"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Uomini e no. In dialogo con Francesco Picciotto

Marte e Venere

«Da una parte gli uomini, dall'altra no» scrive l'amico Francesco Picciotto (sulla home page di questo sito oppure in https://adoraincertablog.wordpress.com/2019/01/02/uomini-e-no/). Vorrei essere d'accordo con lui e probabilmente un tempo lo sarei stato. Ora non più.

Uomini e no di Elio Vittorini è stato uno dei libri importanti della mia formazione giovanile. In quel confine fra umanità e disumanità ci sono cresciuto, era la ragion d'essere, il discrimine fra il male e il bene. Cui corrispondevano le scelte di vita, non solo l'impegno politico ma, come nel romanzo di Vittorini, persino gli amori.

Eppure lo stesso Vittorini, figlio di quel tempo manicheo, nelle ultime pagine del suo romanzo apre una possibilità, quella di vedere nel soldato tedesco non solo il seguace del nazismo, ma un operaio triste che porta su di sé il dubbio e forse il dolore. E nel giovane partigiano che lo risparmia, la capacità di distinguere fra l'uomo e la sua rappresentazione... una moto in meno che, bruciata, gli offre una nuova possibilità.

L'umanesimo di Vittorini arriva fin lì, nel far emergere l'uomo che pure sta nell'oppressore. Non so se Primo Levi, nei versi che precedono Se questo è un uomo, accanto al tema cruciale della falsa coscienza, intendesse interrogarsi anche sulla natura umana, non trovando risposta se non nella scelta – quarant'anni più tardi – di mettere fine alla propria vita.

Hannah Arendt con La banalità del male ci ha posti di fronte ad una diversa indagine sull'uomo. Irrisolta nell'interrogarsi sulla possibilità di rinnovare sin dall'origine la natura degli uomini, ma indicando uno spazio di riflessione che pone il tema del bene e del male come parte archetipica dell'uomo. Marte e Venere, Ares e Afrodite, la guerra e la bellezza: ma «che cosa ci trova Amore nella Guerra?» si chiede James Hillman nel suo Un terribile amore per la guerra. E risponde così: «I personaggi dei miti ritraggono le caratteristiche della natura umana, e la psicologia è mitologia in abiti contemporanei».

Ma se tutto questo è nella natura umana, come venirne a capo? Abita qui, io credo, la questione cruciale dell'elaborazione del conflitto, in primis per impedirne la sua degenerazione violenta; in secondo luogo per evitare che – a fronte di narrazioni non condivise – le guerre non finiscano mai; e infine per disinnescare la felicità della guerra, quello spazio di libertà assoluta dove l'uomo, liberandosi dalla propria solitudine, ha potere di vita e di morte sul prossimo.

Costruire non la pace, che sorge nel territorio della guerra, bensì la cultura della pace. Nelle pratiche collettive, quell'«instancabile autoesame» di cui parlava Karl Jaspers, come sul piano individuale nel tenere a bada il criminale che alberga in ciascuno di noi.

No, non ci sono da una parte gli uomini e dell'altra no. Ci siamo noi, fatti di male e bene. «Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della guerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui...»1. (m.n.)

1James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2005 

 

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