"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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lunedì, 24 ottobre 2016Il mare dal bosco di Alcamo

"Noi e loro". Quella torsione che cambia la prospettiva...

Diario della "tre giorni" di Tulime ad Alcamo (TP), per riflettere sulla cooperazione di comunità e sulla "banalità del bene".

di Michele Nardelli

Parto da casa che è ancora notte fonda, fa freddo e del resto le mezze stagioni non ci sono più. Volo Ryanair da Verona a Palermo, niente da segnalare se non fosse per i caratteri postmoderni della proposta, dalle tariffe diversificate a seconda di quanto urgente sia il tuo volo al “gratta e vinci” che ti propongono insieme alle proposte commerciali “esenti IVA”, i cui proventi (del gratta e vinci) sono naturalmente destinati ai bambini di un noto ospedale fiorentino. Non se ne può più.

Dopo poco più di un'ora di volo sono a Palermo dove mi aspetta Francesco, una delle anime dell'associazione Tulime per il cui dodicesimo “Miting” sono venuto sin qui. Dove è ancora estate, anche se piove.

Francesco e Veronica mi accolgono nella loro casa di Carini, il tempo di raccontarci qualcosa delle nostre vite e via verso il Bosco di Alcamo, nel centro forestale dove si svolge l'incontro annuale dell'associazione e dei suoi partner sparsi per il mondo.

Una "tre giorni" intensa che si apre con una sorta di preambolo sulla cornice di un impegno che viene declinato nelle forme della "cooperazione di comunità". Sin dall'uscita di “Darsi il tempo” gli amici di Tulime si sono infatti ritrovati in questo modo diverso di interpretare la cooperazione internazionale e ne è nata non solo una proficua collaborazione ma anche un'interessante sperimentazione che ne ha arricchito il significato.

Un po' inaspettatamente mi chiedono di aprire questa prima sessione e così mi trovo a proporre qualche pensiero a partire da una domanda: come scriverei oggi, quasi dieci anni dopo, “Darsi il tempo”? Un esercizio che ho pensato di proporre qui, quasi una sorta di bilancio rispetto al cambio di approccio che con Mauro Cereghini proponemmo con quel lavoro editoriale. Che riflette delle esperienze sin qui maturate ma anche sullo stato dell'arte della cooperazione internazionale.

A partire da due considerazioni relative al fatto che in questi dieci anni la crisi della cooperazione si è oltremodo accentuata e che alla luce dei fatti la critica verso questo mondo avrebbe forse dovuto essere più radicale nel denunciarne gli effetti degenerativi (considerazioni che ho sviluppato a parte e alle quali vi rimando, solo il tempo di mettere mano agli appunti).

Nelle reazioni che vengono da chi mi ascolta colgo insieme quanto sia stato importante indicare un orizzonte culturale verso pratiche che già erano improntate alla costruzione di relazioni, ma anche la fatica di comprendere le connessioni dell'interdipendenza, fra la nostra condizione e quella di chi nelle aree di crisi esprime bisogni radicalmente diversi. Fatica che ho già conosciuto nella mia terra e nelle associazioni dove sono stato impegnato, nel farmi osservare la distanza fra la percezione immediata del reale e la natura di quanto stava accadendo e di come quanto andavo proponendo li costringeva a volare troppo alto. E' stato così per i percorsi di elaborazione del conflitto, troppo complessi e costosi (se non altro sul piano emotivo) per essere agiti da associazioni fondate sul volontariato. E, analogamente, quando proposi che l'ambito principale del nostro lavoro avrebbe dovuto essere la formazione di nuove classi dirigenti, questione decisiva specie in un passaggio di tempo nel quale lo sguardo di ieri non riesce a mettere a fuoco gli scenari del presente.

Ecco perché rivedo qui, anche se solo nella perplessità di qualcuno dei presenti, la stessa incomprensione e le stesse obiezioni, che a ben vedere hanno a che fare con il permanere nel nostro approccio del paradigma dell'“aiuto allo sviluppo”, appunto di un “noi” ed un “loro” che l'interdipendenza ha in buona sostanza cancellato.

Che richiede lo scarto di pensiero sul quale insisto da tempo e che qui viene proposto allo “spazio tulimico” nell'introduzione di Francesco Picciotto (che di Tulime è il presidente), proponendo un diverso posizionamento con l'aiuto del “nastro di Möbius”, l'accorgimento che con una semplice torsione ti permette di superare la separatezza delle facce di un nastro in un unica superficie (e, nella metafora, di superare il “noi” e il “loro”). Un diverso posizionamento che nella loro vicenda è stato rappresentato dalla “cooperazione di comunità” e che oggi viene ripensato attraverso il concetto di “spazio neutro di negoziazione” e nel passaggio dal manifesto dei valori a quello dei bisogni, terreno sul quale il pane e le rose non sono più piani separati.

Lo “spazio tulimico” è anche un'interessante antropologia umana fatta di trentenni, molte giovani coppie con figli che scorazzano con grande naturalezza fra le sale del “Centro di educazione alla terra” del Bosco di Alcamo. Ci sono anche persone un po' più in là con gli anni ma che in questa comunità di costruttori di relazioni si trovano a loro agio, malgrado i percorsi personali siano (o almeno così immagino) molto diversi.

Non solo le geografie umane sono interessanti, anche quelle territoriali: se la matrice iniziale è quella siciliana, lo “spazio tulimico” attraversa alcune regioni italiane e globali, dal Piemonte alla Puglia, dal continente africano a quello asiatico, passando per la Polonia o la Turchia.

Fra loro, Giorgio. Siciliano trapiantato per motivi professionali a Roma, oltre a Tulime dedica una parte del suo volontariato a “Radio Impegno”, la piccola emittente romana che in pochi mesi è diventata riferimento notturno per decine e decine di associazioni. Giorgio mi racconta che in una di queste lunghe (ma niente affatto noiose) nottate radiofoniche gli capita di ascoltare dalla console la voce di Silvano Falocco, animatore della scuola di politica Danilo Dolci, che parla di cooperazione di comunità, di “Darsi il tempo” e di uno dei suoi autori, gli stessi riferimenti del suo stesso impegno nello “spazio tulimico”. E così ferma tutto, qualche stacco musicale, per parlare con Silvano ed emozionarsi di questo intreccio di persone e di idee (l'espressione “emozionarsi” la uso io, perché così è stato quando il giorno dopo Silvano mi ha chiamato per dirmi cos'era accaduto in un notturno radiofonico in quella città dove tutto sembra destinato a ruotare intorno alla politica ufficiale).

Mentre il sole si riprende ciò che rimane dell'estate di Alcamo (dal terrazzo del Centro posto a circa 700 metri la vista sul mare è spettacolare), Novetha – una giovane donna che di Tulime è responsabile in Tanzania – ci parla della sua comunità e di come attraverso le relazioni costruite nel corso degli anni, siano riusciti ad intravvedere un futuro fatto di responsabilità e autogoverno. E' questo che intendo con l'espressione “formazione di una nuova classe dirigente”, per poter dire – come mi sussurra Francesco – che potremmo anche finire qui, che quel che dovevamo fare l'abbiamo fatto.

Dopo l'esame delle aree progettuali, degli interventi o dei reportage dei partner, arriviamo nel tardo pomeriggio allo spazio che al momento dell'invito avevo proposto loro di inserire nel programma della “tre giorni”, la presentazione di un libro, “I buoni” di Luca Rastello.

Non so quanto da persone come Novetha o Kayinga (referente tulimiano per l'Uganda) siano percepite le parole che uso nell'introduzione al romanzo che Luca ci ha regalato prima di andarsene. L'idea stessa di dedicare uno spazio di questo XII meeting di Tulime alla presentazione di questo lavoro è un po' un azzardo, perché non sappiamo quale possa essere la reazione nella scelta di navigare “senza balaustra”, per usare l'espressione cara ad Hannah Arendt e che tanto assomiglia alla biografia di Luca. Leggo negli occhi di Francesco la preoccupazione (che è anche mia) nell'affrontare la dimensione ruvida della critica dei poteri, specie quando questa riguarda il mondo dei buoni, figuriamoci quello dei “santi”.

Non è facile parlare “senza balaustra” dei nostri mondi, delle nostre contraddizioni, del nostro innamorarci delle cose che facciamo o dei nostri ruoli. Dei luoghi che vorremmo diversi e nei quali cerchiamo protezione da un mondo che non ci piace e che per pigrizia pensiamo diviso fra il bene e il male, senza comprendere che stiamo parlando di noi, delle nostre piccole dinamiche di potere o, se volete, del criminale che alberga in ognuno di noi. Perché è questo il grande valore del romanzo di Luca, al di là dei tratti riconoscibili in quelle pagine dell'apostolo degli ultimi e dell'impegno contro le mafie.

Parliamo di noi. Parlo di me, di quello sguardo esigente sul mondo che con Luca ci accomunava, ma anche delle nostre talvolta aspre conversazioni telefoniche che avevano per oggetto i luoghi di comune frequentazione. E mi piace che negli interventi ciascuno non pensi di chiamarsi fuori, ma al contrario di come ognuno di noi possa riconoscersi nel protagonista del romanzo, ovvero Don Silvano.

«Io sono come loro» grida Andrea ad Adrian nel romanzo... e di questo parliamo. Di una soglia che non c'è, del cinismo nel quale ci porta l'abitudine, del giudizio morale che prende il posto dello spirito critico, del narcisismo che viene dall'immaginarci diversi o dal trovarci anche nostro malgrado parte della “narrativa della bontà”.

Quando la presentazione si conclude, dopo un confronto attento e coinvolgente che continuerà anche nelle ore successive nelle conversazioni private, la paternalistica preoccupazione che di questo non si dovrebbe parlare lascia il campo alla soddisfazione per averci dedicato uno spazio che, al contrario, diventa vitale rispetto al rischio sempre presente che fini e mezzi del nostro agire fatichino ad incontrarsi. L'applauso che chiude la presentazione è tutto per Luca.  

Ci aspetta il rito del “potlatch” (l'offerta e la presentazione di cibi espressione di vari luoghi e culture qui presenti) e per quanto mi riguarda una notte pressoché insonne nella preoccupazione di non alzarsi in tempo per prendere il volo verso il nord. Una bella tavolata di colori e sapori, la voce del cantastorie di Alcamo e il suono della fisarmonica che l'accompagna, i volti di queste persone, i loro sguardi e le loro parole ricche di inquieta gratitudine.

Nel cuore della notte, il furgone corre verso Punta Raisi, dove mi aspettano un aereo low cost e il gratta e vinci per i bambini più sfortunati. Effettivamente «essere un angelo costa 8 euro al mese». Anche meno.