la muerte de los muchachos argentinos y el dolor de sus deudos y la de los muchachos ingleses y el de los suyos; pero es tal vez más triste ver la alegría momentánea del pueblo argentino unido detrás de Galtieri y la del pueblo inglés unido detrás de Margaret Thatcher.

 

Si alguien me objetara que el reconocimiento previo de los conflictos y las diferencias, de su inevitabilidad y su conveniencia, arriesgaría paralizar en nosotros la decisión y el entusiasmo en la lucha por una sociedad más justa, organizada y racional, yo le replicaría que para mí una sociedad mejor es una sociedad capaz de tener mejores conflictos. De reconocerlos y de contenerlos. De vivir no a pesar de ellos, sino productiva e inteligentemente en ellos. Que sólo un pueblo escéptico sobre la fiesta de la guerra, maduro para el conflicto, es un pueblo maduro para la paz. 

 

Traduzione italiana

 

“Sulla guerra”

 

di Estanislao Zuleta

 

Quando si vuole opporsi alla guerra penso che la cosa più urgente è di non farsi illusioni sul carattere e sulle prospettive di tale lotta. Soprattutto, non opporre alla guerra, come hanno fatto finora la maggior parte delle tendenze pacifiste, un regno dell’amore e dell’abbonadanza, dell’eguaglianza e dell’omogeneità, una entropia sociale. In realtà l’idealizzazione del contesto sociale, in nome di Dio, della ragione o di quant’altro, conduce sempre al terrore e, come diceva Dostojevski, la sua formulazione completa è “Libertè, egalitè, fraternità … de la mort”. Per contrastare la guerra con una ancorché remota possibilità di successo, è necessario cominciare a riconoscere che il conflitto e l’ostilità sono fenomeni tanto costitutivi dei legami sociali come l’interdipendenza stessa e che la nozione di una società armoniosa è una contraddizione in termini. Lo sradimento dei conflitti e il loro dissolvimento in una convivenza fraterna non è una meta raggiungibile, né desiderabile nella vita personale – in amore o in amicizia – ma nemmeno nella vita collettiva. E’ necessario, invece, costruire uno spazio sociale e legale dove i conflitti possano manifestarsi e svilupparsi, senza che l’opposizione all’altro porti alla sua elimininazione, uccidendolo, rendendolo impotente o riducendolo al silenzio. E’ vero che un passo molto importante per raggiungere questo è il superamento delle “contraddizioni antinomiche” fra le classi e delle relazioni di dominazione fra le nazioni. Ma non è sufficiente ed è molto pericoloso credere che lo sia … perché allora si cercherà inevitabilmente di ridurre tutte le differenze, le opposizioni e i confronti a una sola differenza, una sola opposizione, un solo confronto … ovvero il tentativo di negare i conflitti interni e ridurli ad un conflitto esterno: con il nemico con “l’altro” assoluto: l’alra classe, l’altra religione, l’altra nazione; ma questo è il meccanismo più intimo della guerra e il più efficace, dato che è quello che genera “la felicità della guerra”.

 

I diversi tipi di pacifismo parlano abbondantemente dei dolori, delle disgrazie e delle tragedie della guerra- e questo a ragione, anche se nessuno lo ignora – però sono soliti tacere sopra quest’altro aspetto tanto inconfessabile e tanto decisivo, che è la felicità della guerra. Perché se si vuole evitare all’uomo il destino della guerra bisogna cominciare con il confessare serenamente e severamente la verità, la guerra è festa. Festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli, dell’individuo finalmente sciolto in essa e liberato dalla sua solitudine, dalla sua particolarità e dai suoi interessi; capace di dare tutto, perfino la sua vita. Festa del potersi approvare senza remore e senza dubbi di fronte al perverso nemico, di credere stoltamente di avere ragione e di credere ancor più stoltamente che possiamo testimoniare la verità con il nostro sangue. Se non si tiene conto di ciò, la maggior parte delle guerre sembrano stravaganze irrazionali, perché tutto il mondo sa in anticipo la sproporzione che esiste fra il valore di quello che si vuole ottenere ed il valore di quello che si è disposti a sacrificare. Quando Amleto si rimprovera la sua indecisione in un’impresa apparentemente chiara come quella che aveva davanti a sé, commenta: “Intanto, a mia vergogna, vedo la distruzione immediata di 20.000 uomini che, per un capriccio, per una sterile gloria, si avviano verso la tomba come al loro letto, combattendo per una causa che la moltitudine è incapace di comprendere, per un terreno che non è sufficiente per la sepoltura di tanti cadaveri”. Chi ignora che questo è frequentemente il caso? Bisogna dire che le grandi parole solenni: l’onore, la patria, i principi, servono quasi sempre per razionalizzare il desiderio di abbandonarsi a questa sbornia collettiva.

 

I governi lo sanno e per negare il dissenso e le difficoltà interne, impongono ai loro sudditi l’unità, mostrando loro, come diceva Hegel, la figura del padrone assoluto: la morte. La scelta data è fra la solidarietà e la sconfitta. E’ triste, senza dubbio, la morte dei ragazzi argentini e il dolore dei loro parenti e quello dei ragazzi inglesi e dei loro: però è forse ancora più triste vedere la gioia momentanea del popolo argentino unito dietro a Galtieri e quella del popolo inglese dietro a Margaret Thatcher.

 

Se qualcuno mi obiettasse che il riconoscimento preventivo dei conflitti e delle differenze, nonché della loro inevitabilità e convenienza, rischierebbe di paralizzare in noi la decisione e l’entusiasmo nella lotta per una società più giusta, organizzata e razionale, gli risponderei che per me una società migliore è quella capace di migliori conflitti. Di riconoscerli e contenerli. Di vivere, non malgrado essi, ma produttivamente e intelligentemente con essi. Che solo un popolo scettico sulla festa della guerra, maturo per il conflitto, è un popolo maturo per la pace.

 

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