di Ali Rashid
(20 maggio 2018) Inutile cercare buone notizie provenienti dalla Palestina. Ogni giorno si allunga l’elenco dei soprusi e ogni giorno i soprusi acquistano maggiore legittimità. Vano il tentativo di raccontare settant'anni di inesorabile annientamento di un popolo, la sua terra e la sua storia di fronte alla prepotenza e al trionfo dei coloni conquistatori. Le immagini che arrivano dalla Palestina mettono davanti gli occhi di chi vuole vedere il contrasto radicale tra due realtà, due storie, nonché condizioni, angosce e prospettive.
Sulla parte preponderante dello schermo appare uno Stato trionfante e sicuro di sé, che si è fatto forza in tutti questi anni dell’immagine della vittima per eccellenza della persecuzione e della vessazione di un tragico passato. Arrogante e soddisfatto delle sue conquiste, incurante e impermeabile alla sofferenza che ha inflitto e infligge, circondato e sostenuto dal peggio di ciò che la cultura occidentale ha prodotto, animato da un delirio di superiorità e di dominio che nasconde a malapena l'angoscia latente che il meccanismo di potere si possa inceppare...
«Tempi interessanti» (70)
Fincantieri e sovranismi, produzioni civili e militari, migranti e codici di comportamento stabiliti dai governi per le organizzazioni non governative ... Un'inversione morale che racconta di un tempo smarrito, dove il genocidio che si consuma nel Mediterraneo viene scambiato per un problema di ordine pubblico o tutt'al più come emergenza umanitaria. Dove la politica rincorre il consenso. Nel quale l'ignoranza e la paura devastano le coscienze, creando un terreno diffuso di guerra fra poveri, a difesa di quel che si ha. E dove – tragica beffa di questo tempo – inclusi ed esclusi a guardar bene la pensano allo stesso modo.
Un primissimo bilancio del nostro «Viaggio nella solitudine della politica»
di Michele Nardelli
(settembre 2017) Il “Viaggio nella solitudine della politica” dopo una breve pausa agostana si avvia alla sua quarta tappa lungo l'itinerario che percorre il “limes” del nordest italiano, fra Venezia e Goli Otok, l'isola nuda tristemente celebre per aver ospitato il gulag del regime titino nel secondo dopoguerra.
Nel riprendere ora questo cammino alla ricerca di nuovi paradigmi per leggere il presente ed immaginare il futuro, vorrei provare a condividere con voi un primo bilancio, dal “prologo trentino” agli itinerari che hanno attraversato la “Regione Dolomiti”, le Terre Alte dell'Arco Alpino occidentale, Roma e le sue città.
di Silvano Falocco
(11 settembre 2017) Non li riconosciamo, i migranti ambientali. Se da una parte sono giovani africani provenienti da zone oggi desertiche, dall’altra sono americani che si affrettano a raggiungere i bunker per salvarsi da uragani sempre più devastanti oppure haitiani, già poveri, e ora stremati. Anche i nostri morti da alluvioni, tracimazioni, smottamenti, incendi hanno la stessa origine.
Clima che diventa più estremo, tanto caldo e tanta pioggia, con fenomeni di breve durata ma eccezionale intensità. Caos climatico, degrado degli ecosistemi, dissesto idrogeologico, riduzione della biodiversità sono le cause profonde. Anche se la concentrazione della CO2 in atmosfera e l’estrazione delle risorse sono le principali di queste cause.
«Tempi interessanti» (69)
Emergenza acqua, emergenza immigrati, emergenza incendi, emergenza terrorismo, emergenza vaccini, emergenza agricoltura, emergenza lavoro, emergenza terremoto, emergenza neve, emergenza inquinamento, emergenza Africa... ora anche l'orso diventa suo malgrado emergenza.
Se ogni cosa ormai è diventata emergenza significa una cosa sola: che non si sanno affrontare i problemi prima che si presentino in forma acuta. In altre parole, l'incapacità di dare risposte di sistema ai nodi del nostro tempo. Se ci pensate, è come se ogni ambito di crisi ci cogliesse impreparati, portandoci ad occuparcene tardivamente, quando i buoi sono scappati e il danno si è consumato. L'esito è una continua rincorsa dei problemi, l'incapacità di politiche di prevenzione, risposte raffazzonate e costi di gran lunga superiori a quelli che si sarebbero avuti investendo sul futuro...
di Michele Nardelli
(9 gennaio 2018) L'Iran è un paese cruciale. Lo è per la sua vastità (più di cinque volte l'Italia) e per collocazione geografica (fra mondo arabo e lontano oriente), per la ricchezza del suo territorio e per le sue risorse naturali. Lo è infine per la sua storia che affonda le radici nell'antica Persia e per la cultura che tradizionalmente ha saputo esprimere. Aspetti che, malgrado colonialismo, dittature e guerre, fanno di questo paese un riferimento che va anche oltre lo scacchiere mediorientale.
A ben vedere è dalla rivoluzione del 1979 che depose lo Scià Reza Pahlavi, uno dei peggiori dittatori che la storia moderna abbia conosciuto, che l'Iran è al centro di strategie di destabilizzazione a carattere internazionale. Perché quella rivoluzione rappresentò – dopo la sconfitta del Vietnam – il secondo grande scacco alla politica nordamericana e coloniale nella regione. Tanto da armare l'Iraq in una guerra d'aggressione che durerà nove anni (1980 – 1988) nella quale complessivamente persero la vita un milione e mezzo di persone, con l'unico esito di militarizzare entrambi i paesi e favorire così la formazione di due blocchi di potere che avranno in Saddam Hussein e Mahmud Ahmadinejad la loro espressione. Il primo, da alleato fantoccio diverrà il satrapo da abbattere con due guerre a carattere globale quali furono la prima e la seconda guerra del Golfo. Il secondo, un conservatore fanatico sostenitore del radicalismo religioso da contrapporre al corso riformatore della Repubblica islamica proposto da Kathami e Rafsanjani.
«Tempi interessanti» (66)
... Se ragionassimo a prescindere dalla sconfitta culturale e politica che ha segnato la fine del Novecento lo schema potrebbe sembrare perfetto. Finisce la boria dell'autosufficienza maggioritaria, il partito di Renzi non può permettersi di rilanciare l'accordo del Nazareno, prende corpo l'idea di un'area di centrosinistra plurale ed europeista, tenendo fuori solo gli impresentabili.
Ma è possibile prescindere da quella sconfitta storica? Si può eludere il nodo cruciale della natura della crisi della politica? Credo di no, e per due ragioni di fondo. In primo luogo perché quello che abbiamo non è il migliore dei mondi possibile. E perché la crisi della politica è di “sguardo”, investe le sue categorie interpretative come i paradigmi del passato...
di Giovanni Pascuzzi *
L’influenza sociale viene definita dalle scienze che la studiano (psicologia, scienza politica e sociologia) come la capacità di orientare i comportamenti degli altri. Gli strumenti attraverso i quali si attua sono essenzialmente tre: il denaro, il potere e il prestigio.
Chi è ricco può comprare beni e prestazioni lavorative. L’esempio tipico è rappresentato dal capitano d’industria che costituisce e organizza le imprese: avendo la possibilità di ristrutturarle, chiuderle, delocalizzarle può incidere sulla vita di tante persone e pure sulle entrate fiscali di uno Stato.
A ben vedere il denaro costituisce anche un potere di fatto (e veniamo al secondo strumento) come contrapposto al potere di diritto, ovvero dell’autorità, che per definizione orienta il comportamento degli individui attraverso ordini, leggi o incentivi. Il prestigio, infine, deriva da una particolare considerazione sociale e varia da contesto a contesto. In passato era legato all’essere anziani o all’aver rivestito ruoli militari. Oggi è legato più alla cultura: per questo gli intellettuali hanno (o dovrebbero avere) grande prestigio sociale.
di Michele Nardelli
(17 giugno 2017) Era il 15 dicembre di sei anni fa quando il Consiglio della Provincia Autonoma di Trento approvò su mia proposta un ordine del giorno (vedi il link al testo) per la «Promozione del diritto di cittadinanza "ius soli" ai minori nati in Trentino o in Italia da genitori stranieri, garantendo i diritti riconosciuti ai loro coetanei di cittadinanza italiana relativamente alle competenze in capo alla Provincia Autonoma di Trento ed in particolare all'accesso ai servizi che riguardano l'assistenza sociale e sanitaria e il diritto allo studio».
Anche allora la proposta si scontrò con una forte opposizione da parte della Lega e di diversi esponenti del centrodestra che si distinsero con degli interventi a dir poco farneticanti. L'argomento faceva emergere il peggio di questi individui e della loro cultura politica.
di Michele Nardelli
(1 luglio 2017) A voler capire, l'esito dei ballottaggi nelle elezioni amministrative di giugno ci racconta molte cose.
1. Indifferenza
L'astensione al voto ha raggiunto livelli a dir poco preoccupanti. Se quello dei Sindaci e delle amministrazioni locali è un ambito pubblico che ancora tiene nella considerazione dei cittadini (al sesto posto su 17 figure politico-istituzionali1), il fatto che abbia votato il 46 per cento degli aventi diritto ci dice del livello che ha raggiunto la crisi dell'attuale assetto democratico. Non è solo distanza, è invece insofferenza e forse anche indifferenza. Come se avessimo a che fare con istituzioni inutili delle quali si può fare anche a meno. Perché in fondo i luoghi delle decisioni sono altrove. Vi ricordate il Belgio rimasto senza governo per quasi due anni? Anche questo è la post-politica.
Ma insofferenza ed indifferenza non nascono da sole, sono i sintomi di un male più profondo che ha a che fare con quello che i partiti sono diventati, sotto il profilo della loro rappresentatività, su quello della capacità di comprendere ed interpretare il presente come di essere portatori di un progetto di società. Partiti sempre più verticali, progressivamente diventati macchine elettorali, intrisi di una cultura maggioritaria che ha trasformato il ruolo stesso delle istituzioni in proprietà di chi vince.
2. Roccaforti addio
Se la prima forma di mobilità elettorale è quella dal voto al non-voto, la fine delle appartenenze ha progressivamente fatto sì che il voto venga dato (e tolto) con grande fluidità. Se c'è un dato che salta agli occhi di queste elezioni amministrative è la definitiva scomparsa delle raccaforti elettorali. Genova “la rossa” elegge per la prima volta nella storia repubblicana un sindaco di destra. La città dell'antifascismo, la città dei Camalli (i lavoratori del porto) e dei ragazzi con le magliette a strisce2, la città di “Crêuza de mä” e delle tante creature di Fabrizio De Andrè, la città di Andrea Gallo e della Comunità di San Benedetto al Porto...
Città simbolo oggi piegate, come Sesto San Giovanni, chiamata un tempo la Stalingrado d'Italia per il ruolo avuto nella Resistenza al nazifascismo e successivamente per i numeri del consenso al PCI nel secondo dopoguerra, anch'essa finita nelle mani della destra.
No, nella società liquida non c'è più nulla di scontato. Dovremmo rifletterci, anche qui, in questa nostra terra dove l'anomalia che ci ha tenuti al riparo per quasi vent'anni dallo spaesamento è pressoché svanita nel nulla.
Riprendo dal blog https://pontidivista.wordpress.com questa interessante riflessione
di Federico Zappini
Non era difficile da immaginare: è dunque arrivato il momento in cui qualcuno tenta di aggiungere una variabile nell’equazione della politica trentina. Un’equazione che – dal 2013 in poi, almeno – dimostra una persistente difficoltà nel trovare una quadra accettabile. Era altrettanto evidente che tale spunto sarebbe potuto arrivare solo da chi si sentisse libero di intervenire da fuori quello schema che – nel bene e nel male – caratterizza il governo della Provincia autonoma di Trento da almeno quindici anni. Ecco allora che la presa di parola di un gruppo di sindaci, espressione di una sensibilità civica (cosa significa oggi?) e non partitica, era atteso. Potrebbe dimostrarsi addirittura utile se non ci si limiterà a leggerlo attraverso le schermaglie tra addetti ai lavori ma lo si accoglierà come stimolo alla riflessione generale sullo stato di salute della vita democratica e politica della comunità trentina, e non solo.
«Tempi interessanti» (65)
... Tanto per non dar adito ad equivoci, al ballottaggio non avrei avuto esitazioni a votare Macron. Se l'Inno alla gioia viene suonato prima della Marsigliese non lo leggo come un fatto solo simbolico, ancor meno se penso alla “grandeur” che segna la storia e la cultura politica di questo paese. Penso inoltre che Macron abbia avuto il merito di fare dell'Europa un tema cruciale della sua proposta politica senza infingimenti, avendo il coraggio di andare contro corrente, a differenza di chi le bandiere europee le ritira per esibire quelle italiane, come ci ha ricordato ieri nel suo commento il direttore di “la Repubblica” Mario Calabresi. Ciò detto, credo che il voto in Francia ci possa fornire alcuni spunti importanti di riflessione, ben oltre l'euforia di queste ore...
di Fedrico Zappini *
(2 maggio 2017) Il Partito Democratico riesce spesso nell’impresa di sfiorare una cosa e di renderla immediatamente inservibile, impossibile da recuperare all’uso. Non sfuggono a questa triste sorte neppure quelle idee, poche per la verità, che potrebbero rivelarsi interessanti, generative.
Ne è testimonianza evidente l’iniziativa – intitolata #tuttoblUE – realizzata a Milano nella giornata del 25 aprile scorso con l’obiettivo di orientare l’attenzione (propria e non solo, sperabilmente) nei confronti delle difficili condizioni in cui versano l’Europa, le sue istituzioni e la sua proiezione nel futuro. Il kit completo offerto ai militanti (maglia, k-way e cartello personalizzabile) al prezzo di 6 euro che strizzava l’occhio – o stringeva proprio la mano – al marketing politico spinto, la grave disattenzione nel “confondere” Liberazione con libertà, il vuoto spinto rispetto a una necessaria proposta di democratizzazione (così la definisce Thomas Piketty in una recente riflessione, edita da La nave di Teseo) dell’Unione Europea sono riusciti a mettere in secondo piano l’interessante intuizione – lo dico senza ironia – di integrare la memoria – cosa buona e giusta – con la capacità di definire nuovi riferimenti costituenti nella costruzione di un senso comune, valoriale e pratico, preferibilmente su scala sovranazionale.
«Tempi interessanti» (64)
«C'è un quadro di Klee che s'intitola 'Angelus Novus'. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi...» Non ho mai sentito così vicine le parole dell'Angelus Novus di Walter Benjamin, come se lo scritto filosofico di questo grande pensatore del Novecento – morto suicida nella notte fra il 25 e 26 settembre 1941 a Port Bou mentre cercava di scappare dalla Francia occupata dai nazisti e dalla polizia franchista che voleva riconsegnarlo alle autorità francesi – mantenesse più che mai attuale il suo valore...
«Tempi interessanti» (63)
... E' sufficiente leggere gli appelli a sostegno di questa o quella manifestazione per rendersene conto. Quasi tutti a immaginare che l'Europa dovrebbe essere qualcosa che ti assomiglia piuttosto che un modo diverso di pensare e di pensarsi, oltre i paradigmi (e i deliri) degli stati nazionali che hanno fatto del Novecento un immenso campo di battaglia senza ancora aver capito che quelle simbologie e quei confini rappresentavano il brodo di coltura dello “spazio vitale”, dell'“über alles”, del “non nel mio giardino”, del “prima noi”...