"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Quel che avrei voluto sentire da Mattarella...

limite

 

 

Tempi interessanti (8)

 

di Michele Nardelli

 

(5 febbraio 2015) Ho considerato positiva l'elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica. Sia per il profilo umano e politico della persona, così diverso da quello dei personaggi che oggi occupano la scena, sia perché sono convinto che saprà essere un convinto garante della Costituzione Italiana.

 

Non ho condiviso, e l'ho scritto senza reticenze su questo blog, la chiave di lettura secondo la quale saremmo in presenza all'inverarsi del destino di “morire democristiani”, come non sono d'accordo con quanti – dopo l'invito del Cavaliere al Quirinale – ancora rispolverano quell'antiberlusconismo di maniera che ha paralizzato la sinistra per un ventennio.

 

Ciò non di meno, credo che l'intelligenza non possa farsi paralizzare dall'aver superato con maestria un passaggio politico che si presentava difficile ed insidioso. Vedo infatti nella rete parole di particolare apprezzamento nei confronti del discorso di Sergio Mattarella al Parlamento, un'interpretazione certamente autentica e sensibile della Costituzione Italiana, ma non voglio nascondere che avrei voluto un'impostazione più connessa a questo difficile passaggio di tempo.

 

Non che mi aspettassi dal neo-eletto Presidente della Repubblica quel cambio di sguardo che la politica non sa esprimere. Ma almeno un interrogarsi sul “dove stiamo andando?”, questo sì. E dunque una riflessione su come le istituzioni e la politica sanno leggere ed affrontare il presente, aiutandole in quel “cambio di prospettiva” indispensabile se si vuole provare qualche risposta alle domande sul futuro, che poi sono alla base di tanta inquietudine, solitudine, paura.

 

Dire che c'è una interminabile crisi e continuare a pensarla come una congiuntura sfavorevole è non rendersi conto che ciò con cui abbiamo a che fare è un mutamento profondo, contrassegnato dallo strapotere finanziario. Dire che per uscirne è necessario rilanciare la crescita è quanto meno banale, perché la crisi è strutturale e perché la crescita non può essere una risposta globale, salvo non interrogarsi su quel che sta avvenendo sul piano dei cambiamenti climatici. Che sono a loro volta il manifestarsi di una crisi ecologica di proporzioni inedite che già oggi pone il pianeta sull'orlo dell'abisso. Insomma, c'è un modello di sviluppo da ripensare, non da rilanciare.

 

Dire che la risposta a questo tempo nuovo consiste nell'unità degli stati nazionali, piccole periferie di un mondo globale ed interdipendente, è non prendere atto che le cifre di questo tempo sono sempre più sovranazionali e territoriali. Ma il superamento degli stati nazionali (insito nel progetto politico europeo) e l'autogoverno responsabile dei territori sembrano proprio non rientrare nell'orizzonte della politica.

 

Un cambio di prospettiva dovrebbe aiutarci ad avere uno sguardo europeo ma invece l'Europa continua ad essere un insieme di stati che, per altro, si vivono in sottrazione. Dove sono venute meno alcune frontiere ma se ne sono create altre, materiali come quelle di Schengen o degli abissi mediterranei gestite dalla criminalità organizzata, oppure immateriali come quelle della paura o del pregiudizio. Dove si spendono per gli eserciti nazionali quasi trecento miliardi di euro ogni anno. Dove il divario fra ricchezza e povertà diviene sempre più profondo. Dove la deregolazione diventa dumping e ricatto permanente. Dove il dramma dell'emigrazione viene gestito come si trattasse di un problema di ordine pubblico.

 

Senza questo cambio di prospettiva l'insicurezza (finanziaria, economica e sociale, ecologica, demografica e democratica) diviene rancore e chiusura, tanto è vero – come ha scritto recentemente Paolo Rumiz, che basterebbe dare uno sguardo al collegamento ferroviario nel vecchio continente per capire come oggi «nonostante i proclami, c'è meno Europa di cento anni fa»1.

 

Sono convinto che l'attenzione del Presidente della Repubblica come garante dei diritti-doveri dei cittadini sarà massima, ma la complessità di questo passaggio di tempo richiede soprattutto un passo diverso, tanto sul piano della conoscenza come della creatività. Perché anche le garanzie e le responsabilità vanno misurate su una scala diversa dal passato.

 

 

1Paolo Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi. Feltrinelli, 2014

 

 

L'intervento del Presidente della Repubblica

 

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