"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Povero tempo nostro

Il lago di Carezza e la devastazione del bosco

«La maledizione di vivere tempi interessanti» (90)

di Michele Nardelli

(13 marzo 2019) La voce di Gianmaria Testa ci accompagna nel nostro attraversare le montagne ferite. Ci racconta di un vento che spazza questo povero tempo nostro, appassito nella bestemmia delle parole1. Diventa così l'inaspettata, dolce, colonna sonora di questo ennesimo itinerario di un “viaggio” che si rivela ad ogni suo passo una possibile chiave di lettura del presente2. Ed è come ci cullasse nella tristezza di un ambiente alpino segnato per i prossimi decenni dal ribellarsi della natura.

Tristezza... e rabbia. Nell'osservare gli utenti del divertimentificio sfrecciare con i loro ridicoli fuoristrada finalmente liberati dall'ingorgo delle città. Mi chiedo che cosa ancora debba accadere per comprendere la nostra insostenibilità.

Sì, perché in fondo non siamo poi tanto diversi, non lo sono le nostre vite e la nostra assuefazione ad un mondo artificiale, così da renderci sempre meno in grado di leggere i segni del tempo, i messaggi che la natura ci invia. Che non sappiamo ascoltare e che ci impaurisce, infastiditi da tutto ciò che ci è misteriosamente dato3.

Dovrebbe pure farci riflettere il fatto che nei 41.491 ettari di boschi abbattuti dalla tempesta “Vaia” a fine ottobre non si siano trovati animali selvatici morti. Eppure il rumore e l'effetto degli schianti era simile ad un bombardamento, ci dicono le testimonianze.

Un immaginario artificiale che ci porta a rimuovere ciò che non vogliamo vedere e che chiama in causa il nostro modo di vivere. «La montagna – ci dice Diego Cason in uno dei momenti di riflessione che scandiscono il nostro viaggiare – è un intralcio che pone ciascuno di fronte al tema del limite».

E così, nel raggiungere gli impianti di risalita, si preferisce guardare altrove. Analogamente, nei giorni che hanno preceduto il decimo itinerario lungo il limes immateriale del nostro rapporto con la natura, qualcuno mi dice: «qui in Sud Tirolo questa cosa delle piante abbattute dal vento non è particolarmente sentita».

Ma come? Come non capire che siamo immersi, qui ed ora, nel cambiamento climatico? Che mentre il fuoco devasta la California, le inondazioni affliggono la Giordania, le mareggiate si mangiano le coste, un tornado irrompe nel tessuto alpino provocando una devastazione inedita rispetto alla quale non ci sono saperi, né letteratura?

Eppure l'area del lago di Carezza, che i ladini chiamano "Lec de Ergobando" (o "arcoboàn"), cioè il lago dell'arcobaleno e dove con gli abeti si rispecchia il massiccio del Latemar, rappresenta uno dei tesori che fanno delle Dolomiti un patrimonio dell'umanità. Il che mi porta a dire che quanto accaduto nella notte del 29 ottobre scorso dovrebbe essere una ferita per tutta l'umanità.

Temo non sia così. E allora, come possiamo guardare negli occhi Greta4 e con lei tutti i ragazzi che il 15 di marzo manifestano in ogni parte del pianeta per dire che non possiamo oscurare loro il futuro, quando poi ce ne torniamo tranquillamente all'ordinaria rimozione?

Che cosa infine deve accadere affinché ci si interroghi su un modello di sviluppo che nel 2018 ci ha portati a consumare tutto quel che gli ecosistemi terrestri producono in un anno già il primo giorno di agosto?

Non basta il monito della Commissione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che ci avverte dell'irreversibilità del surriscaldamento della Terra se non mettiamo mano alle emissioni di CO2. Non basta nemmeno l'enciclica “Laudato Sì” quando Francesco ci dice che «se la tendenza attuale continua, questo secolo potrebbe essere testimone di cambiamenti climatici inauditi e di una distruzione senza precedenti degli ecosistemi con gravi conseguenze per tutti noi»5.

E se è vero che le comunità locali che abbiamo incontrato hanno reagito per mettere in sicurezza abitazioni, strade, corsi d'acqua e infrastrutture, un'emergenza che prosegue nel recupero delle piante abbattute (il loro allestimento, la vendita, il prelievo delle ceppaie), nel far fronte al rischio di frane e alla possibili conseguenze di tipo fitosanitario (evidenziando condizioni diverse da territorio a territorio e limiti dovuti alla mancanza di strumenti di autogoverno e di coordinamento fra le regioni), la risposta non può essere affidata alla sola emergenza.

Nel cambiamento climatico gli eventi straordinari sono destinati a diventare normali e dunque a ripetersi. Non basta un'efficiente protezione civile, occorre un cambiamento profondo del nostro modo di vivere, un ripensamento che investa la fragilità dei nostri territori, i caratteri della presenza umana in montagna (il legno, il pascolo, l'agricoltura di montagna e le loro filiere) e il tema cruciale del riotrno, la distanza fra l'ambiente montano e i luoghi decisionali che spesso vedono la montagna come una cartolina.

Abbiamo bisogno di uno sguardo lungo, una visione che sia capace di risintonizzare gli esseri umani con la natura. Sono almeno duecento anni che, in nome del progresso, pensiamo ed agiamo fuori dalla cultura del limite. Un cambio di paradigma, proprio no?

1Gianmaria Testa, Povero tempo nostro. Dall'album “Prezioso”. https://youtu.be/1Emxxfc0GKs

2Il “Viaggio nella solitudine della politica” - www.zerosifr.eu

3Hannah Arendt. Le origini del totalitarismo. Edizioni di Comunità, 1999. Pag.416

4Greta Thunberg, la giovane svedese che ha promosso lo sciopero globale #FridaysforFuture

5Francesco, Laudato Sì. Lettera enciclica sulla cura della casa comune. Ancora, 2015

 

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