«L'Unione Europea avrebbe dovuto costituire il superamento dello stato nazione attraverso alcuni strumenti come una politica estera e di difesa comuni. Hanno invece prevalso gli egoismi. In questo senso, la crisi catalana è l'emblema della crisi europea perché l'Europa si è rivelata incapace di costruire un'unità progettuae capace di superare gli stati-nazione». Un interessante commento di Alberto Negri.
di Alberto Negri *
Serve un compromesso: questo è il refrain più gettonato dopo il voto di ieri in Catalogna che assegna la vittoria agli indipendentisti e il posto di primo partito agli unionisti di Ciudadanos. Ma cosa serve davvero alla Spagna? Una riforma della costituzione del 1978. Era nata per assicurare una transizione che non si è mai veramente compiuta.
Il fantasma di Franco si aggira ancora nella Spagna del ventunesimo secolo. Dopo la morte del dittatore la Catalogna votò per la nuova Costituzione e divenne una delle comunità autonome all’interno della Spagna ma si è vista sempre respingere, in particolare dai governi del Partito popolare e dallo stesso premier Rajoy, la richiesta di essere equiparata nel regime fiscale autonomo ai Paesi Baschi.
Il 21 dicembre si vota per la Catalunya. Due blocchi contrapposti: gli indipendentisti, in liste diverse, e i costituzionalisti. La sinistra di Ada Colau appoggiata da Podemos potrebbe essere l’ago della bilancia. Ma dopo il referendum di ottobre nella società si è creata una frattura difficile da sanare.
di Steven Forti
(19 dicembre 2017) Della Catalogna si è parlato parecchio negli ultimi tempi. Dal referendum unilaterale di autodeterminazione del primo ottobre ne è passata di acqua sotto i ponti. Manifestazioni, dichiarazioni altisonanti, proclami, decisioni surrealiste, applicazione con rigore della legge e un largo eccetera. Ma cosa è successo dopo il 27 ottobre, giorno chiave in cui il Parlamento catalano ha votato la dichiarazione unilaterale d’indipendenza e il governo spagnolo ha commissariato la regione in seguito all’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione?
Tutto e niente, in realtà. Si è entrati in una strana fase, una specie di drôle de guerre politica, in attesa delle elezioni regionali del prossimo 21 dicembre. La grande tensione dei mesi scorsi è in buona misura scomparsa, ma tutto potrebbe riprendere dipendendo dai risultati di elezioni fuori dall’ordinario perché convocate dal premier spagnolo Mariano Rajoy in seguito all’applicazione dell’articolo 155 e perché alcuni dei candidati indipendentisti sono fuggiti all’estero o sono stati incarcerati preventivamente in attesa di un processo.
sabato, 16 dicembre 2017 ore 10:00
Da Pieve di Soligo a Trento, nuova tappa del viaggio
Dopo l'incontro di Pieve di Soligo – “Autonomie cooperanti. L’utopia di un’Europa che si fonda sull’autogoverno territoriale” – a conclusione del V itinerario del "Viaggio nella solitudine della politica", ci siamo interrogati su come dare continuità a quella conversazione, continuità peraltro sollecitata da molte delle persone che vi hanno partecipato. Abbiamo così immaginato di proporvi due o tre cose.
In primo luogo una riflessione da titolo “Autonomia, quel cambio di sguardo che serve all'Europa” che, proprio a partire dalle idee che ci siamo scambiati nel borgo di Andrea Zanzotto, definisse un profilo nel quale riconoscerci e aprire uno spazio di discussione.
Partendo dalla visione, ovvero dalla tenuta sul piano del pensiero verso un mondo sempre più interconnesso e a geografie variabili che sembra stupirsi di fronte al continuo manifestarsi della crisi della struttura rigida e tutt'altro che resiliente dei confini e degli Stati nazionali sovrani. Per comprendere la fatica delle istituzioni democratiche e dei corpi intermedi deputati alla rappresentanza politica (partiti, movimenti, associazioni, comunità) nel definire il proprio ruolo e i propri strumenti in relazione al "mondo che sarà". E infine per cercare di riportare in superficie la cultura e l'approccio federalista come possibile schema per un ripensamento dell'Europa politica (l'Unione, ma non solo) provando a sfuggire dalle narrazioni troppo retoriche (dalla generazione Erasmus in giù...) e stressare le proposte sul tavolo, come ad esempio il modello da molti sostenuto degli Stati Uniti d'Europa.
Trento, Gallerie di Piedicastello
Quello che segue è il settimo “racconto breve” ispirato da un viaggio formativo nel cuore balcanico dell'Europa e non solo. Questa volta dedicato al sorgere in Europa dopo la caduta del muro di Berlino di ben ventidue nuovi stati-nazione. Dei loro relativi confini e dei reticolati posti a difesa del “prima noi”. Della deriva nazionalista e del declino del progetto europeo. Del passato che, in assenza di elaborazione, non passa. Di due piccoli luoghi di confine, così lontani eppure tanto vicini. Esce in contemporanea su www.balcanicaucaso.org e su www.michelenardelli.it
«Che “cosa” è dunque l'Europa?
L'Europa non è un “territorio”.
E non è una “cosa”, che precederebbe ogni storia.
L'Europa è sempre incompiuta,
come un progetto da realizzare»
Mauro Ceruti
“Il tempo della complessità”
di Michele Nardelli
I confini sono duri a morire. Eppure, quando con gli accordi di Schengen quelli interni all'Unione Europea iniziarono ad essere smantellati fu un giorno di speranza. Per il fatto in sé e perché quello smantellamento lasciava intravvedere un processo di unione politica solo iniziato, che avrebbe potuto coinvolgere via via un numero crescente di paesi e regioni.
C'era un disegno, quand'anche non lineare ed avversato, che finalmente riprendeva il filo conduttore di Ventotene. Al quale corrispondeva una strategia di allargamento verso i Balcani occidentali e la Turchia1. E quel “Processo di Barcellona” che immaginava il Mediterraneo come uno spazio chiave di relazione, di cooperazione e di pace.
«Tempi interessanti» (71)
Voglio ancora sperare che nel duro braccio di ferro fra Spagna e Catalogna si possano riaprire margini di colloquio e di mediazione. Lo auspico non per una sorta di irenismo di maniera, ma perché s'impone un cambio di sguardo che riguarda ciascuno di noi e ognuna delle comunità politiche di cui siamo parte. Di certo, l'epilogo cui si è giunti nella giornata di venerdì scorso 27 ottobre con la destituzione del governo e con lo scioglimento del parlamento catalani sembra voler abbattere ogni ponte alle spalle dei contendenti, lasciando ben poche speranze di ricomposizione e di evoluzione positiva del conflitto. Quel che accadrà nei prossimi mesi, in assenza di un passo indietro nel rivendicare ottuse sovranità, sembra un copione già troppe volte drammaticamente conosciuto anche in tempi recenti. ... La crisi catalana – a ben guardare – anticipa gli scenari del futuro. Anche per questo ci riguarda.
La società catalana è fortemente polarizzata sulla questione nazionale e il rischio di una frattura è reale: ricucire le ferite potrebbe costare anni, se non generazioni. Ma non è possibile affrontare la questione con arresti e carcere, bisogna avviare un vero dialogo politico che miri ad una riforma della Costituzione e alla possibilità della celebrazione in Catalogna di un referendum di autodeterminazione accordato sullo stile scozzese.
di Steven Forti *
(3 novembre 2017) Tutto è incerto in Catalogna. Tutto traballa. O forse no. Tutto rimane uguale. Quel che è certo è che gli avvenimenti delle ultime settimane, conclusisi con una dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte del governo catalano e con l’applicazione dell’articolo 155 da parte del governo spagnolo, rappresentano una cesura. Il Procés sobiranista – come viene chiamato in Catalogna – è finito. O almeno è finita una fase, lunga e ambigua, di questo processo. Ne inizia ora un’altra, su cui nessuno si azzarda a fare pronostici. Per quanto la situazione sia estremamente liquida e non è da escludere una nuova escalation – soprattutto dopo gli arresti dei membri del governo catalano decretata ieri dalla giudice dell’Audiencia Nacional Carmen Lamela – possiamo però cercare di capire quello che è realmente successo e delineare i possibili scenari futuri.
di Ada Colau *
(27 ottobre 2017) A furia di parlare di scontro tra treni al condizionale ci siamo arrivati, si fa fatica a pensare che sia successo oggi. Un decennio di negligenze del Partito Popolare nei confronti della Catalogna culmina oggi con l’approvazione in Senato dell’articolo 155. Rajoy lo ha presentato in mezzo agli applausi dei suoi, facendo vergognare tutti coloro, come noi, che rispettano la dignità e la democrazia. Applaudivano il loro fallimento?
Coloro che sono stati incapaci di proporre qualunque soluzione, incapaci di ascoltare e di governare per tutti, consumano oggi il colpo di stato alla democrazia con l’annichilamento dell’autogoverno catalano.
Sulla stessa rotaia ma in direzione contraria c’è un treno più piccolo, quello dei partiti indipendentisti, a tutta velocità, con piglio kamikaze, dietro una lettura sbagliata delle elezioni del 27 Settembre. Una velocità imposta da interessi partitici, in una fuga in avanti che si consuma oggi con una Dichiarazione d’Indipendenza fatta in nome della Catalogna, ma che non ha l’appoggio della maggioranza dei catalani.
Nei giorni scorsi si è svolto a Cagliari un interessante dibattito dal titolo "La questione sarda: indipendenza, autonomia, Europa dei popoli”. L'incontro, organizzato dall’associazione SardegnaEuropa, aveva come obiettivo quello di focalizzare la “Questione Sarda” nel contesto spazio temporale europeo. All'incontro (vedi locandina in allegato) ha partecipato fra gli altri anche Lorenzo Dellai il cui intervento riporto volentieri.
di Lorenzo Dellai
Il nostro è un Paese strano, anche per quanto riguarda i temi dell'autonomia dei territori e del regionalismo.
Un anno fa - difronte alla Riforma Costituzionale - l'opinione nettamente prevalente era che "finalmente" si sarebbe modificato il Titolo V del 2001, perché era stata una fuga in avanti e serviva ricostruire un più forte potere centrale. Quella Riforma fu poi bocciata dal Referendum, ma non certo per contrarietà a questo punto, che anzi era da quasi tutti ritenuto necessario.
A un anno di distanza, si celebrano due Referendum Regionali che invece chiedono di attuare quel Titolo V ed altre Regioni stanno dichiarando la volontà di procedere in questa direzione pur senza convocare consultazioni popolari. Siamo un Paese schizofrenico.
Del resto, tutta la partita del Regionalismo in Italia è stata gestita senza un disegno compiuto. L'impianto dello Stato è rimasto fortemente centralista e l'introduzione delle Regioni Ordinarie nell'ordinamento – non a caso attivato con notevole ritardo dalla previsione costituzionale – non ha comportato un ripensamento del modello istituzionale centrale.
di Steven Forti
Il 20 settembre potrebbe essere uno di quei giorni che cambia il corso degli eventi. Nella crescente tensione tra il governo spagnolo e quello catalano in vista del referendum unilaterale di autodeterminazione convocato dal Parlamento di Barcellona per il prossimo 1 ottobre, la Guardia Civil – la polizia spagnola – ha perquisito una dozzina di sedi del governo regionale catalano, requisito materiale relativo all’organizzazione del referendum e arrestato 14 alti funzionari della Generalitat catalana.
Nei giorni precedenti aveva proibito conferenze a favore del referendum, perquisito alcuni giornali e magazzini in cui si sarebbe stampato materiale necessario alla realizzazione della consultazione e chiamato a dichiarare gli oltre 700 sindaci che avevano dato la loro disponibilità per l’1 ottobre. Il premier Mariano Rajoy ha deciso di usare la mano dura con l’obiettivo di dimostrare che lo Stato spagnolo non tollererà oltre la sfida unilaterale catalana. “Non si terrà nessun referendum”, aveva ripetuto il leader del Partido Popular: “difenderemo lo Stato di diritto con tutti i mezzi che ci dà la Costituzione. Anche quelli che non vorremmo usare”. E dalle dichiarazioni è passato ai fatti. L’obiettivo? Che non si realizzi il referendum. E, da questo punto di vista, sembra che ci sia riuscito: con che schede elettorali andranno a votare i catalani l’1 ottobre? Dove ci saranno delle urne? Che seggi apriranno? Ma quella di Rajoy sarà, molto probabilmente, una vittoria pirrica.
Entrambi i governi stanno gettando benzina sul fuoco, chi con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza chi con l’uso della mano dura. Un’impasse che potrebbe avere conseguenze pesanti per tutti. Perché la crisi catalana è una declinazione della crisi di Stato che sta vivendo la Spagna. E può risolversi solo rinnovando il patto costituzionale del 1978. Ma per farlo serve il dialogo.
di Steven Forti
(6 ottobre 2017) Muro contro muro. Questo in sintesi è il riassunto della situazione catalana. Il governo di Mariano Rajoy continua arroccato nella difesa della legge e della Costituzione, mentre quello catalano tira dritto verso una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Non c’è dialogo. Non c’è mai stato. Perché è sempre mancata la volontà politica. La Politica, con la P maiuscola, è stata e continua ad essere inesistente, almeno tra le classi dirigenti di Barcellona e di Madrid. Ognuno responsabilizza l’altro, senza proporre nulla, senza offrire una via di fuga a un’impasse che potrebbe avere conseguenze pesanti per tutti. In primis, per la società.
È indubbio che il referendum dell’1 ottobre ha segnato un prima e un dopo nella questione catalana. L’entrata in scena della violenza inaccettabile della Guardia Civil e della Policía Nacional contro cittadini inermi – si calcolano oltre 900 feriti – che opponevano solo e unicamente resistenza pacifica ha cambiato le carte in tavola, mobilitando la cittadinanza e internazionalizzando la questione catalana. Ieri due importanti banche (Sabadell e La Caixa) hanno deciso di spostare la loro sede fuori dalla Catalogna, cosa a cui anche molte imprese e multinazionali stanno pensando. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo hanno reso quello catalano un affare che non è più solo spagnolo, ma è anche europeo.
Idee ricostruttive della sinistra interetnica
di Vincenzo Calì
(19 agosto 2017) La cartina di tornasole dei rapporti fra i vicini/lontani che abitano il bacino dell’Adige virerà in rosso se alle celebrazioni del 4 novembre 2018 si inneggerà ancora alla vittoria dagli uni e alla perdita della libertà per gli altri. Lasciare in quella data a bersaglieri tirolesi e alpini il compito di firmare, in nome della comune patria europea, le nuove “compattate”, e assumere, da parte della sinistra, la data del centenario come momento di riflessione su di una guerra che, attraversando la comunità regionale, fu così devastante da travolgere insieme agli uomini la natura stessa, come ci ricorda lo storico Diego Leoni nella sua “Guerra verticale”.
Dell’assenza politica della sinistra, su questi temi, è testimone la cronaca quotidiana: “La forza dell’Euregio? Non pervenuta. I rapporti privilegiati con l’Austria? Svaniti”. Sono le parole forti di Faustini a commento dell’intenzione austriaca di resuscitare il confine del Brennero. Quel confine, inventato da Tolomei, che nemmeno gli imperatori Augusto e Napoleone si erano sognati di tracciare, torna sulla scena, come ai tempi dell’italietta sabauda; “torniamo allo statuto!” è la parola d’ordine che la sinistra deve fare propria, riecheggiando l’implorazione sonniniana vecchia di un secolo, dove per statuto si intende non l’albertino, ma il degasperiano, quello che mise in sicurezza la convivenza fra le genti dell’alto bacino dell’Adige e che è ancora ben lungi dal compiere il secolo di vita.
E' uscito in questi giorni il n.113 di “Protagonisti”, la rivista storica dell'Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Questo numero monografico è dedicato al rapporto fra centri e periferie.
Come potete vedere nel sommario che segue, si tratta di un numero della rivista particolarmente ricco di spunti di riflessione attorno alla grande questione del futuro delle autonomie e della Regione Dolomitica. Fra i contributi anche una mia riflessione sulla questione “Interdipendenza e autogoverno” che verrà proposta nei prossimi giorni su questo blog.
domenica, 5 giugno 2016 ore 10:00
In un contesto globale caratterizzato da una crescente competizione tra territori e da grandi flussi di merci, denaro e persone, possono i modelli istituzionali autonomistici rappresentare un fattore di crescita e di sviluppo, nonché un’opportunità per definire nuovi modelli di convivenza? E possono esserlo senza cadere in tentazioni identitarie e di rinserramento nelle “piccole patrie”? Partendo dal caso di una regione autonoma, la Catalogna, che sta discutendo in modo acceso il proprio futuro, il Consiglio provinciale propone una riflessione sulla dialettica tra autonomia territoriale, stato nazionale e processo di integrazione europea.
Con:
Josep Borrell Fontelles (già presidente del Parlamento Europeo)
Sergio Fabbrini (Direttore Luiss School of Government)
Modera Steven Forti (ricercatore di storia contemporanea- Universidade Nova de Lisboa).
Trento, Piazza Dante (Palazzo PAT)
Dalla Spagna un messaggio a favore di politiche coalizionali
di Alessandro Branz
(24 dicembre 2015) I vari commenti che in questi giorni si sono susseguiti sulle elezioni spagnole hanno sottolineato l’affermazione di due forze nuove come “Podemos” e “Ciudadanos” e la (forse non temporanea) fine del bipartitismo che ha retto la Spagna negli ultimi decenni. Soprattutto Podemos merita attenzione, non solo per la novità in sé, ma perché si tratta di un fenomeno rivelatore di una linea di tendenza che, per lo più, soprattutto in Italia, viene ignorata o non presa nella dovuta considerazione.
Podemos, infatti, nonostante le sue origini movimentiste e profondamente critiche nei confronti della classe politica, ha poco o nulla a che vedere con il populismo “anti-politico” di talune forze anche italiane (si veda il Movimento 5 Stelle), né si propone come alternativa totalizzante al sistema dei partiti, ma anzi si sta dimostrando (perlomeno per ora) una forza disponibile ad entrare nel gioco politico-istituzionale e ad appoggiare, anche a livello governativo e pur a certe precise condizioni, una fase di “compromesso” finalizzata a guidare la Spagna in una fase di difficile transizione.
di Steven Forti
(29 settembre 2015) Quelle di domenica scorsa in Catalogna non sono state delle normali elezioni regionali. In ballo c’era la questione dell’indipendenza di una delle più popolate e della più ricca regione spagnola (7,5 milioni di abitanti e 18% del PIL del paese). I partiti a favore della secessione hanno puntato tutto sul trasformare queste elezioni in un plebiscito a favore dell’indipendenza. Ed in buona parte ci sono riusciti. Lo dimostrano l’alta partecipazione (77%), la più alta della storia della Catalogna postfranchista, ben dieci punti percentuali maggiore rispetto al 2012, e la presenza di oltre 180 corrispondenti di giornali e televisioni straniere. Un fatto assolutamente inedito per delle elezioni regionali. Ma lo dimostra anche il pessimo risultato di Podemos, che si presentava all’interno della coalizione Catalunya Sí Que es Pot (“Catalogna Sí che si può”): la strategia del partito di Pablo Iglesias era infatti tutta giocata sul non schierarsi a favore o contro l’indipendenza e sul portare il dibattito elettorale dalla questione nazionale a quella sociale. Una strategia che non ha dato i risultati sperati.