"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Il Trentino e il girello della politica

Val di Sole

 

Riprendo dal blog https://pontidivista.wordpress.com questa interessante riflessione

di Federico Zappini

Non era difficile da immaginare: è dunque arrivato il momento in cui qualcuno tenta di aggiungere una variabile nell’equazione della politica trentina. Un’equazione che – dal 2013 in poi, almeno – dimostra una persistente difficoltà nel trovare una quadra accettabile. Era altrettanto evidente che tale spunto sarebbe potuto arrivare solo da chi si sentisse libero di intervenire da fuori quello schema che – nel bene e nel male – caratterizza il governo della Provincia autonoma di Trento da almeno quindici anni. Ecco allora che la presa di parola di un gruppo di sindaci, espressione di una sensibilità civica (cosa significa oggi?) e non partitica, era atteso. Potrebbe dimostrarsi addirittura utile se non ci si limiterà a leggerlo attraverso le schermaglie tra addetti ai lavori ma lo si accoglierà come stimolo alla riflessione generale sullo stato di salute della vita democratica e politica della comunità trentina, e non solo.

Correre “da fuori” va di moda. Permette di acquisire i gradi di outsider e innovatori, spesso auto assegnandoseli. Due categorie che ovviamente non è sufficiente evocare, ma bisogna dimostrare di saper praticare davvero. Non è un caso (o forse sì…) che questo dibattito si apra a pochi giorni dalla vittoria nelle presidenziali francesi di Emmanuel Macron. Un estraneo (quanto davvero?, quanto per una raffinata strategia di marketing politico?) ai partiti tradizionali, ridotti a simulacro di se stessi sia per consenso (ai minimi storici) che per capacità (altrettanto marginale) di leggere le sollecitazione di questo tempo inquieto. Non avere un passato – ma chi non lo ha? – sembra essere in questo momento un merito per chi intende fare capolino nella vita politica a ogni livello. Non dover giustificare alcuna scelta compiuta in precedenza offre la possibilità di avere le mani libere di fronte alla complessità che questa fase storica propone quotidianamente ad amministratori e semplici cittadini. Correre “da fuori” rappresenta un vantaggio competitivo non indifferente, almeno nel breve o brevissimo periodo. Questa condizione non basta però per certificare la bontà della “rivoluzione civica” proposta – ancora in forma embrionale – dai sindaci trentini.

Partiamo da un dato di contesto, necessario per addentrarci nel ragionamento. La coalizione di centrosinistra non se la passa benissimo, è evidente per tutti. Che sia arrivata a fine corsa è opinione diffusa. Per certi versi è anche la mia, per quanto questa possa valere. Si è esaurita – non c’è nulla di strano in questo – una fase politica e serve essere onesti nell’osservarne le condizioni attuali per immaginare un percorso di transizione verso uno schema altro, che sappia rispondere alle esigenze di inclusività e orizzontalità, oltre che di efficacia e profondità di visione, tradite negli ultimi anni. Sembra essere venuta meno la spinta innovatrice del modello autonomistico. Non sono, da questo punto di vista, le condizioni comparate da prendere in considerazione – le classifiche continuano a premiarci – ma la capacità assoluta di essere luogo generatore di unicità, a livello politico come economico o culturale. Questo dato preoccupante prende le mosse – anche, ma non solo – dall’impoverimento della qualità media e da una generale mancanza di curiosità delle classi dirigenti. Nella politica, nei mondi della cooperazione, della cultura e dell’associazionismo non si è sostenuta con la dovuta convinzione l’idea di abilitare la comunità tutta a forme di leadership diffusa, responsabile e creativa, preferendo un centralismo funzionale e tutto organizzativo che oggi ha il fiato corto di fronte a sfide sempre più articolate. Conseguenze e insieme cause della debolezza dei leader sono la frammentazione dei corpi intermedi, che ne dovrebbero essere ecosistemi privilegiati di formazione e crescita, e la fragilità delle condizioni sociali che sono base necessaria, e non sostituibile, dentro la quale si alimentano le migliori esperienze di pratica politica. Soffrono i partiti, i sindacati, le cooperative, le associazioni e con esse la tenuta della comunità che a essi garantisce linfa e struttura. Evito di entrare nei casi di cronaca – giudiziaria, politica o addirittura nera – che punteggiano la storia recente, e recentissima, di questo territorio. Altro non sono che punte affioranti di iceberg che nascondono la loro parte più profonda. Obiettivo di queste righe è provare a mettere nero su bianco qualche appunto che possa aiutare a non sbatterci contro con eccessiva violenza.

Non è di oggi la spinta a rifarsi alla prossimità del territorio per descrivere le condizioni necessarie per far uscire la politica dalle secche in cui si trova. Nel 2004 in un editoriale dal titolo evocativo – “Meglio tornare al territorio” – Giuseppe De Rita tracciava già una possibile direzione di marcia. In uno scenario fatto di vele stanche (quelle dell’ideologia, degli interessi, dei blocchi e delle coalizioni sociali) è “sul territorio che si fa sempre politica e si può operare il suo cambiamento”. Bisogna capirsi però sul significato di territorio e comunità, di civismo, partecipazione e politica. In questo ci aiutano – offrendoci spunti preziosi – Franco Arminio e Ilda Curti. Il primo – poeta e paesologo – ragionando su come allestire buone prassi di sviluppo locale, ci dice di praticare il conflitto perché “Se non si arrabbia nessuno vuole dire che stiamo facendo calligrafia, vuol dire che stiamo stuccando la realtà, non la stiamo trasformando” e di “agitare le acque, [perché] ci vuole una comunità ruscello e non una comunità pozzanghera”. La seconda, interrogandosi su che forma devono assumere le attività culturali dentro lo spazio comunitario sfarinato contemporaneo, introduce ulteriori elementi che ci permettono di affinare gli strumenti interpretativi. «La cultura, le Istituzioni culturali,» – scrive – «sono strumento di democrazia perché possono diventare luoghi dove intercettare/costruire/coinvolgere nuovi immaginari. Possono contribuire alla revisione dei codici culturali di una comunità se accettano di mettere in discussione i propri perimetri. Superando la frattura del dentro/fuori,  possono rendersi permeabili a nuovi significati che una società g-locale produce a prescindere dal luogo codificato, giusto, corretto per farlo. Si fanno luogo, come direbbe Emmanuele Curti – tessitore di bordi e di sconfinamenti.» Abbastanza per dirci che la costruzione di immaginari di comunità – anche politici – passa necessariamente per interventi in profondità, dentro il bagaglio valoriale di riferimento (oggi leggero e confuso, spesso logoro) dei singoli e dei gruppi che la compongono. É su quel bagaglio – tutto da ricostruire – che anche il Trentino deve impegnare le proprie energie, non in termini di proposte di buon senso – del buon sindaco pragmatico?, né di destra né di sinistra?, non politico? – ma di ambiziose indicazioni per raccogliere i cocci del “non più” iniziando la scrittura condivisa del “non ancora”, quell’orizzonte futuro oggi apparentemente impraticabile.

La corsa alle prossime scadenze elettorali (politiche, provinciali, comunali…chissà in quale ordine e con quale legge di riferimento) è cominciata e tutti cercano di prendere le posizioni migliori, compresi quei sindaci che in questi giorni si sono esposti, agitando più di un pensiero. Non é detto che non ci sia bisogno di una diversa articolazione dell’infrastruttura del centrosinistra trentino, vista anche la difficoltà che ognuno dei vertici del triangolo (Pd, Patt, Upt) sta attraversando e quanto le crisi di ognuno dei partiti componenti la coalizione pesino sulla qualità dei loro rapporti e sulla capacità complessiva di elaborazione politica. Importante è capire che compito della politica (e di chi intende farsene carico) non è assecondare le rivendicazioni delle singole parti della comunità e neppure lisciare il pelo dei particolarismi che la compongono, oggi in modo ancora più schizofrenico che in passato. É prendersi cura delle difficoltà che attraversa, interpretare e tenere insieme i bisogni e i desideri che esprime, mettersi al suo fianco accompagnandone l’incedere, mai come oggi faticoso e precario. É valorizzarne le energie – non poche, ma certamente poco in comunicazione – e saperne gestire le ruvidità e le contraddizioni – non poche, certamente predominanti. É abilitare ogni singolo cittadino a forme di gestione sempre più collettive e collaborative, a scenari e partite allo stesso tempo locali e globali.

Non basterà aggrapparsi al tranquillizzante girello (nell’accezione filosofico-educativa che ne offre Kant) che fino a oggi sembra aver sostenuto – con risultati spesso di ottimo livello – le traiettorie di sviluppo di questa terra di frontiera. Dal girello abbiamo l’obbligo di scappare, disobbedendo alle posizioni di confort e alle ricette precostituite. Non sarà la difesa dello status quo a tenerci a galla ma il muovere passi coraggiosi, magari i primi incerti perché in campo almeno in parte ignoto. Saremo in grado di scegliere la rotta controvento, certamente la meno scontata e battuta, in grado di portarci fuori dal piano inclinato sul quale stiamo scivolando, perdendo in biodiversità e scadendo nel conformismo? Chi se la sente di prendere il timone per iniziare questa navigazione complicata, dall’esito incerto e allo stesso tempo affascinante?

 

0 commenti all'articolo - torna indietro

il tuo nick name*
url la tua email (non verrà pubblicata)*