"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Festival dell’Economia e la difficoltà di una scrittura originale

Festival

di Federico Zappini

(23 gennaio 2016) Il 2016 sarà l’anno di Netflix, la società americana che offre servizi streaming on demand per la visione di film e serie tv. Presente (o in procinto di arrivare) in più di 190 paesi del mondo fonda il suo successo principalmente su due aspetti. L’accesso personalizzato all’offerta – appunto a richiesta – da un lato e, caratteristica tutt’altro che secondaria, l’alta qualità di ognuna delle proposte contenute nel suo corposo catalogo, in continuo aggiornamento. Netflix porta all’estremo la libertà di scelta per l’utente associandola alla scommessa su scritture originali, dai forti tratti di unicità. Un Festival economico – non potendo seguire fino in fondo una strategia on demand nel costruire il suo calendario di eventi – farebbe bene a concentrarsi maggiormente sulla capacità di mettere a punto la propria “sceneggiatura”.

Scrivo queste poche righe – prendendo spunto a piene mani dal mondo e dal vocabolario dei serial tv – nel giorno in cui viene svelato il titolo della prima puntata della seconda stagione del Festival più famoso di Trento. Seconda perché dopo dieci edizioni, festeggiate nel giugno scorso, era lecito aspettarsi che il comitato organizzatore sentisse il bisogno di rinfrescare un po’ lo show, lavorando su trama (contenuti), personaggi (ospiti) e format.

Chiusa una fase – il cui bilancio qualitativo e quantitativo meriterebbe un’osservazione accurata – si percepiva l’urgenza di riflettere sullo schema complessivo del Festival. La trasformazione del contesto economico (e non solo) intercorsa tra gli anni in cui la kermesse diretta da Tito Boeri muoveva i primi passi, conquistando un rilevante successo di pubblico, e un oggi nel quale convivono il non superamento della Crisi e il moltiplicarsi di diverse altre crisi renderebbe utilissimo un luogo esigente e curioso di inchiesta, approfondimento e proposta. Una sceneggiatura originale, appunto, capace non di inseguire ma di guidare le riflessioni sui processi economici, sociali e politici del presente e del futuro.

Per quanto riguarda gli “attori” che vedremo sul set può valere ancora l’effetto sorpresa, e per questo va atteso con fiducia il programma definitivo. Per il format sarebbe probabilmente sufficiente provare a battere una serie di piste narrative parallele, che aiutino a evitare l’omologazione del pensiero dentro la quattro giorni del Festival.Sulla trama però il primo trailer non lascia troppe speranze. “I luoghi della crescita” non sembra essere tema che possa (e voglia) mettere in dubbio il modello economico che ha caratterizzato la fine del Novecento e l’inizio del millennio, paradigma tanto potente da rendere “plausibile (in seno alla modernità) la tesi dell’annientamento di ogni limite”, come ci ricorda Remo Bodei*. L’idea scellerata di un pianeta capace di sopportare una crescita illimitata non sembra essere ancora del tutto tramontata, anzi. Certo è che se una serie (o un Festival) non ha il coraggio di mettere in discussione il proprio registro narrativo si rischia, in entrambi i casi, di perdere in spinta propositiva e in capacità di offrire visioni. Un rischio, ahimè, assai concreto.

E pensare che solo invertendo le parole nel titolo – trasformato in “La crescita dei luoghi” – ci saremmo trovati davanti a un’altra opportunità di riflessione, una storia completamente diversa. Solo apparentemente messi in secondo piano, i luoghi sarebbero diventati i veri protagonisti e la crescita (a quel punto slegata da un’accezione esclusivamente economica) si sarebbe potuta declinare in tutt’altro modo. Peccato.

*Remo Bodei, Limite (Il Mulino, 2016)

 da https://pontidivista.wordpress.com/

 

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