"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Le implicazioni del referendum sulle trivelle

Civiltà del petrolio

di Michele Nardelli

(14 aprile 2016) E' la prima volta che il popolo italiano è chiamato ad un referendum proposto dalle Regioni, più precisamente da nove Consigli Regionali (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto). Che ciò avvenga su un tema che investe l'idea stessa di sviluppo ci racconta molte cose.

Il neo-centralismo statalista

Ci racconta in primo luogo di un decreto (il “Salva Italia”) che ha espropriato le Regioni dalla competenza in materia energetica che con fatica le stesse avevano conquistato. Solo grazie alla nostra autonomia in Trentino ci siamo salvati dalla ri-nazionalizzazione delle centrali idroelettriche, ma la tendenza neo-centralistica appare inequivocabile.

E' bastato creare nell'opinione pubblica un clima ostile alle Regioni ed è stato un gioco da ragazzi far riemergere una cultura centralistica avversa ad ogni forma di autogoverno. Su questo aspetto, ahimè, non c'è destra o sinistra che tenga, quello centralistico è un approccio che passa in maniera trasversale nell'insieme del panorama politico.

Così viene cancellata quella timida stagione che aveva portato nel 2001 alla riforma del Titolo V della Costituzione, assegnando alle istanze del territorio maggiori poteri. Non rappresentava niente di particolarmente eclatante o che assomigliasse vagamente all'autonomia integrale che abbiamo conquistato in questa terra: il federalismo come idea di organizzazione del paese rimaneva ben lontano dalla realtà, si trattava solo di un piccolo segnale nella giusta direzione che aveva trovato conferma con il referendum del 2001.

Con l'attuale governo si è creata una maggioranza trasversale che ha demolito il Titolo V, cancellate le Province, sterilizzato i poteri delle Regioni come appunto quello attorno alle scelte energetiche.

Il modello energetico

La seconda implicazione del referendum di domenica prossima è il modello energetico.

L'attuale economia mondiale è fondata sui combustibili fossili, ovvero non rinnovabili, climalteranti, prevalentemente esogeni e dipendenti da sistemi di natura oligopolistica. Senza dimenticare che il loro carattere limitato è all'origine di nuove guerre e di processi di natura neocoloniale.

Altre strade, come il nucleare, espongono a controindicazioni di carattere ambientale, sicurezza e gestione partecipata che hanno portato i cittadini italiani ad un nuovo (e spero definitivo) pronunciamento referendario inequivocabile.

L'Italia avrebbe dunque tutto l'interesse ad intraprendere un'altra strada, fondata sulle energie rinnovabili, ovvero acqua, sole, vento, geotermia e biogas o che possono riprodursi con l'uso di energie rinnovabili (idrogeno). Ma sin qui, tanto la ricerca che la sperimentazione su larga scala è stata limitata ed osteggiata dalle lobby del petrolio, la cui influenza è emersa anche nelle recenti inchieste giudiziarie che hanno portato alle dimissioni della ministra Guidi.

L'ossessione della crescita e l'urgenza di un nuovo modello di sviluppo

Altra implicazione del referendum di domenica 17 aprile riguarda la necessità di uscire dall'ossessione della crescita.

Quello fondato sui combustibili fossili rappresenta un modello di sviluppo che ha accompagnato la storia del Novecento. Oggi iniziamo a prendere coscienza di quanto fosse pericolosa questa strada, pagandone le conseguenze in primo luogo sul piano dei cambiamenti climatici. La crescita esponenziale dei consumi nel corso degli ultimi decenni ci ha portati ad oltrepassare i limiti della sostenibilità.

Se nel 1961 (cinquantacinque anni fa, praticamente un batter di ciglia nella storia della Terra) il pianeta consumava ogni anno il 50% delle risorse che gli ecosistemi terrestri riuscivano a produrre, alla fine del 1987 abbiamo iniziato ad oltrepassare il limite consumando ogni anno di più di quanto Gaia riesce a produrre. Oggi l'impronta ecologica del pianeta è tale che dal 13 agosto in poi siamo in deficit e in Italia la data del superamento (overshoot day) è stata nel 2015 il 6 di aprile.

Anziché riflettere sull'insostenibilità di questo modello di sviluppo, invece di prendere atto dei segnali inequivocabili che la natura ci invia, proseguiamo nella pazza corsa della crescita senza limiti, continuando ad usare l'andamento del PIL come parametro dello sviluppo. Quando invece servirebbe imboccare rapidamente e senza indugi la strada della riconversione ecologica ed un diverso modello di sviluppo basato sulla sobrietà e sulla riqualificazione dei nostri consumi. Rivedere il modello energetico è parte integrante di questa riconversione.

La difesa dell'ambiente e del lavoro

Quelle trivelle lungo le coste italiane, in un ecosistema tanto delicato qual è il Mediterraneo ed in particolare il mare Adriatico, ci raccontano di un altro significato che assume il voto di domenica, quello ambientale.

Un diverso modello di sviluppo deve necessariamente partire dalla salvaguardia e valorizzazione dell'unicità dei territori, del loro ambiente naturale, dell'intreccio che la storia ha prodotto nel rapporto fra uomo e ambiente modellando i caratteri specifici di un paese che deve alla sua posizione geografica molte delle sue prerogative in ambiti come la cultura, il turismo, la produzione agroalimentare. Un patrimonio di straordinaria importanza.

Pensare in termini europei significa fra l'altro pensare la nostra economia non più in un'ottica nazionale – dove ogni stato doveva immaginarsi indipendente nei settori considerati strategici – bensì mettere a disposizione di una nuova dimensione sovranazionale di mezzo miliardo di abitanti le proprie unicità, dalla storia, alla terra, al mare.

Prima dunque ci liberiamo dell'industria pesante, meglio potremo corrispondere alle aspettative che la cittadinanza europea ci chiede. Le trivelle, così come gli impianti petrolchimici, rappresentano residui di un passato del quale liberarci prima possibile.

Questo paese ha già pagato e continua a pagare sul piano del degrado ambientale e della salute dei cittadini per le scelte compiute in nome della crescita e dello sviluppo senza limiti, che si tratti di Taranto o delle “terre dei fuochi”, di Porto Marghera o del dissesto idrogeologico, dell'uso dell'amianto o dei pesticidi in agricoltura... Si è già detto che il mare in prossimità delle trivelle è inquinato da sostanze cancerogene in due casi su tre, che i sondaggi e le trivellazioni sono dannosi alla fauna ittica, che le compagnie non procedono alla bonifica dei siti (figuriamoci se le concessioni sono senza scadenza).

I sostenitori del non voto (o del no) si appellano alla salvaguardia dei posti di lavoro. In realtà, quella di un nuovo modello di sviluppo è anche una risposta ad un assetto occupazionale che proprio per la sua dimensione obsoleta (nonché per effetto della delocalizzazione di settori che non si fondano sull'unicità delle produzioni) è destinato a perdere numeri crescenti di addetti. Guardare oltre significa dunque investire in tutto ciò che appare unico, sostenibile e riproducibile nel tempo. Attardarsi sul fossile significa ancorarsi ad un modello destinato prima o poi ad essere rottamato e a lasciare dietro di sé scenari desolati, talvolta irreversibili (pensate alle aree industriali a nord di Trento).

Il valore della partecipazione

Non sto qui a considerare altre implicazioni – concrete e simboliche – del voto di domenica. Ma c'è una cosa ancora che mi porta ad esortarvi ad andare a votare. L'invito ad astenersi dal voto venuto dal Presidente del Consiglio cade in prossimità dell'approvazione in Parlamento della Riforma Costituzionale.

Non sto qui ad addentrarmi negli aspetti di criticità che si evidenziano in questa revisione costituzionale (avremo modo di parlarne diffusamente), ma certamente fra gli effetti del voto parlamentare di martedì scorso c'è quello del rafforzamento del potere esecutivo, in nome della cosiddetta governabilità.

Questo richiede e richiederà sempre di più l'attivazione di strumenti di bilanciamento da parte della società rispetto alla possibilità di derive autoritarie. Le forme partecipative sono la chiave di tale bilanciamento, nelle forme che la democrazia ha saputo produrre ed altre che sapremo sperimentare. Non ho mai amato lo strumento referendario, troppo manicheo per il valore che personalmente assegno alla politica. Ma non c'è dubbio che lo strumento principe della democrazia diretta, se usato con intelligenza come è stato nel caso della consultazione per fermare la privatizzazione dell'acqua, può riuscire ad arrivare dove la politica – per limiti culturali, per interesse o altro ancora – non è in grado di farlo. Svuotarlo attraverso l'esortazione al non voto, oltre ad essere indice di inciviltà giuridica e politica, va nella direzione opposta.

Per questo insieme di ragioni, domenica prossima andrò a votare e voterò sì.

 

2 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da gigidalponte il 17 aprile 2016 11:40
    Il neo-centralismo statalista. Sì.Il modello energetico.Sì.L'ossessione della crescita e l'urgenza di un nuovo modello di sviluppo.Sì.La difesa dell'ambiente e del lavoro. Sì.Il valore della partecipazione.Sì.
    C'è un tema che mi piace ulteriormente esplicitare, come se non fosse astratto ma un oggetto concreto: quello della Comunicazione, libera, diffusa, partecipata, sentita come valore per tutti, capace di dare cultura, informazione e competenza. Se no, tra monopoli, propaganda di interessi particolari e indifferenza degli 'incoscienti', il progresso di democratico si spunta.
  2. inviato da Pietro il 15 aprile 2016 15:04
    mi riservo di leggere più tardi l'articolo, ma per rassicurarti ti dico che andrò a votare per scrivere SI
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