"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Tito e i suoi compagni

La sopracoperta del libro

Jože Pirjevec

Tito e i suoi compagni

Einaudi, 2015

(29 gennaio 2016) E' uno sguardo sul Novecento quello che ci propone Jože Pirjevec in questo minuzioso lavoro di ricerca storica (620 pagine, 1722 note bibliografiche) sulla figura che più di ogni altra ha caratterizzato la vicenda di un paese come la Jugoslavia, sorto e scomparso nel corso del secolo breve.

Non è solo una questione di date. C'è dell'altro, che ben interpreta la lucida follia di questo secolo, le sue “sovrumane promesse” e le grandi tragedie che il Novecento ci ha lasciato in eredità.

Ci si dovrebbe chiedere, semmai, le ragioni che hanno portato un piccolo paese ad essere al centro del mondo. Perché, a pensarci bene, il Novecento nasce e muore a Sarajevo. Perché qui avviene la più forte resistenza popolare al nazifascismo. Perché è la Jugoslavia di Tito a rompere nel 1948 il monolitismo del blocco sovietico. Perché è sempre qui che prende il via l'idea del “non allineamento”, movimento che accompagnerà nel secondo dopoguerra la fine del colonialismo. Perché è ancora qui che negli anni '90, dopo mezzo secolo e nel cuore dell'Europa, riappariranno i campi di concentramento della pulizia etnica. E come anche un piccolo centro possa contenere – lo insegnano gli esoterici – tutto il mondo1.

Una domanda che il bel libro di Jože Pirjevec non si pone, interrogandosi piuttosto nelle pagine conclusive sul giudizio che la storia consegnerà ai posteri della vicenda di Tito e dei suoi compagni. Un ruolo soggettivo che indubbiamente, nel bene e nel male, ha saputo influenzare il corso degli avvenimenti.

Dovremmo tutti riconoscere che, senza questo fronte interno, le vicende della seconda guerra mondiale avrebbero potuto prendere un'altra e ben più tragica piega. Così come, nella ricerca di una terza via di liberazione dal dominio del capitale, il “non allineamento” rappresentò un terreno di ricerca che mosse milioni di intelligenze lungo sentieri inesplorati di azione politica.

Allo stesso tempo il libro di Pirjevec ci aiuta a comprendere l'ossessione per il potere, la paranoica ricerca del nemico, la subalternità verso il dominio delle cose, ma soprattutto i lati più oscuri di un pensiero/azione che separa fini e mezzi, dove i mezzi diventano cultura politica e aprono la strada all'eterogenesi dei fini.

Josip Broz ne esce come un personaggio con la schiena dritta: «Nella moschea ci sono stato, ma non mi sono mai genuflesso» amava dire. Ebbe il coraggio di opporsi ai potenti, va riconosciuto, pur essendone per molti versi affine.

Un libro prezioso per comprendere – se lo si vuole – quanto la tragica fine della Jugoslavia fosse l'esito delle sue contraddizioni piuttosto che il risultato di un complotto internazionale.

Del resto è anche vero che il mondo occidentale, ammainata la bandiera rossa sul Cremlino e finito il bipolarismo, della neutralità attiva della vecchia Jugoslavia non sapeva più che farsene. Meglio dunque tornare all'idea delle aree di influenza. Senza comprendere che, con la caduta del muro, a ben guardare erano andati in crisi anche loro. E che quel che sarebbe accaduto in questi paesi avrebbe rappresentato un'inedita e niente affatto auspicabile post modernità. (m.n.)

1Dževad Karahasan, Sarajevo centro del mondo. Diario di un trasloco. ADV, 2012

Qui la bella recensione di Stefano Lusa sul sito di OBC http://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Tito-e-i-suoi-compagni-161309

 

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