Caro Professore caro,
ti scrivo, ancora una volta.
Questa lettera veleggerà nell’aria fino a raggiungerti nel silenzio dell’universo dove sei approdato. Non posso ignorare il morso di dolore che stringe lo stomaco, al pensiero della morte nonostante la tua lunga complicata vita.
Di recente ho attraversato le dolenti spiagge dell’abbandono della persona amata ed ora il saluto che devo rivolgere a te acuisce il solco della perdita. Delle varie perdite, che si sommano a mano a mano che si devono salutare i volti di quanti hanno intercettato i nostri passi e con cui si sono condivisi pensieri e speranze.
Nel tuo romanzo “Il petalo giallo”1 hai messo in campo lo scambio di lettere tra i personaggi della storia narrata, ribadendo che le lettere collegano, spiegano, fanno affiorare il rimosso, illuminano, aiutano. Tra i protagonisti, Igor a Magda, un tempo le lettere erano state “un dono, di una creatura accorta ma sognatrice e infantile, che l’aveva aiutato a ritornare nel mondo degli esseri umani”, perché l’invio di missive in qualche caso permette di ricucire gli strappi della vita.
Forse anche fra noi, pur in piccola misura, i messaggi scambiati hanno lenito momenti di solitudine. Leggendo le tue narrazioni, ho intercettato tante domande ed è forse da qui che ha preso il via la nostra corrispondenza, fatta di cartoline e di lettere, scritte a mano o battute a macchina, come facevi solitamente, secondo antica usanza. Per questo oggi ti scrivo e, col tuo permesso, condivido pubblicamente alcuni argomenti di cui abbiamo discusso da lontano.
Spero che altri possano raccogliere il testimone e proseguire allargando il cerchio del dialogo intrapreso.
Un abbraccio denso di affetto.
Micaela
Viaggio nella solitudine della politica.
Tredicesimo itinerario.
Sulle tracce di Al Andalus e del Don Chisciotte
22 aprile 2022 – 2 maggio 2022
«Il palcoscenico costruito da Cervantes era affollato da versioni diverse della domanda
se le cose possano mai essere quelle che sembrano, che affermano di essere,
che vogliamo che siano, che ad altri occorre che siano»
Maria Rosa Menocal, Principi, poeti e visir
Mi sono interrogato più volte se fosse il caso di proporre - malgrado tutto quel che accade intorno a noi - un ennesimo viaggio. Pandemia, crisi climatica, guerre ci potrebbero indurre ad attendere tempi migliori. Il fatto è che il tempo migliore viene considerato quello della normalità, ovvero il contesto nel quale l'intreccio delle crisi che stiamo attraversando ha trovato il proprio retroterra materiale, culturale e politico. Ovviamente valuteremo nelle prossime settimane quali saranno gli sviluppi degli avvenimenti, ma anche questo nostro immergerci nella storia europea e mediterranea lo vorrei considerare come una risposta a chi ci ripropone - in queste ore di guerra - lo scontro di civiltà. E poi non vorrei cedere ad un'emergenza che diviene infinita, perché non sappiamo leggere in altro modo il presente.
Ecco perché - salvo ostacoli insormontabili - vorremmo di nuovo metterci in viaggio. Uso il plurale, perché questi viaggi sono stati un agire collettivo, una forma di "presenza al proprio tempo" e anche occasioni di formazione, che hanno a loro volta prodotto pensiero e relazioni, diari e libri ed altro ancora.
Abbiamo imparato che ogni terra è un caleidoscopio sul proprio tempo. Lo è andando a rileggere il passato che, quando non elaborato, incombe sul presente. Lo è per quanto ha saputo condensare nella modernità. Lo è infine nella capacità di far vivere il futuro nel presente.
Se ci pensiamo, tutti i precedenti itinerari di questo nostro “Viaggio” hanno cercato di interpretare altrettanti limes, come a far scorrere avanti e indietro la macchina del tempo alla ricerca dei nodi gordiani di un secolo con il quale non abbiamo saputo fare i conti, ancora ingombro dei pensieri e dei paradigmi di una storia finita.
Ancora ci mancavano alcuni passaggi cruciali. Lungo le rotte mediterranee fra l'Europa, l'Africa e il vicino Oriente, alla ricerca di ciò che rimane delle “primavere arabe”. Lungo il cuore di tenebra del progresso, fra la regione del carbone e del ferro contesa nella prima guerra mondiale, il mito della razza che portò ai campi della morte e il delirio dell'homo faber che ha nell'“Arbeit mach frei” e nel controllo dell'atomo i suoi tragici simboli. E infine il passaggio che ci racconta di quando Europa volse il proprio sguardo verso occidente, come a voler rompere il cordone ombelicale che la tratteneva alla Mezzaluna fertile del Mediterraneo.
E’ quest'ultimo un itinerario concettuale prima ancora che fisico, che ci porterà ad aprile in Andalusia, per toccare tre aspetti che meglio di altri crediamo possano trasmetterci qualcosa dalla storia e dal presente di questa terra.
(19 giugno 2021) Erano passati ormai una decina d'anni da quando i nostri percorsi politici avevano preso strade diverse. Eppure, nell'incontrarsi, bastava uno sguardo fra noi per dirci in buona sostanza che le cose in fondo non erano cambiate.
In questa sorta di intesa non centrava quel che accadeva nel mondo – grandi mutamenti investivano tempi piuttosto interessanti – quanto il trattamento che veniva riservato al pensiero laterale e a chi quella sensibilità sincretica cercava di interpretare.
Così il carattere aperto, la ricerca, la mitezza venivano scambiate per moderazione e arrendevolezza. Che nelle prerogative verticali, maschili e autoritarie delle strutture (di partito e non solo) diventavano motivo di emarginazione. La forza era data dai numeri, nelle piccole appartenenze forse ancor più che in quelle più robuste.
Avevamo imparato a sorriderne, ma questo non diminuiva certo il dolore e la fatica del sentirsi inascoltati o mal sopportati.
di Razi e Soheila Mohebi
"A volte uno non si cura dei passeri e non sente quello che hanno da dire.
A volte non si cura di sentire il suono di flauto del pastore e non distingue le voci delle pecore e degli agnelli
e non si capisce cosa vogliono dire e poi arriva anche la volta in cui non sente più i sospiri e i gemiti delle altre persone.
L'esperienza della massimizzazione , sempre al suo apice, è possibile solo per l'uomo in guerra.
"Guerra significa massimizzare tutto."
Il nostro asino nero e altre Memorie di Jaghoori
Afghanistan
Mi viene da dire che tutto sia andato ad una velocità atroce, ma poi mi fermo sul mio pensiero: sapevamo fin dal lontano 2011, quando siamo partiti con una equipe della FilmWork sostenuta a sua volta dal Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani, per girare il primo episodio di "Afghanistan 2014 campo lungo".
Il film racconta la prospettiva della comunità internazionale dopo il loro ritiro delle truppe dall'Afghanistan. Abbiamo percorso le nostre inquietudini fino al 2014 realizzando il secondo episodio "Afghanistan 2014, Insert " e attraversando l'Europa, dalla Grecia all’Italia, dalla Germania alla Svezia, abbiamo domandato della diaspora afghana in esilio, per sapere cosa pensano possa accadere con il ritiro definitivo delle forze internazionali.
(4 maggio 2021) Se ne è andato da questa vita Francesco Maria Feltri. Aveva 63 anni. Una morte improvvisa che ha lasciato nello sconcerto le molte persone che lo avevano apprezzato nel suo tragitto di studioso, insegnante e formatore.
Per chi non ha avuto l'opportunità di conoscerlo, Francesco Maria Feltri era considerato tra i massimi esperti italiani di Storia del Nazionalsocialismo e della Shoah. Innumerevoli i viaggi di studio che ha accompagnato in Polonia, Repubblica Ceca, Paesi Baltici, Russia, Turchia e Israele, collaborando con musei, fondazioni e istituzioni della memoria, tra cui la Fondazione Fossoli di Carpi e l'Istituto di Storia della Resistenza di Modena.
Ho conosciuto Francesco Maria Feltri solo nel 2018, in occasione del viaggio di studio “Ex Jugoslavia, una guerra postmoderna. Viaggio nel cuore dell'Europa”. Andammo a rendere omaggio a Predrag Matvejevic, nel luogo della sua ultima dimora nel cimitero di Zagabria; al memoriale che ricorda il campo di sterminio di Jasenovac; a Omarska, nei pressi di Prijedor, dove nel 1992 riapparvero i campi di concentramento; a Sarajevo, dove ebbe tragicamente inizio il Novecento e dove altrettanto tragicamente si concluse; a Srebrenica, dove si consumò sotto lo sguardo ipocrita del mondo il massacro della popolazione bosgnacca che aveva cercato protezione nella base delle Nazioni Unite. E qui mi fermo un attimo.
mercoledì, 3 marzo 2021 ore 17:30
Mercoledì 3 marzo 2021, alle ore 17.30
in diretta sulle pagine FB delle Librerie Il Catalogo, due punti e Tamu
Islam, oltre la rappresentazione. La lezione di Massimo Campanini.
Saluto iniziale di Donatella Nepgen, moglie di Massimo Campanini.
Intervengono
Pejman Abdolmohammadi (Università di Trento)
Massimo Campanini, una biografia intellettuale.
Francesca Forte (Accademia Ambrosiana)
Il profilo filosofico di Massimo Campanini.
Luigi Alfieri (Università di Urbino)
L'Islam e l'Occidente, l'Islam come Occidente.
Francesco Cargnelutti (Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII)
Islam politico in Tunisia: dalla repressione al governo, l’esperienza di Ennahda.
Anthony Santilli (Università l’Orientale di Napoli)
L’Islam politico alla prova della realtà araba: il caso dei Fratelli musulmani.
Francesca Badini (Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII)
L’esegesi coranica tra modernità e contemporaneità.
Online con Facebook Live
(17 novembre 2020) Se riconosciamo questo tempo come cupo e interessante, non possono che accadere cose così, cupe e interessanti. Di quelle cupe (ahimè prevalenti) ne parliamo – più o meno a dovere – in ogni momento.
Oggi vi voglio parlare di una bella storia che mi riempie di gioia e che mi dice che malgrado le avversità ne vale la pena, che quel che si fa sul piano dell'impegno insieme esigente e disinteressato, così estraneo alle cose di questo mondo, può essere riconosciuto. Anche là dove forse meno te lo aspetti, considerato che si è sempre un po' stranieri in patria e che il rapporto fra società civile, politica e istituzioni è spesso segnato da condizionamenti di potere.
Il fatto è che la realtà talvolta ci sorprende, nella sua complessità e nella ricchezza di sfaccettature. E così può accadere che a Reggio Calabria vinca le elezioni comunali la coalizione guidata da Giuseppe Falcomatà e che nella formazione della Giunta comunale venga chiamato come vicesindaco una persona come il professor Tonino Perna, un amico con il quale ho condiviso idee, valori e una parte importante del nostro sguardo sul mondo.
Un dolcissimo saluto dell'amico Alessandro
di Alessandro Mengoli
(2 novembre 2020) E’ una triste notizia quella che mi accoglie, questa mattina, non appena lo schermo del pc diventa chiaro. Ieri sera ero andato a dormire dopo aver appreso che Gigi Proietti era stato ricoverato per un malessere.
Il poro Gigi, il povero Gigi, non ce l’ha fatta.
Ma perché sento di partecipare di più, rispetto alla morte di tante altre persone note, brave e positive. Forse è la distanza. La comicità ti avvicina. Ma anche la familiarità con forme d’espressione, con gli ammiccamenti, le allusioni, la pesantezza, la leggerezza, la battuta, sintesi impietosa di un difetto, al limite della crudeltà, ma mai cattiva. Insomma la romanità. Sordi, un grande, è stato un’altra cosa. Un po’ piagnone, un po’ vittima, un po’ codardo. Proietti no; la sintesi è il suo sguardo: furbo, spavaldo, incazzoso.
Sento il desiderio di prolungare ancora un po’ la sua vicinanza, di trattenerlo ancora un po’ al ricordo.
Si è spento lo storico e arabista. Un bel ricordo di Simone Casalini
di Simone Casalini *
Basterebbe citare «L’Islam, religione dell’Occidente» (Mimesis), tra i titoli della sua prolifica produzione, per raccontare Massimo Campanini, raffinato islamista, arabista, storico e filosofo. Le intersezioni, gli intrecci erano (e sono) uno dei piani di lavoro frequentati per smontare il sedizioso progetto di alimentazione di una cultura islamofoba che si ciba spesso di spazzatura editoriale.
Non si capacitava, Massimo, dello spazio che viene assegnato sui grandi media a studi, libri o voci prive di autorevolezza. E allora sbullonava queste impalcature ideologiche — di facile impatto per un opinione pubblica che poco sa di islamistica — con i suoi testi che da un lato ci rammentano le profonde connessioni tra «noi» e «loro» in un tentativo di accorciare le distanze e di farci scoprire che quel noi e loro spesso non esistono o hanno contorni indecifrabili; dall’altro accompagnandoci nella profondità del pensiero islamico e della sua struttura sociale, sconfessando i luoghi comuni più resistenti. Come l’associazione tra l’Islam e i regimi teocratici, in cui aveva vita facile a ricordare che «l’Islam non possiede né una Chiesa né un clero a differenza del cristianesimo. Semmai è un cesaropapismo perché l’elemento politico ha strumentalizzato quello religioso, e quasi mai viceversa». E contestava l’identità Islam-terrorismo perché «cela una rappresentazione volutamente monocorde per costruire un nemico».
Se n’è andato alla soglia della sua 87esima vendemmia. Un cultore della tradizione, viticola anzitutto. Curava i suoi vigneti con ritmi ancestrali, usando legare le viti con le ‘strope’, per rispettare l’habitat, per non disperdere la gestualità rurale e pure per non inquinare con qualche legaccio sintetico
di Nereo Pederzolli *
Ha raggiunto la quota suprema. Quella riservata agli angeli. Giulio Poli, patriarca tra i Mastri Distillatori del Trentino è salito lassù, tra quegli spiriti alcolici che evocano l’ebbrezza, gioia effimera, ma anche lungimiranza e devozione.
Ha lasciato alla sua famiglia, il figlio Mauro al comando, gestire la loro micro quanto suggestiva distilleria, nel cuore del borgo grappistico per eccellenza. Quella “Piccola Nizza de Trent” rinomata già ai tempi del Concilio, ameno enclave tra Castel Toblino, l’omonimo lago e le montagne che guardano la Paganella. Borgata alchemica per eccellenza. Dove il peccato “alto grado” dei contadini senza speranza è condiviso anzitutto da ben cinque distillerie, tutti con Poli nel nome. Una rarità, un modo d’interpretare l’evoluzione della vite e dimostrare l’autorevolezza distillatoria tra le Dolomiti, e non solo.
(26 marzo 2020) Vi propongo un piccolo racconto a partire da questa immagine, in ricordo di padre Giorgio Butterini che poche ore fa ci ha lasciati, anche lui vittima di un virus che ci parla della nostra insostenibile normalità.
Una foto scattata dieci anni fa nell'area archeologica del Sass a Trento, dove si riconoscono Ali Rashid, Padre Giorgio Butterini, Aboulkheir Breigheche e Wajeeh Nuseibeh.
Il 12 e 13 novembre 2010 come Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani invitammo a Trento il custode della Basilica del Santo Sepolcro Wajeeh Nuseibeh. Ultimo di una famiglia palestinese (e musulmana) che dal XIII secolo gestisce l'apertura e, con lo statu quo, la vita del luogo più sacro della cristianità ma insieme anche il più conteso dalle componenti religiose che vi si riconoscono.
Nell'ambito del percorso annuale dedicato al tema della “Cittadinanza Euromediterranea”, quell'invito assumeva un forte significato simbolico, l'incontro di civiltà che sono tali proprio perché in continuo dialogo e uno straordinario esempio di terzietà nella gestione nonviolenta dei conflitti.
In ricordo di Matteo Di Menna
Le nostre vite sono di corsa, crediamo che il nostro tempo sia infinito e che possa esserci sempre un'altra possibilità. Capita che prendiamo strade che ci portano lontano da persone che ci sono care, oppure che si spezzi qualcosa, che magari ci ripromettiamo di ricomporre senza che poi se ne faccia nulla. Sappiamo che ciò che rimane sono le relazioni profonde e l'amicizia, ma presi come siamo dalle nostre piccole o grandi autoreferenzialità, nemmeno ci accorgiamo di smarrire le cose che contano di più. Insomma, il mestiere di vivere non lo impariamo mai.
Poi all'improvviso una telefonata. “Non ti ho visto al funerale” mi dice Claudio. “A quale funerale?” rispondo io. “Ma come, non lo sai? Davvero non sai niente? Matteo...”.
Mi viene un groppo alla gola. “E' stato nei giorni caldi di luglio, quasi un mese fa. Un infarto, in casa. Eravamo in tanti a salutarlo, il giro dei vecchi amici, i Camei” continua Claudio. “Pensavamo che tu lo sapessi”. Invece non sapevo nulla. L'effetto è quello di una lacerazione, che ti strappa un pezzo della tua stessa vita.
Matteo Di Menna era parte di una generazione di meravigliosi sgangherati, irregolari forse, ma che c'erano sempre dove occorreva esserci e che hanno segnato il tessuto sociale e urbano della città di Trento. C'è stato un tempo in cui con Matteo trascorrevamo giornate intere, giorno e notte, nelle occupazioni che avrebbero cambiato il volto dei nostri quartieri popolari. Una su tutte, quella del vecchio ospedale Santa Chiara che nelle intenzioni dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto diventare la copia del centro direzionale “Europa”. Era il mese di giugno del 1975 e l'occupazione sarebbe durata almeno sessanta giorni. Si faceva sempre il mattino, in attesa che arrivasse qualcuno a darci il cambio. E la vincemmo quella partita, anche se poi la dimensione sociale di quel luogo è andata via via scemando. Oggi non c'è nemmeno una piccola memoria che ricordi come quel vecchio ospedale (e prima ancora Monastero di Santa Chiara) e il suo parco debbano la loro destinazione sociale alla lotta di una città, cosa che peraltro avevo richiesto scontrandomi con l'aridità di chi ne aveva la gestione. Senza memoria di sé, una città muore. Beh, se c'è una persona che meriterebbe un ricordo in quel luogo sarebbe proprio Matteo.
Eravamo in molti oggi al cimitero di Trento a dare l'ultimo saluto a Mario Caparelli, vicini al figlio Sandro e ai suoi cari. Con le parole e il canto. Così l'ha ricordato Micaela Bertoldi.
Caro Mario,
ti sei congedato da questo mondo in maniera rapida, improvvisa per noi che non ci aspettavamo certo che partissi così in fretta, come se dovessi salire in cima ad una montagna per scendere poi con gli sci ai piedi, battendo un record. Oggi è il sole che illumina le cime innevate in maniera trionfale, così come ti sarebbe piaciuto vederle sempre.
di Michela Marzano *
Non sono mai riuscita a dargli del tu, nonostante me lo avesse chiesto più volte, ci conoscessimo da quasi trent’anni, e mi fosse stato accanto come un padre nei momenti più difficili della mia vita. Ma Remo Bodei non era solo un professore: era il “mio prof”. E il tu, con lui, non mi veniva proprio: mi sembrava di mancargli di rispetto, di togliergli quell’aura che lo circondava e che lo rendeva diverso da tutti gli altri.
(30 ottobre 2019) Eugenio ha lottato fino all'ultimo. Amava la vita per darla vinta troppo facilmente al “drago” che lo dilaniava da tempo. Affrontandolo a viso aperto, raccontandone agli amici la fatica, la paura, i piccoli segni di speranza … raccogliendo nell'affetto di molti quel che aveva seminato.
Le nostre esistenze si erano incontrate a metà degli anni '80. Eugenio Melandri era un sacerdote e direttore di Missione Oggi, la rivista dei Saveriani. Il suo impegno pacifista ci aveva portati su traiettorie comuni nell'obiezione di coscienza alle spese militari, per il disarmo unilaterale e contro le nuove basi militari della Nato in Italia.
Ma c'era dell'altro. Con Eugenio ci accomunava uno sguardo più profondo. Il tema era quello della cittadinanza della nonviolenza nella sfera della politica, niente affatto scontato, allora come oggi. In quegli anni, anche a sinistra, dominava il Machiavelli e l'idea di von Clausewitz che la guerra altro non fosse se non la politica con altri mezzi (e non invece la fine della politica).