"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Primo maggio. Le parole oltre la musica

La primavera di Praga

«La maledizione di vivere tempi interessanti» (80)

di Michele Nardelli

Primo maggio 1968. Primo maggio 2018. Mezzo secolo, nel quale sono scorse le nostre vite, fra aspettative che ti toglievano il fiato, trasformazioni importanti delle quali ci siamo sentiti protagonisti, ma anche disincanto e sconfitte.

Con il coraggio delle proprie idee che ti portavano a navigare controcorrente, la fatica forse ancora maggiore di abitare spazi più ampi nei quali cercare di dare cittadinanza ad un pensiero laterale quando la politica diventava strumento per l'affermazione personale, il senso di solitudine quando ci si è resi conto che quel modo di intendere la politica faceva breccia anche fra chi non aveva nulla o quasi da difendere. Perché la povertà non è santa.

E il continuo interrogarsi senza reticenze, quando la sinistra assumeva il volto inguardabile delle burocrazie, della doppiezza, dei carri armati. Senza nasconderci dietro alibi rassicuranti di valori traditi. Via via sempre più consapevoli che il problema stava nei fondamentali, in una visione del mondo che ci stava portando (e ci porterà, salvo un improbabile ripensamento) oltre il limite, nel baratro dell'insostenibilità.

Mi scorrono davanti i tanti “primo maggio” di questa piccola storia personale. Il sentirsi dalla parte degli ultimi, la retorica che non aiuta a cambiare tanto da non poterne più, la musica che fa da supplenza alle parole che non riescono più a comunicare nulla, l'equivoco del lavoro come riscatto sociale. Che non “rendesse liberi” l'avremmo dovuto capire già quando vennero aperti i cancelli di Auschwitz e Dachau su cui campeggiava lo slogan del delirio novecentesco.

E anche se quelli erano gli anni dell'immaginazione al potere, quella stessa immaginazione – ce lo ricorda Anna Bravo – non ci impedì di «distribuire i voti al dolore»1. Ricordo – ero poco più di un ragazzino – l'emozione di quell'estate nell'ascoltare, scattata la mezzanotte, l'edizione italiana di “Radio Praga” e di quella notte fra il 20 e 21 agosto in cui vennero inviati gli appelli a difesa della “Primavera”. Ci avrebbe dovuto far comprendere che non c'erano e non ci sarebbero stati poteri buoni, eppure quella tragedia non impedì a buona parte della sinistra italiana di guardare con sospetto a quelle istanze di libertà e di continuare ad osservare quanto stava avvenendo in quei paesi con una sorta di indulgenza. Senza comprendere che fra mezzi e fini non c'era alcuna differenza e che l'uomo nuovo che questi regimi volevano radicare era semplicemente inguardabile sotto ogni latitudine.

Quegli anni forse non furono formidabili. Ma tutto effettivamente cambiò, per chi ci credeva e per quanti – loro malgrado – sarebbero stati lo stesso coinvolti. Fu ovunque una ventata di partecipazione e di libertà ma i cui esiti – a guardar bene – sarebbero stati molto meno egualitari di quel che si proponevano.

E se in alcuni paesi del mondo occidentale seguirono anni di riforme importanti che modificarono rapporti di potere e stili di vita (pensiamo in Italia al diritto di famiglia, alla statuto dei lavoratori, alla legge Basaglia solo per fare degli esempi), in altri la reazione scatenò la repressione e dittature sanguinarie. Al di là della cortina di ferro, fu la fine dell'idea di riformabilità del socialismo reale nel cui solco pure si muovevano molte delle istanze del fermento intellettuale, un'onda lunga che si sarebbe infranta vent'anni dopo nella protesta di Piazza Tien an men dove ancora le bandiere degli studenti calpestate dai tank erano rosse come il sangue che lì venne versato.

Il fatto è che i conti con la storia del Novecento non li abbiamo ancora fatti, né quelli relativi al fatto che le conquiste sociali in Occidente avvenivano nel quadro di una redistribuzione delle risorse a tutto scapito di una parte preponderante del pianeta che ne era escluso, né quelli sul modello di sviluppo uscito vincente e che si fondava (e si fonda) sulla crescita smisurata dei consumi (e per questo insostenibile), né sulle tragedie che il nazionalismo (e il preteso sovranismo) hanno prodotto nel secolo che non a caso verrà ricordato come quello degli assassini.

Senza l'elaborazione del passato è chiaro che un'altra storia si fatica ad intravvedere. Forse l'errore è stato quello di rimanere nel proprio campo, come a rivendicare dei tempi supplementari nei quali far valere la superiorità del proprio messaggio. Chi a rivendicare che questo era il migliore dei mondi possibile, chi nemmeno capace di riconoscere la sconfitta.

Cosa c'è da festeggiare, dunque? Dovremmo usare la giornata del primo maggio per riflettere e per comprendere che c'è una storia inedita da intraprendere e, prima ancora, un nuovo sillabario da reinventare per ridare un senso alle nostre parole.

1Guido Crainz, Il sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni. Donzelli Editore, 2018

 

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