
(26 marzo 2020) Vi propongo un piccolo racconto a partire da questa immagine, in ricordo di padre Giorgio Butterini che poche ore fa ci ha lasciati, anche lui vittima di un virus che ci parla della nostra insostenibile normalità.
Una foto scattata dieci anni fa nell'area archeologica del Sass a Trento, dove si riconoscono Ali Rashid, Padre Giorgio Butterini, Aboulkheir Breigheche e Wajeeh Nuseibeh.
Il 12 e 13 novembre 2010 come Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani invitammo a Trento il custode della Basilica del Santo Sepolcro Wajeeh Nuseibeh. Ultimo di una famiglia palestinese (e musulmana) che dal XIII secolo gestisce l'apertura e, con lo statu quo, la vita del luogo più sacro della cristianità ma insieme anche il più conteso dalle componenti religiose che vi si riconoscono.
Nell'ambito del percorso annuale dedicato al tema della “Cittadinanza Euromediterranea”, quell'invito assumeva un forte significato simbolico, l'incontro di civiltà che sono tali proprio perché in continuo dialogo e uno straordinario esempio di terzietà nella gestione nonviolenta dei conflitti.

In ricordo di Matteo Di Menna
Le nostre vite sono di corsa, crediamo che il nostro tempo sia infinito e che possa esserci sempre un'altra possibilità. Capita che prendiamo strade che ci portano lontano da persone che ci sono care, oppure che si spezzi qualcosa, che magari ci ripromettiamo di ricomporre senza che poi se ne faccia nulla. Sappiamo che ciò che rimane sono le relazioni profonde e l'amicizia, ma presi come siamo dalle nostre piccole o grandi autoreferenzialità, nemmeno ci accorgiamo di smarrire le cose che contano di più. Insomma, il mestiere di vivere non lo impariamo mai.
Poi all'improvviso una telefonata. “Non ti ho visto al funerale” mi dice Claudio. “A quale funerale?” rispondo io. “Ma come, non lo sai? Davvero non sai niente? Matteo...”.
Mi viene un groppo alla gola. “E' stato nei giorni caldi di luglio, quasi un mese fa. Un infarto, in casa. Eravamo in tanti a salutarlo, il giro dei vecchi amici, i Camei” continua Claudio. “Pensavamo che tu lo sapessi”. Invece non sapevo nulla. L'effetto è quello di una lacerazione, che ti strappa un pezzo della tua stessa vita.
Matteo Di Menna era parte di una generazione di meravigliosi sgangherati, irregolari forse, ma che c'erano sempre dove occorreva esserci e che hanno segnato il tessuto sociale e urbano della città di Trento. C'è stato un tempo in cui con Matteo trascorrevamo giornate intere, giorno e notte, nelle occupazioni che avrebbero cambiato il volto dei nostri quartieri popolari. Una su tutte, quella del vecchio ospedale Santa Chiara che nelle intenzioni dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto diventare la copia del centro direzionale “Europa”. Era il mese di giugno del 1975 e l'occupazione sarebbe durata almeno sessanta giorni. Si faceva sempre il mattino, in attesa che arrivasse qualcuno a darci il cambio. E la vincemmo quella partita, anche se poi la dimensione sociale di quel luogo è andata via via scemando. Oggi non c'è nemmeno una piccola memoria che ricordi come quel vecchio ospedale (e prima ancora Monastero di Santa Chiara) e il suo parco debbano la loro destinazione sociale alla lotta di una città, cosa che peraltro avevo richiesto scontrandomi con l'aridità di chi ne aveva la gestione. Senza memoria di sé, una città muore. Beh, se c'è una persona che meriterebbe un ricordo in quel luogo sarebbe proprio Matteo.
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Eravamo in molti oggi al cimitero di Trento a dare l'ultimo saluto a Mario Caparelli, vicini al figlio Sandro e ai suoi cari. Con le parole e il canto. Così l'ha ricordato Micaela Bertoldi.
Caro Mario,
ti sei congedato da questo mondo in maniera rapida, improvvisa per noi che non ci aspettavamo certo che partissi così in fretta, come se dovessi salire in cima ad una montagna per scendere poi con gli sci ai piedi, battendo un record. Oggi è il sole che illumina le cime innevate in maniera trionfale, così come ti sarebbe piaciuto vederle sempre.

di Michela Marzano *
Non sono mai riuscita a dargli del tu, nonostante me lo avesse chiesto più volte, ci conoscessimo da quasi trent’anni, e mi fosse stato accanto come un padre nei momenti più difficili della mia vita. Ma Remo Bodei non era solo un professore: era il “mio prof”. E il tu, con lui, non mi veniva proprio: mi sembrava di mancargli di rispetto, di togliergli quell’aura che lo circondava e che lo rendeva diverso da tutti gli altri.

(30 ottobre 2019) Eugenio ha lottato fino all'ultimo. Amava la vita per darla vinta troppo facilmente al “drago” che lo dilaniava da tempo. Affrontandolo a viso aperto, raccontandone agli amici la fatica, la paura, i piccoli segni di speranza … raccogliendo nell'affetto di molti quel che aveva seminato.
Le nostre esistenze si erano incontrate a metà degli anni '80. Eugenio Melandri era un sacerdote e direttore di Missione Oggi, la rivista dei Saveriani. Il suo impegno pacifista ci aveva portati su traiettorie comuni nell'obiezione di coscienza alle spese militari, per il disarmo unilaterale e contro le nuove basi militari della Nato in Italia.
Ma c'era dell'altro. Con Eugenio ci accomunava uno sguardo più profondo. Il tema era quello della cittadinanza della nonviolenza nella sfera della politica, niente affatto scontato, allora come oggi. In quegli anni, anche a sinistra, dominava il Machiavelli e l'idea di von Clausewitz che la guerra altro non fosse se non la politica con altri mezzi (e non invece la fine della politica).
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Si è spenta venerdì 1 marzo a Trieste Melita Richter, una voce importante e un punto di riferimento per chi si occupa di cultura transfrontaliera, migrazioni ed ex Jugoslavia
Con Melita se ne va un’altra parte di noi. Non è facile definire questo “noi”. Penso a tutta quella rete di relazioni e amicizie, intelligenze e saperi, esperienze e vissuti tra le due sponde dell’Adriatico. Un Noi che da tempo ormai ha iniziato a disperdersi. L’avevo percepito con la morte di Predrag Matvejevi, per il quale Melita aveva scritto “Grazie Maestro”, si era rafforzato con la scomparsa di Piero Del Giudice, al quale ancora Melita sempre sulle nostre pagine aveva scritto un bel ricordo.
Con l’addio a Melita, questo Noi diventa ancora più piccolo, il nostro cerchio si stringe. Sociologa, saggista, poetessa, docente universitaria, mediatrice culturale, molto attenta al tema del confine, delle migrazioni, alla questione femminile, ai nazionalismi che ben ha conosciuto negli anni Novanta, lei che veniva da Zagabria e si era trasferita a Trieste.
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di Francesco Picciotto *
Questo racconto nasce veramente da innumerevoli sollecitazioni: la lettura dell'ultimo libro dal titolo "Sicurezza" del mio amico Michele Nardelli, uno dei personaggi de "L'estate Incantata" di Ray Bradbury che o più amato, il racconto "Walter" di Michele Serra. C'è anche dentro un po' del Piccolo Principe e tanto della mia vita, naturalmente.
Lo dedico a tutti quelli che avranno voglia e pazienza per leggerlo ma soprattutto ai miei Piccoli e a Veronica nella speranza che presto torneremo a insieme al Passo del Vento. Lo dedico inoltre al mio amico Giovanni al quale a quel passo ho dato, fra trent'anni (anzi adesso 29), un appuntamento, e al mio amico Giancarlo chiedendogli di venirmi a strappare dal "contenitore" se domani dovesse avere la sensazione che io non sia più capace di farlo da solo.
"Lo chiamavano così: il vecchio del centro commerciale. Impiegati del centro, clienti, semplici visitatori, lui era per tutti "il Vecchio del centro commerciale". E d'altra parte nessuno si era mai preoccupato di conoscere quale fosse il suo vero nome. Era una figura nota a tutti per il semplice fatto che dal momento in cui il centro apriva la mattina fino a quando l'ultimo cliente non era andato via la sera, egli si aggirava all'interno della gigantesca struttura con il suo trabiccolo a quattro ruote. Il vecchio non parlava con nessuno e nessuno parlava con il vecchio. Tutti pensavano semplicemente che il vecchio fosse stato sempre li, forse ancora prima che il centro commerciale esistesse. E questo in fondo era l'unica piccola verità di questa storia.

E intanto sono due anni che il Comune deve ricevere fondi che gli spettano, rischiando il dissesto secondo quello che sembra un piano preordinato
Era il Capodanno del 2001. In uno dei nostri primi viaggi del turismo responsabile andammo con l'amico Tonino Perna a visitare Riace ed in particolare l'esperienza degli amici di Città Futura impegnati nell'accoglienza e nella valorizzazione del territorio. L'idea era davvero interessante: ridare vita ad un borgo abbandonato da una parte significativa dei propri abitanti emigrati al nord o in altri paesi attraverso la concessione delle abitazioni in comodato d'uso a chi voleva mettere nuove radici in quella terra e riattivare antichi mestieri che si andavano perdendo. Noi stessi in quell'occasione venimmo ospitati in una di queste abitazioni altrimenti vuote, concretizzando in questo modo anche una diversa idea di offerta turistica. Ricordo in particolare lo stupore di noi tutti di fronte alla bellezza dei manufatti artigianali che venivano dalla lavorazione della ginestra, una delle tradizioni che Città Futura aveva fatto rivivere. In quella circostanza conoscemmo anche Domenico Lucano che di quell'esperienza era l'animatore. Mimmo non era ancora sindaco, ma ci rimase impresso il suo fervore vulcanico che aveva come caratteristica in primo luogo l'amore verso il territorio. Ora Mimmo, nel frattempo diventato Sindaco di Riace, è stato arrestato per aver perseguito con risultati positivi quell'idea di accoglienza, tanto da divenire un simbolo e un modello anche in altri paesi. Riprendo qui l'articolo pubblicato nel giugno scorso con il quale Tonino Perna faceva trasparire un cattivo presagio che poi si è tristemente avverato. Quando in quegli stessi giorni siamo stati con il “Viaggio nella solitudine della politica” nelle “Terre dell'osso” volevamo andare ad incontrare anche Mimmo nella sua Riace, ma non ce l'abbiamo fatta. Tonino ora mi propone di andare a dicembre in Calabria a presentare “Sicurezza”. Sarà l'occasione per un nuovo itinerario e per riabbracciare con l'amico Tonino anche Mimmo Lucano, al quale in queste ore buie va tutta la mia vicinanza e solidarietà. (m.n.)
di Tonino Perna *
In un’intervista del ministro Salvini a Repubblica.tv, diventata virale sui social, il leader della Lega invitato dall’intervistatore a mandare un messaggio al sindaco di Riace “Lucano” ha testualmente risposto: «Al sindaco di Riace non dedico neanche mezzo pensiero. Zero. È lo zero».
Questa risposta si commenta da sé e il ministro dovrà risponderne di fronte ai calabresi, ai meridionali e a tutti le italiane e gli italiani che in questi vent'anni sono venuti a Riace per tirare una boccata di ossigeno, per scoprire come si possa convivere tra tante etnie e culture diverse, per vedere con i propri occhi quello che un grande regista tedesco ha dichiarato di fronte a dieci premi Nobel per la pace: «A Riace, un paesino della Calabria, ho scoperto la vera civiltà e quale potrebbe essere il nostro futuro». È successo nel 2009, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, quando Wim Wenders, dopo aver girato un docufilm su Badolato e Riace, ha così esordito stupendo la stampa di mezzo mondo.
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Dopo una breve malattia, il 30 agosto è morto a Milano Piero Del Giudice. Docente, giornalista e scrittore, inviato nei paesi della ex Jugoslavia, curatore di edizioni italiane dell’opera di diversi poeti e scrittori del sudest europeo è stato anche collaboratore di OBC Transeuropa. Un ricordo dal sito www.balcanicaucaso.org
Era uno dei grandi. Un appassionato, collerico, visionario, schierato dalla parte delle vittime e della ragione, competente e pronto sempre ad approfondire, a conoscere, a dedicarsi alla ricerca. I Balcani nel cuore, la Bosnia, la sua Sarajevo. Era e rimane un partigiano.
L’ultima volta che lo vidi a Trieste si muoveva con difficoltà, ma con l’eterno spirito giovanile. E tanti progetti ancora. Abbiamo collaborato in diverse occasioni, chiedeva l’aiuto, anche quello “alla Piero”, immediato, di contatti balcanici, di traduzioni istantanee… Si accaldava se le cose stentavano a partire, critico e severo. Un fiuto fine a riconoscere i nazionalismi anche camuffati da posizioni dotte degli intellettuali su misura del nuovo corso, ma vecchie ideologie.
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«Tempi interessanti» (81)
... Sto parlando di Scicli, antico borgo barocco in provincia di Ragusa, noto negli ultimi anni per aver ospitato lo sceneggiato del Commissario Montalbano. Ma soprattutto per la sua storia infinita fatta di “passaggi” che ne hanno forgiato il carattere e i luoghi, dai greci ai cartaginesi, dai romani ai bizantini, dagli arabi ai normanni, dagli svevi agli aragonesi. E “Passaggi” è anche il titolo della mostra di opere d'arte fotografica che Carlo ha realizzato ritraendo i segni che il tempo ha fatto ai volti delle case, crepe apparentemente anonime che parlano di questa città più di tante banali promozioni turistiche e che nessuno sa più ascoltare...

Giovedì 3 maggio 2018 (ore 18.00 - Sala Depero del Palazzo della Provincia) verrà attribuita a Giuseppe Mattei l'Aquila di San Venceslao, il più alto riconoscimento della Presidenza del Consiglio provinciale del Trentino. Un'onorificenza significativa che Beppino Mattei meritava per il suo impegno sociale, civile e politico lungo una traiettoria che lo vide protagonista negli anni '60 e '70 nelle lotte per l'affermazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori in questa terra.
Si è spesso parlato del Trentino come laboratorio sociale e politico. E proprio all'intelligenza e alla lungimiranza di Beppino Mattei si deve una delle pagine più importanti di questo laboratorio, la costruzione del Sindacato metalmeccanico unitario trentino, quello SMUT che avrebbe anticipato di qualche anno in Trentino la nascita a livello nazionale della FLM, la federazione dei lavoratori metalmeccanici.
Perché Beppino Mattei non è stato solo un eccezionale ed instancabile sindacalista, è stato per la mia generazione un grande maestro. Ho dei ricordi nitidissimi di quando nella sede unitaria di via Vannetti si preparavano le matrici per ciclostili sempre in movimento, delle notti d'inverno passate sui cancelli delle fabbriche a respirare il fumo di vecchi copertoni bruciati, dei comizi che sapeva improvvisare durante i momenti di tensione montando velocemente le trombe che aveva sempre in auto o, ancora, di quel seminario operaio che organizzammo in Val Nambino quando arrivò a piedi al rifugio fra le nebbie di un mattino piovoso (era il 19 luglio 1981).

Il 15 gennaio scorso se ne è andata la cantautrice e musicista irlandese Dolores O'Riordan. Per ricordarne la figura, la sua voce e la sua sensibilità, ho pensato di riprendere le parole che Giuliano Sangiorgi dei Negramaro ha dedicato a Dolores, con cui undici anni fa aveva inciso una canzone bellissima che ha per titolo “Senza fiato” (https://youtu.be/269gRgNsU0o)
«Ti ho vissuta sempre come un sogno.
Lo sapevo che non avrei dovuto farlo.
Avrei dovuto viverti come un giorno qualunque.
Da sveglio, sveglissimo.
Come una persona qualsiasi, magari conosciuta in un viaggio insieme.
Avrei dovuto essere meno rispettoso delle distanze, come se non fossero mai esistite, invece ti ho trattato come una leggenda, perché questo sei per quelli come noi e per il mondo intero, per la generazione di “zombie” che hai lasciato orfana della voce più rivoluzionaria degli ultimi quarant’anni.
Avrei dovuto ridurle, quelle maledette distanze.

di Melita Richter
(15 dicembre 2017) Ogni morte di una persona cara è dolore sincero. Ma ci sono gli adii che non riusciamo ad accettare. Appena saputo della scomparsa di Marino Vocci da un breve e toccante nota sul fb di Martina, sua figlia maggiore, scrissi di getto la mia prima reazione: «Non ci voglio credere!! non posso credere!!! Accetto soltanto che si sia imbarcato su qualche natante lungo la rotta adriatica... E poi, ci racconterà, come ha sempre fatto, con passione, gioia e parole che abbracciano origini e rive diverse».
Un giorno dopo la sua scomparsa è sempre così.
Marino è vivo nella mia mente. Sento la sua voce, vedo il suo volto, i capelli indomati un po’ più brizzolati ultimamente, la figura un po’ più curva, gli occhi attenti, sinceri, ridenti, caldi e severi quando e quanto necessita.
Ma è soprattutto vivo il suo pensiero e la straordinaria capacità di porre in contatto le persone di diverse origini formative e disciplinari nel dare luogo al confronto di idee, proposte, ricerche, scambio. Solo chi scambia può cambiare, soleva dire. Ci credeva profondamente e agiva in questo modo, consapevole dell’interdipendenza del nostro mondo e del bisogno dell’interlocuzione tra soggetti e memorie diverse. Quell’abilità rara che manca al potere.

(14 dicembre 2017) Marino Vocci se ne è andato martedì sera. Non so per quale approdo questa volta, ma nelle scorse settimane l'ho pensato spesso mentre leggevo le pagine di un libro davvero prezioso come quello di Egidio Ivetic “Un confine nel Mediterraneo” (Viella libreria editrice, 2014), lungo quella terra e quel mare che loro malgrado hanno rappresentato una linea di frontiera fra lingue, credi religiosi e storie.
Marino, istriano di nascita e triestino d'adozione, era uomo di confine laddove questo non era affatto motivo di divisione ma di incontro e di relazioni. Non solo viveva sul “limes”, lo rappresentava nel suo modo di essere, nel suo impegno politico come in quello letterario.
Con Marino ci conoscevamo reciprocamente da tanti anni, ma solo negli ultimi mesi abbiamo avuto modo di incontrarci prima a Pirano e poi a Trieste, proprio in occasione dell'itinerario su quel limes che da Venezia ci portava a Goli Otok, nell'ambito del “Viaggio nella solitudine della politica”. Quella solitudine che Marino nel nostro incontro al Circolo Tina Modotti di Trieste ricondusse alla stanchezza di Alex Langer nelle sue ultime parole: “continuate in ciò che era giusto”. Esortazione disperata, che pure non contraddiceva la fatica del vivere.
martedì, 7 novembre 2017 ore 18:00

E' con una serata insieme allo scrittore Gianrico Carofiglio che Arci e Cgil del Trentino insieme ad Anpi e Fondazione sinistra trentina vogliono ricordare l'amico e compagno Ottorino Bressanini, prematuramente scomparso l'8 luglio scorso.
Carofiglio dialogherà con il direttore del Trentino, Alberto Faustini. L'appuntamento è martedì prossimo, 7 novembre alle 18 nella Sala della Filarmonica, in via Verdi 30 a Trento. Sarà un'occasione per conoscere l'ultimo romanzo dello scrittore pugliese, “Le tre del mattino” e per ricordare Bressanini, l'avvocato della Cgil, e soprattutto l'avvocato dei lavoratori e delle lavoratrici, che tanto impegno ha investito nella difesa e nel rispetto dei loro diritti. Negli ultimi anni Bressanini aveva scoperto la passione per i libri di Carofiglio identificandosi con sarcasmo nel protagonista di molti suoi romanzi, Guido Guerrieri.
Alla serata interverrà anche il Coro Bella Ciao, di cui Bressanini era presidente.
Trento, Sala della Filarmonica, via Verdi 30