"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

30/01/2017 -
Il diario di Michele Nardelli
Sassuolo, sabato 28 gennaio 2017

Nella bella ed affollata cornice di PaggeriArte accanto al Palazzo Ducale di Sassuolo, sabato scorso è stata presentata la mostra fotografica di Luigi Ottani ed il volume “Dal libro dell'esodo” curato da Roberta Biagiarelli che di un loro viaggio ai confini di un'Europa smarrita dalla paura sono la testimonianza.

Luigi e Roberta hanno raccontato la rotta balcanica della fuga dalle guerre e dal terrorismo, con il pudore e l'attenzione di mettere a fuoco la dignità delle persone: una sequenza di immagini che negli ingrandimenti in bianco e nero danno conto con straordinaria efficacia di un'umanità in cammino alla ricerca di un futuro che nel loro paese era difficile immaginare; e un libro che queste immagini le raccoglie accanto alle parole di altre persone che provano ad interrogarsi su questo tempo.

Di quell'esperienza al confine di Idomeni e di questo tempo buio abbiamo discusso in un sabato pomeriggio mentre la città era impegnata nel rituale dell'happy hour per le vie del centro e gli immigrati – quelli che ce l'hanno fatta ad arrivare sin qui – a fare gli straordinari nell'industria della ceramica o ad occuparsi di quel che a noi dà fastidio e non vogliamo fare neanche se si tratta dei nostri vecchi genitori.

La sala era piena, c'erano il sindaco e l'assessora alla cultura che aveva promosso l'incontro. C'era pure grande attenzione attorno alle nostre riflessioni ma in fondo anche tutto questo sembrava parte di un film scontato, come se le nostre testimonianze e i nostri pensieri potessero ben poco rispetto all'onda della paura. E come se non si avesse piena consapevolezza di quel che sta accadendo.

Per questo sono voluto partire da qui, quasi a voler scuotere l'appannamento che avverto tutt'intorno.

Quella che segue è la trascrizione degli appunti del mio intervento.



Che cosa sta accadendo?

di Michele Nardelli

Un libro o una mostra fotografica non si presentano solo per dire quanto bravi sono gli autori, sono piuttosto l'occasione per interrogarci su questo tempo buio, per alzare lo sguardo da una postura che ci impedisce di vedere oltre al nostro tablet ed oltre i riflettori sulle emergenze che si susseguono, riflettori che durano il tempo della cronaca, senza mai interrogarsi sul significato degli avvenimenti, su quel che accade.

Vediamo un albergo in montagna spazzato via da una valanga di neve, viviamo la commozione di una vita salvata, le polemiche sui ritardi nei soccorsi ma poi provate voi a mettere in discussione un Piano Regolatore e a cambiare la destinazione urbanistica di un'area edificabile... vi sentirete dire che si ledono interessi consolidati e vi troverete a fare i conti con una magistratura che dà pure loro ragione (a proposito di cultura della legalità).

Eppure sappiamo bene che le cause di queste emergenze, siano quelle dovute ai cambiamenti climatici che quelle dei processi migratori, ci rimandano a questioni di fondo che investono essenzialmente i nostri modelli di sviluppo e i nostri stili di vita. Ma di metterli in discussione non se ne parla proprio.

Invece noi preferiamo passare da un'emergenza all'altra, le emergenze ci rassicurano, quasi ne fossimo attratti. Ci piacciono quei riflettori dove tutto è in bilico fra realtà e finzione.

Forse dovremmo provare ad uscire da questa pellicola, alzare lo sguardo, mettere a fuoco. “Essere presenti al proprio tempo” amava dire Hannah Arendt, anche se questo può essere faticoso e doloroso, perché ci scuote, appunto, ci mette in discussione.

Non è che non sappiamo. Preferiamo accostarci a ciò che accade in maniera distratta e cinica, magari cavarcela con qualche euro di solidarietà via sms. Alzando le spalle.

Eppure c'è davvero di cui essere preoccupati.

Prendiamo ad esempio Donald Trump. Nel suo discorso di insediamento a presidente degli Stati Uniti d'America ha affermato con veemenza “prima gli americani”. Quella stessa affermazione che sentiamo fare ovunque. Teresa May nel suo recente discorso sulla Brexit del Regno Unito ha rievocato la grandezza del Commonwealth (parola che viene da “abbondanza, benessere”) dell'impero britannico. Conquisteremo il mondo. Lo stesso in Italia, dove si fa a gara nell'affermare “prima gli italiani”.

Mi spiegate che differenza c'è fra questa affermazione e quella tristemente famosa di “Deutschland über Alles”?

Così, senza darvi peso, ci avviciniamo alla tragedia. Fu così anche a Sarajevo, nel 1992. La guerra era già intorno e dentro la città, eppure la maggior parte delle persone non ci credeva, non immaginavano possibile quel che poi è accaduto con una guerra infinita ed un assedio durato 1400 giorni.

Allora, come oggi, non mancavano e non mancano gli ammonimenti. Ben più autorevoli delle mie parole. Quando Papa Francesco dice che siamo nella terza guerra mondiale, non fa un'affermazione da niente, eppure nemmeno i suoi fedeli sembrano prenderlo sul serio.

Che cosa vuol dire Papa Francesco? Parla forse delle tante guerre più o meno dimenticate, diventate endemiche? Ma queste c'erano anche dieci, venti o trent'anni fa. Parla forse della guerra in Siria, con i suoi seicentomila morti? Anche, certo, perché città come Damasco e Aleppo non sono luoghi come altri, stiamo parlando dei più antichi agglomerati urbani nella storia dell'umanità, la culla della civiltà moderna. Ma non credo che Francesco si riferisca nello specifi di questo martoriato paese. E allora, di che cosa ci ammonisce Francesco?

Il Papa parla della guerra in cui siamo immersi, quella che abbiamo più o meno consapevolmente dichiarato quando abbiamo affermato come “non negoziabili” i nostri stili di vita. Perché a fronte del carattere limitato delle risorse, questa “non negoziabilità” significa affermare che non tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti, che una parte dell'umanità può essere destinata alla deriva, condannata all'esclusione. E' questo lo scenario di guerra di cui ci ammonisce Francesco, quella che si combatte fra inclusione ed esclusione.

Per comprendere questa mia affermazione ci sono due circostanze da mettere a fuoco che, in genere, non vogliamo vedere.

La prima è l'insostenibilità in cui s'è cacciato questo pianeta. L'overshoot day, lo strumento con il quale misuriamo l'impronta ecologica della Terra, è stato nel 2016 l'8 di agosto. Che cosa significa? Significa che quel giorno il pianeta ha consumato l'insieme delle risorse che gli ecosistemi terrestri producono in un anno e che da quella data siamo in deficit e consumiamo ciò che le generazioni future ci hanno dato in prestito. Non è sempre stato così, se si pensa che nel 1961 il pianeta consumava la metà di quanto gli ecosistemi riuscivano annualmente a produrre. Dal 1987 in poi l'insostenibilità è cresciuta fino ai livelli attuali, così che ci vorrebbero 1,5 pianeti per soddisfare agli attuali livelli di consumo. E questo a prescindere dalla diseguaglianza distributiva delle risorse che fa sì che in alcuni paesi la data del superamento sia ancora più anticipata (in Italia è il 6 aprile) rispetto a quella globale e che, come sappiamo, vede il 90% della ricchezza nelle mani dell'1% della popolazione mondiale.

La seconda circostanza è quella relativa all'andamento demografico globale. Se nel 2011 abbiamo raggiunto la quota di 7 miliardi di esseri umani, le previsioni dicono che ben presto, nel 2030, saremo in 9 miliardi. E mentre si disputa se il settemiliardesimo abitante umano della terra sia nato nelle Filippine o in India, assistiamo alla privatizzazione del mondo, aumenta la fragilità e la vulnerabilità degli ecosistemi, si deforestano i polmoni della Terra, diminuiscono la superficie coltivabile, la pescosità dei mari, l'accessibilità all'acqua potabile.

Le strade di fronte a noi sono sostanzialmente due.

La prima, quella che considero più saggia, dovrebbe portarci a riconsiderare i nostri modelli di sviluppo, gli stili di vita e i nostri consumi. Ripensare significa riqualificare, ovvero non rinunciare alle cose importanti bensì “fare meglio con meno”. Insomma non basta redistribuire, serve un cambiamento profondo sul piano culturale.

La seconda (ed opposta) strada è quella di dividere il mondo fra inclusi ed esclusi. E' la strada sulla quale ci siamo incamminati da quando – teorizzando la non negoziabilità degli stili di vita – abbiamo pensato che la fine di una storia fosse anche la fine di quell'umanesimo che, per quanto declamato più che realizzato, affermava l'uguaglianza di ogni essere umano. Si è così tornati a parlare di diritto naturale, ad invocare un uomo forte al comando, ad aumentare le spese militari, a rispondere all'insicurezza militarizzando i territori, a costruire muri, a discriminare le persone in base alla “razza” o al loro credo religioso.

Questa è la guerra mondiale di cui parla Papa Francesco, quella condizione che ci fa vivere nella paura e ci dispone all'aggressività verso il prossimo che ci insidia “nel nostro giardino” e che ci porta a dire “prima i nostri”.

E, per dare dignità alla legge del più forte, ad evocare lo “scontro di civiltà”, un ossimoro di cui parlo nel mio contributo al volume che qui presentiamo, considerato che le nostre identità altro non sono che l'esito della storia, un esito sempre in divenire grazie all'apporto di altre culture e di altri saperi. «Siamo al mondo così … grazie al tempo universale che portiamo in noi» scrive Michel Serres.

Le nostre identità sono il risultato dell'attraversamento, di quelle contaminazioni che attraverso i mari ci hanno permesso di – grazie al movimento di traduzione che a partire da Damasco si sviluppò a Baghdad, in Andalusia e in Sicilia nel tempo in cui il centro del mondo era nel vicino Oriente – la filosofia greca, la matematica, l'alchimia (ovvero la chimica e la medicina moderna), l'astronomia, la poesia e perfino la canzone d'amore...

Ma nei libri di storia non si dice che Cordoba (la capitale del califfato di al-Andalus) nell'anno Mille era la più grande città europea, si cancellano secoli e secoli di storia, come si è cancellata la lingua europea (il sabir) attraverso la quale per seicento anni si è comunicato nei porti delle città mediterranee. Come si è cercato di cancellare la Vijenica, la biblioteca di Sarajevo che della storia di quella città (e di come si è costruita l'Europa) racchiudeva la testimonianza, messa a ferro e fuoco dai moderni nazionalismi che non abbiamo saputo (o voluto) vedere.

Privi di conoscenza, la memoria diventa retorica. E il nostro tempo diviene emergenza, senza passato e senza futuro.

 

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