"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

In attesa che arrivi il 5 dicembre…

dal sito Ponti di vista

 

In attesa di capire se verrà accolto il ricorso di Onida – viva lo spacchettamento! – e se non prevarrà la voglia di posticipare – no, vi prego, no… – propongo questa breve riflessione che non entra precisamente nel merito del quesito e nel suo giudizio tecnico, ma prende in considerazione ciò che sta a monte di ogni possibile riforma o trasformazione dell’esistente, cioè le condizioni del contesto politico e sociale dentro il quale dovrebbero verificarsi. Mi sembra un argomento più interessante della sfida tra comitati del #bastaunsì e del #iovotono, a cui però farò riferimento almeno per segnalare la mia intenzione di voto.

di Federico Zappini

Sto seguendo – non potrebbe essere altrimenti – il dibattito attorno al referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo. Definirlo dibattito è già di per sé un atteggiamento eccessivamente magnanimo per quella che si trasformando giorno dopo giorno in una battaglia senza esclusione di colpi. Lo stimolo per la stesura di questo pezzo – che, come dice il titolo, sarà l’unico che pubblicherò sul tema – è emerso dalla lettura di un editoriale del direttore del Foglio Claudio Cerasa (Generazione perché sì) di qualche tempo fa e, parallelamente, di un certo numero di commenti che riducono a opportunismo, o peggio, la scelta di alcuni (non molti per la verità) di immaginare o almeno riflettere (di) una terza via – non nel voto, ma di pensiero – alla sfinente battaglia tra Sì e No. E ancora manca quasi un mese.

Cerasa teorizza una motivazione generazionale alla base della decisione di dare credito – nell’urna e nella sua trasposizione sociale – alla riforma costituzionale. Lo fa in questi termini:

Il referendum non è solo uno scontro freddo tra due scuole di costituzionalisti, è uno scontro tra due idee diverse di Italia. Tra chi sogna la possibilità di dare a chi vince le elezioni gli strumenti per governare senza essere ostaggio degli ottimati, delle piccole ingessate minoranze del paese, riaffermando con forza il primato della politica sacrificato da molti anni nel nostro paese sull’altare della rappresentanza e della centralità del Parlamento a discapito della responsabilità del governo. Dall’altro lato c’è invece un pezzo di paese che ha scelto di promuovere un sistema dove nessuno vince davvero, dove lo spirito proporzionale deve prevalere sullo spirito maggioritario, dove la concertazione deve prevalere sulla competizione e dove viene considerato un diritto assoluto la presenza di una democrazia in cui chi vince non deve vincere troppo al punto che chi vince in un ramo del Parlamento può per costituzione soccombere nell’altro.

Mi permetto di dire – senza essere un militante del fronte del no – che nel concetto espresso emerge l’idea che non si possa risolvere il “pantano” rappresentativo descritto (che tra le altre cose non ha a che fare solo con il referendum, ma è culturale e pre-politico, locale, italiano, europeo e planetario) politicamente – come si dovrebbe – ma attraverso degli accorgimenti regolamentari. Gustavo Zagrebelsky – nella sua interlocuzione con Matteo Renzi, una prestazione non certo brillante nel complesso – ha toccato un punto fondamentale, in parte sottovalutato dai commentatori nostrani. Va benissimo (a parere dei promotori, ovviamente) far prevalere il principio della governabilità su quello della rappresentatività. E’ scelta legittima – che io condivido fino a un certo punto – di cui bisogna però aver chiare le implicazioni a valle. E non mi riferisco esclusivamente al fatto che il contesto politico italiano sia in questo momento caratterizzato da una particolarissima divisione tripolare, difficilmente conciliabile con un modello come quello proposto dalla riforma costituzionale nella sua combinazione con la nuova legge elettorale. Mi riferisco invece – e mi rendo conto di ragionare dentro uno schema forse insufficientemente pragmatico – all’impossibilità di procedere alla semplificazione del quadro politico, e sociale e culturale, esclusivamente attraverso l’utilizzo di norme che ne forzino la complessità, piegando la realtà – appunto complessa, fatta di differenze e non di omogeneità – alla semplificazione dei risultati elettorali cui si vorrebbe ambire. “Tra chi sogna la possibilità di dare a chi vince le elezioni gli strumenti per governare senza essere ostaggio degli ottimati, delle piccole ingessate minoranze del paese, riaffermando con forza il primato della politica sacrificato da molti anni nel nostro paese sull’altare della rappresentanza e della centralità del Parlamento a discapito della responsabilità del governo.” è una frase che, nella sua voglia di tracciare una linea netta tra chi sta da una parte e chi dall’altra, non solo non offre argomenti per riportare al centro del campo di gioco la politica, ma ne certifica l’inutilità e suggerisce – senza dirlo esplicitamente – la possibilità, in un prossimo futuro, di sostituirla con tecnici (quelli capaci di fare, che non perdono tempo in discussioni) e in un secondo momento addirittura con la tecnologia (più efficienza, ci mancherebbe). A quel punto è vero, le minoranze non possono che essere intese come un impiccio…e tali non sono solo quelle che siedono in Parlamento, ma anche quelle che abitano i margini della nostra società, quelle che normalmente rallentano il passo dei migliori, quelle che – in un mondo che ci pretende tutti identici senza dare a tutti le condizioni materiali per essere uguali –  ci mettono di fronte al fatto che la diversità è un dato innegabile di cui tener conto, rispetto al quale chi intende occuparsi di politica è chiamato a privilegiare le doti dell’ascolto, della mediazione, della condivisione piuttosto che la fregola del tirar dritto, dell’andare avanti a tutti i costi.

Intendo dire che governare non è solo l’azione di assumere decisioni (o produrre leggi a getto continuo) senza che qualcuno possa impedirlo o rallentarne il flusso. E’ aver cura del contesto fatto di persone, relazioni, conflitti e una miriade di minoranze e pluralità, più o meno ingessate e resistenti. Chi governa è chiamato a mettere a valore le energie residue e a prendersi cura di chi energie non ne possiede proprio, a meno che non si creda che – in nome dell’efficenza di governo e della prestazione competitiva richiesta al decisore politico dalla velocità dei processi economici globali – i valori dell’inclusione nella vita pubblica e della partecipazione ai processi democratici siano da ritenersi sacrificabili. Va quindi riconosciuta la giusta attenzione agli effetti che derivano da tale mossa. L’Autonomia trentina, da questo punto di vista, potrebbe apparire come un piccolo/grande ostacolo alla gestione omogenea e centralizzata del potere nazionale. Dentro lo schema proposto da Cerasa se ne potrebbe fare quindi a meno in futuro? E in fin dei conti – alzandosi di scala – l’Italia (o la Francia, o la Norvegia) dentro contesti geopolitici che sorvolano i confini statuali altro non sono che minoranze, parzialità. Anche queste quindi inutili e in prospettiva e sacrificabili ottusi ottimati?

Forse la questione è più articolata di quanto sembra, così come il caso degli sparuti sostenitori di una possibile “terza via”. In un contesto in cui il 30% dei possibili votanti è indeciso (perché poco gli interessa, perché poco si informa, perché non percepisce il passaggio come decisivo) e un altro 40% al momento pensa di non avvicinarsi alle urne, la schematizzazione tra eroi della resistenza (ovviamente chi vota per il NO), criminali della dittatura montante (ovviamente chi vota per il SI’) e indifferenti (chi non gradisce la compagnia di entrambi gli schieramenti…) mi appare come un tentativo di riduzione troppo striminzita della complessa situazione italiana.
Se andasse a votare all’incirca il 50% degli aventi diritto quello dell’astensione sarebbe un dato assolutamente politico e rilevante. Un atto, di negazione, che rappresenta il sentimento di una parte cospicua di cittadinanza, attivissima nel dare forma alla propria passività o peggio estraneità. Non sarà possibile non tenerne conto, insieme sintomo ed effetto – ormai sedimentati e strutturali – di uno scollamento netto tra la Costituzione formale su cui dovremo esprimerci e la Costituzione materiale che le comunità dovrebbero contribuire a rafforzare e manutenere quotidianamente, una prassi capace di mantenersi costantemente come garanzia fondativa del concetto stesso di cittadinanza e democrazia. Si continua a centrare l’attenzione sull’infrastruttura democratica e sul suo funzionamento dimenticando di farsi carico delle condizioni di fragilità sociale e culturale dentro le quali il risultato referendario (qualunque risultato) è maturato e dispiegherà i suoi effetti.

Per quanto mi riguarda voterò no, principalmente perché trovo che la riforma metta definitivamente nel cassetto qualsiasi ipotesi federalista e di autogoverno territoriale, alla faccia della tanto sbandierata Camera delle Autonomie Locali che con questa dicitura non compare nemmeno nella riforma. La riforma ci allontana inoltre (semplicemente perché non se ne fa cenno in nessuna discussione) dall’intenzione – questa sì rivoluzionaria – di mettere sotto stress la sovranità residua degli stati nazionali rispetto a una traiettoria di integrazione europea e di un rinnovato quadro di azione politica sovranazionale. Della competitività dell’Italia (mutuando senza troppe difficoltà dall’economia il termine) nella disfida con le altre nazioni invece continuiamo a sentire.

Non sono certo – anzi, a essere sincero ne dubito fortemente – che si debbano inseguire a tutti costi gli ideali di velocità e competitività che ci vengono quotidianamente proposti come senza alternative. Così come non sono assolutamente convinto che il nodo sia quello di legiferare tanto e in fretta, ma piuttosto farlo bene, con cognizione di causa, facendo valere la bontà delle scelte non tanto in termini di rapidità ed economicità del processo quanto di efficacia e lungimiranza che il risultato del processo produce. Detto questo – e quindi presa posizione – confesso di continuare a leggere volentieri le posizioni di chi problematizza politicamente e culturalmente questo referendum e che mi trovo molto meglio in loro compagnia che in uno dei due schieramenti, entrambi vittime di un imbarbarimento che – è questa la contraddizione più grande – si accusano a vicenda di aver prodotto. La terzietà rispetto a due posizioni che si ritengono non interessanti non é sempre frutto di opportunismo ma può essere anche figlia dell’urgenza di rompere uno schema di cui ci si è stancati e di cui non ci si sente di far parte.

Per questo motivo non sopporto l’idea che si continui a ripetere che questa é l’ultima occasione, dando per scontato che dopo il 4 dicembre non ci sia più niente e nessuno che possa immaginare un patto costituente migliore di quello proposto da questa questa riforma. Preferisco pensare che rimanga aperta la possibilità di essere parte attiva e propositiva di un’alternativa che oggi non c’è, o che almeno nella confusione generale del quadro politico attuale non riesce a conquistarsi luoghi adeguati e tempi sufficienti di pensiero e azione. Per fortuna il 5 dicembre non è troppo lontano…

dal sito https://pontidivista.wordpress.com

 

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