"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Dappertutto e rasoterra

La prima di copertina del libro

Giuseppe De Rita

Dappertutto e rasoterra

Cinquant'anni di storia della società italiana

Mondadori, 2017

 

L'Italia di De Rita dal boom allo storytelling

di Aldo Bonomi

Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis, ci invita a un ricordare il futuro oltre il presentismo. Ha pubblicato un ponderoso tomo “Dappertutto e rasoterra” cinquant'anni di storia della società italiana (Mondadori). Un affresco, una icona, per dirla con il Cacciari del “Pensare per immagini” a cui De Rita ci ha abituati con il suo denominare il divenire sociale con metafore interroganti. Mi evoca il quadro di Carlo Levi che dopo il suo “Cristo si è fermato a Eboli” dipinse anche la storia sociale della Basilicata, per Italia '61 che celebrava i suoi cento anni rappresentando il secondo popolo, sempre raccontato dal primo. Il dipinto oggi sta lì a Matera nel museo che si affaccia sui Sassi, icona allora degli invisibili da includere e oggi ipermoderna immagine di un'incerta cultura europea alla ricerca di radici e storia.

De Rita si forma, come racconta nella sua biografia-introduzione, in quella stagione di intelligenza collettiva e costituzione materiale fatta da operatori di comunità olivettiani, da assistenti sociali, da sociologia di territorio più che accademica, che andavano per comunità concrete producendo “autocoscienza e autodominio” nel nostro passare da Paese agricolo a Paese industriale. Stagione collegata alla sezione sociologica dello Svimez e alla programmazione dello sviluppo di una parte politica sensibile al richiamo di un general intellect sociale che poneva come questione la dialettica interrogante tra primo e secondo popolo di Giulio Bollati e l'affermazione sebregondiana «non si dà economia senza società».

Il mettersi in mezzo tra le due polarità è l'intuizione deritiana da cui nasce il Censis. Nella convinzione che non basta una programmazione dall'alto ed è monco partire solo dalle considerazioni del Governatore della Banca d'Italia sull'economia senza andare sulla traccia dei fenomeni. Sotto i piedi, rasoterra, si sentiva il fibrillare dell'Italietta del boom economico. Il venire avanti della società complessa, “Addio alla società semplice”. Così titolava il primo rapporto che intuiva il venire avanti delle tensioni di un Paese moderno e difficile, ma soprattutto, la fine di un ciclo di sviluppo. Quello dello sviluppo dall'alto e dell'animazione dal basso con lo Stato in mezzo con la sua programmazione inclusiva che mostrava tutti i suoi limiti. Necessitava una sintesi sociale rispetto al paradigma economico del fordismo dove, nella punta alta della piramide esplodeva il conflitto di classi e generazioni.

Il ciclo degli anni '70 vide De Rita e il Censis scartare di lato. Seguire la lunga deriva dell'autocoscienza e dell'autodominio del corpo sociale che, più che alla verticalità dei poteri, si dedicava all'orizzontalità del sommerso e dei localismi. Racconto e ricerca sociale quasi irriverente, da piccolo e bello che suonava come uno sberleffo per chi pensava in grande. Dalla Confindustria al ceto politico, di governo e antagonista, fermo alla grandezza dell'impresa e della statualità. Il succedersi dei rapporti segnalava la divaricazione tra società e istituzioni, una proliferazione a cespuglio, a macchia di leopardo, che altro non era che disegnare e seguire la fabbrica diffusa del postfordismo e dei distretti produttivi locali. La crescita faceva condensa in una società più adulta: il censimento dell'81 mise in luce il raddoppio delle imprese da mezzo milione a un milione. Appariva il lungo ciclo della cetomedizzazione. L'analisi delle classi di Sylos Labini con il Censis si fece racconto sociale di vite minuscole, di “stracciaroli pratesi” ricorda con orgoglio De Rita.

Non ha mai condiviso l'ideologia del legno storto per cui la composizione sociale altro non è che legno da raddrizzare ai propri fini di consenso e potere. Ma era chiaro anche a lui, da inguaribile continuista qual è, che dopo la proliferazione necessitava il ricentraggio. Convinto che tra economia e politica va messa in mezzo la società, i rapporti degli anni '80 sino ai primi degli anni '90, quelli della fine della Prima Repubblica, sono un sollecitare continuo al policentrismo dei poteri, al passare da logiche oligarchiche alla poliarchia, da uno Stato soggetto ad uno Stato funzione invitando al riconoscimento della società di mezzo. Si avvertiva il venire avanti della società liquida e frammentata. Non a caso citando Nietzsche lui continuista, sostenitore del si governa accompagnando, invitava la politica a leggere il caos come condizione del cambiamento. Avvertiva il frammentarsi e la “rottura dell'invaso borghese” e scrive: «noi Censis, e io per primo, abbiamo sperato e lavorato affinché dal corpaccione cetomedista nascessero germi di una neoborghesia capace di responsabilità collettiva, di collettiva visione del futuro».

A proposito della diaspora dei ceti medi e del “Che fine ha fatto la borghesia?” con amarezza De Rita cita il poeta Mario Luzi a commento di un suo rapporto: «Più che diventare borghesi, hanno preferito diventare borghigiani». Da qui il rancore delle comunità rinserrate frutto della crisi della cetomedizzazione e dell'arresto della mobilità sociale di una società dell'incertezza e della paura nel salto d'epoca del “mondeggiare cioè vivere vitalmente la globalizzazione”. Siamo al passaggio di secolo, alla potenza dei flussi che investono i luoghi. Che De Rita delinea elencando i grandi temi epocali: dalla “violenza del sacro” di culture che esasperano e non secolarizzano il fondamentalismo religioso, a un irrompere della tecnica con potenza dei mezzi e scarsità dei fini, a un prevalere dei tempi della simultaneità dei social e dello storytelling rispetto al racconto sociale, e uno spazio europeo da “ognuno per sé e Francoforte per tutti”.

Ma De Rita non demorde e ci invita a ragionare su ciò che resta, indicandoci un processo di riappropriazione che vale non solo per il singolo soggetto ma anche per la società nel suo insieme. Partendo dai nuovi “soggetti reagenti”: la presenza di milioni di immigrati, la capacità di minoranze industriali di produrre per competere, l'arrivo nella competitività internazionale di piattaforme urbane e di territori evoluzione degli antichi distretti. Partendo dal ciò che resta ci invita a rifare condensa stemperando la comunità del rancore e della paura in comunità di cura e comunità operosa per fare società. Auguri.

bonomi@aaster.it

 

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