Luca Sommadossi è stato negli ultimi cinque anni presidente della Comunità della Valle dei Laghi. Mi permetto di dire un ottimo presidente di una Comunità che in questo tempo ha iniziato a darsi un proprio percorso di riconoscibilità e di autogoverno, attraverso le idee e la capacità di fare comunità, nel coinvolgimento di soggetti sociali che sono diventati i protagonisti di un significativo progetto di rinascita. La sua rinuncia (forzosa) alla ricandidatura rappresenta non solo un fatto negativo che lascia incompleto questo percorso, ma anche il segno di come quella che è stata una delle principali riforme istituzionali in questa terra e che avrebbe potuto dare nuovi poteri ai territori stia venendo affossata. (mn)
«Carissimi, la vita è bella perché non è mai scontata e perché si presenta sempre con strade nuove e inedite da percorrere.
Sapete tutti che stavo lavorando alla formazione di una lista a sostegno della mia candidatura per un nuovo mandato da presidente della Comunità della Valle dei Laghi. Una lista che fosse al contempo espressione delle amministrazioni comunali e rappresentativa della società civile con cui avevamo lavorato in questi 5 anni.
Eravamo ormai giunti alle soglie della presentazione (ringrazio tutti quelli che avevano dato la loro disponibilità). Le amministrazioni comunali non hanno sostenuto questa linea e hanno scelto una strada diversa con una nuova lista e un nuovo candidato presidente. Viste le nuove modalità di elezione indiretta tramite i rappresentanti dei consigli comunali introdotte dalla riforma del novembre scorso era chiaro che questo rendeva praticamente pari a 0 la possibilità di continuare in ulteriori 5 anni di mandato e una mia candidatura non avrebbe fatto altro che creare divisione all'interno della Valle senza alcun risvolto positivo.
di Alessandro Branz*
(28 aprile 2015) Non è certo bello lo spettacolo cui assistiamo a livello politico e parlamentare a proposito dell’approvazione dell’Italicum: la rimozione dei deputati “dissidenti” del PD dalla Commissione affari costituzionali della Camera, la scelta “aventiniana” delle opposizioni, la polemica reciproca infarcita di battute poco edificanti, sono il segno non solo di un controverso cammino della legge, ma anche di uno stato della nostra democrazia perlomeno preoccupante. In realtà quella elettorale non è semplicemente una questione tecnica e non riguarda soltanto i meccanismi di traduzione dei voti in seggi, ma incide profondamente sullo stesso funzionamento delle istituzioni. E’ inevitabile quindi che, dietro i tecnicismi, si possano intravvedere, in maniera più o meno palese, diversi ed opposti modi di concepire la democrazia, la sua qualità ed i suoi effetti. In tal senso vorrei soffermarmi soprattutto su due questioni, che tagliano trasversalmente il dibattito e che, al di là della loro natura apparentemente teorica, presentano delle forti ricadute pratiche.
di Ilvo Diamanti *
(27 aprile 2015) Matteo Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa. Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari e, quindi, del governo.
L'Italicum, però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.
D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'in-costituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automaticamente, premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.
di Raniero La Valle
(31 marzo 2015) La nuova Costituzione di destra della Repubblica italiana è stata provvisoriamente approvata dalla Camera dei Deputati il 10 marzo scorso, e ancora non si sa perché.
Dicesi “la nuova Costituzione” perché al di là dell’alto numero degli articoli modificati (più di 50), è l’intera figura della Repubblica che viene cambiata. È ciò che sostengono Bersani, Rosi Bindi e gli esponenti della minoranza del PD, che pure l’hanno votata; ed è ciò che risulta dal passaggio, per nulla secondario, dal bicameralismo al monocameralismo e dal cambiamento di verso del circuito della fiducia, che non correrà più in senso orario dal Parlamento al governo, ma in senso inverso fluirà dal capo del governo al Parlamento, ovvero ai parlamentari che, grazie alla legge elettorale in gestazione, saranno scelti da lui.
Dicesi “di destra” perché nella tradizione linguistica e storica ciò che profitta alla discrezionalità e alla perpetuazione del potere è chiamato di destra, e ciò che profitta alla sovranità popolare e all’equilibrio e sindacabilità dei poteri è chiamato democratico se non di sinistra; e dicesi “di destra” perché la nuova Costituzione è stata scritta di concerto dal governo e dalla destra parlamentare, anche se il 10 marzo per una ripicca politica questa non l’ha votata.
Dicesi “provvisoriamente” perché se i suoi fautori considerano di averla messa per “il 90 per cento in cassaforte” (Ceccanti su Avvenire dell’11 marzo), non è affatto detto che il processo trasformatore continui il suo corso fino alla fine (legato com’è alle sorti del governo: simul stabunt et simul cadent) e non è detto che in ultima istanza esso non sia bloccato dal voto popolare nel referendum, come già avvenne nel 2006 con il rifiuto popolare della Costituzione di Berlusconi.
(23 febbraio 2015) Scrive Fabrizio Rasera nella sua pagina facebook questo commento che condivido in pieno:
«La presidente della Camera dichiara che sarebbe bene che il governo tenesse conto del lavoro delle commissioni parlamentari e delle posizioni da loro espresse. ...Svolge il suo ruolo, che è anche quello di valorizzare il ruolo del Parlamento. Uno dopo l'altro uomini e donne del PD la accusano invece di invasione di campo, come se difendere il ruolo parlamentare fosse una questione di corporazione o di fazione. Ma che linguaggio da tifosi, che carenza di stile! Della sostanza non voglio dire, tanto ormai delle cose serie si parla con il tono dei promotori commerciali».
Davvero mi chiedo con questa (in)cultura politica (ed istituzionale) dove stiamo andando.
di Antonio Floridia *
(21 gennaio 2015) Un sistema elettorale non è solo un sistema di regole inscritto all'interno di un assetto istituzionale: è un meccanismo che, nel tradurre i voti in seggi, condiziona anche le aspettative degli attori, le logiche che guidano le loro scelte. E che può orientare anche la futura evoluzione del sistema politico, anche quando - ed è un caso frequente dal gioco strategico emergono effetti perversí e imprevisti. Nel valutare i possibili ipotesi di riforma, quindi, non esistono solo criteri di costituzionalità da rispettare. Un processo di riforma elettorale si presenta sempre come un gioco strategico in cui i vari attori, più o meno consapevolmente, si fanno guidare anche da un'idea, o da una serie di aspettative, sul futuro assetto del sistema politico e sul ruolo che ciascuno di essi aspira a recitare.
Ebbene, uno dei luoghi comuni più triti che accompagnano la discussione sull'Italicum, è quello secondo cui il nuovo sistema elettorale porterebbe a confermare, e anzi rafforzare, la «logica bipolare» e anzi potrebbe portare ad un assetto «bipartitico». Un altro luogo comune è che poi il nuovo Italicum taglierebbe alla radice il famigerato «potere di ricatto» dei piccoli partiti. Nulla di più fantasioso e arbitrario.
Il premier Matteo Renzi sostiene che il calo della partecipazione in occasione delle elezioni di domenica scorsa – che ha visto in Emilia Romagna poco più di un elettore su tre recarsi ai seggi – rappresenti “un dato secondario”.
Per chi ha un briciolo di cultura istituzionale c'è da rimanere senza parole. Per due buoni motivi.
Il primo è che mai si può considerare più importante l'esito del voto per un partito rispetto all'esercizio della democrazia da parte dei cittadini. Il secondo è che in questo modo si esprime quella cultura plebiscitaria che non richiede partecipazione, corpi intermedi, assunzione di responsabilità, né tanto meno territori consapevoli capaci di autogoverno.
Bocciata la nascita dei nuovi comuni di Borgo Chiese e Altanaunia. Avrebbero unificato rispettivamente i comuni di Brione, Condino, Cimego e Castel Condino (Borgo Chiese) e Cavareno, Romeno, Malosco Sarnonico e Ronzone (Altaanaunia). Ne viene un motivo di riflessione.
di Michele Nardelli
(15 dicembre 2014) L'esito dei referendum per l'accorpamento dei Comuni ci dice molte cose. Chi ha pensato all'accorpamento come l'alternativa alle Comunità di Valle (il Patt, un pezzo rilevante del PD, il centrodestra e la Lega storicamente avversi alle Comunità, ma anche chi li ha sostenuti su questa strada) si è sbagliato di grosso.
L'aver in buona sostanza recentemente sterilizzato la legge di riforma dell'assetto istituzionale trentino (la LP 3/2006), tornando indietro rispetto ad una delle scelte più importanti delle ultime legislature per ridisegnare il rapporto fra la PAT e il territorio, è stato un grave errore.
Nuova segreteria del PD del Trentino. Il dibattito è acceso e mette in evidenza i nodi irrisolti di una politica che non riesce ad affrontare la sua crisi. Ma anche di una informazione afflitta dagli stessi mali. Ne è testimonianza il dibattito che si è sviluppato attorno alle poche righe sulla elezione di Giulia Robol che ho postato sulla mia pagina di facebook. Riporto qui l'intervento che Alessandro Branz iha nviato in queste ore al quotidiano L'Adige.
di Alessandro Branz
(27 marzo 2014) Sia dal resoconto che ne fa Luisa Maria Patruno sull’Adige del 26 marzo, sia dall’intervista rilasciata dal senatore Tonini, emerge una raffigurazione del PD come di un partito diviso in due fazioni nettamente distinte: da una parte i sostenitori di Giulia Robol, che avrebbero architettato l’elezione della loro candidata attraverso trame di palazzo, accordi sottobanco, tentativi di emarginare coloro che si frapponevano sulla strada di un successo conseguito in modo poco trasparente (l’importante è il risultato); dall’altra i sostenitori di Elisa Filippi, vittime sacrificali di tali giochi meschini ed emarginati soprattutto perché espressione della genuina “rivoluzione renziana”, da non potersi evidentemente mettere in discussione in quanto espressione della volontà popolare. Al punto che Tonini si spinge a definire coloro che hanno appoggiato la Robol (le “due aree di incerta definizione politica”) come fautori di una visione conservatrice dell’autonomia.
Questa la lista dei ministri, con e senza portafoglio, annunciata dal premier Matteo Renzi, che ha sciolto la riserva accettando l’incarico di formare il nuovo governo:
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio - GRAZIANO DELRIO;
Ministro dell’Interno - ANGELINO ALFANO;
Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali - GIULIANO POLETTI;
Ministro dell’Istruzione - STEFANIA GIANNINI;
Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - MAURIZIO LUPI;
Ministro dell’Economia - PIER CARLO PADOAN;
Ministro della Salute - BEATRICE LORENZIN;
Ministro delle Politiche Agricole - MAURIZIO MARTINA;
Ministro della Difesa - ROBERTA PINOTTI;
Ministro degli Affari regionali - MARIA CARMELA LANZETTA;
Ministro per i Beni culturali e per il Turismo - DARIO FRANCESCHINI;
Ministro della Giustizia - ANDREA ORLANDO;
Ministro degli Esteri - FEDERICA MOGHERINI;
Ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento - MARIA ELENA BOSCHI;
Ministro per lo Sviluppo Economico - FEDERICA GUIDI;
Ministro dell’Ambiente - GIANLUCA GALLETTI;
Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione MARIANNA MADIA.
venerdì, 7 febbraio 2014 ore 20:30
Serata di presentazione di "Senza Parole. Cronache e idee dall'autunno della politica" (edizioni Erickson Live, 2013), il libro che raccoglie tre anni di ricerca politica e sociale dell'associazione "Politica Responsabile".
Romagnano - Trento, Sala della Biblioteca
Un appello per l'Europa apparso oggi su la Repubblica, primo firmatario Ulrich Beck
(27 febbraio 2014) Il prossimo maggio le cittadine e i cittadini saranno per la prima volta chiamati alla scelta sul futuro dell’Europa. Quale Europa vogliamo? Dal momento dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona e per tutta la durata della crisi i cittadini non hanno mai avuto l’opportunità di esprimere il loro giudizio sul futuro dell’Unione Europea, in un processo di formazione democratica della volontà.
Questa volta, la novità è costituita dalla presenza di diversi candidati alla carica di presidente della Commissione europea, con la possibilità di scegliere tra diversi modelli d’Europa. È un salto quantico politico. Infatti, nel medesimo momento e in tutta l’Europa discuteremo in lingue diverse sugli stessi temi – cioè su persone e sui loro programmi. Vogliamo il “meno Europa” di un David Cameron, dettato dagli imperativi del mercato, oppure un’ “altra Europa”, che sottopone il mercato a regole democratiche, come ha in mente il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz?
I partiti anti-europei e i loro candidati vogliono essere eletti democraticamente per minare la democrazia in Europa.
Conosco abbastanza bene Giulio Marcon per sapere che se ha deciso di metterci la faccia la proposta di cui si fa portatore in questo editoriale (e che riprende l'appello di qualche giorno fa con il quale Barbara Spinelli e altri hanno lanciato la candidatura di Alexis Tsipras per la presidenza della Commissione Europea) potrebbe anche essere diversa dall'ennesima trovata elettorale.
E ciò nonostante quello che viene proposto è uno schema che abbiamo già conosciuto, ovvero l'idea di un cantiere unitario della sinistra che non si riconosce nel PD. Quasi che il problema fosse l'incapacità della sinistra radicale di trovare un comun denominatore o non invece - a monte - di una cultura politica con la quale la sinistra (non solo quella italiana) non ha saputo ancora fare i conti. E non parlo solo della sinistra politica, parlo anche di quella sinistra diffusa fatta di movimenti che a guardar bene non è meno malata di quella dei partiti.
Non lo dico per sostenere la causa del PD, partito che ancora guarda all'Europa come al luogo dove difendere gli interessi italiani, ben lontano da quella visione europea che ci dovrebbe portare a ragionare dell'Europa come di una casa comune sopra le nazioni.
Ma in entrambi i casi lo schema è ancora quello dei partiti (o aggregazioni) nazionali, proposte che si affermano (o si sgretolano) nell'arco di una scadenza, specie se è per una scadenza che vengono immaginati.
Lo ripeto. Ho un rapporto di stima per Giulio (e per altri amici che sostengono questa proposta) troppo forte per non pensare che non siano sufficientemente accorti per non ripetere cose già viste. Per questo alzo il telefono e gli dico quel che penso. Mi ribatte che ancorare la sinistra diffusa ad un'idea europeista, in un contesto di "caccia all'Europa", sarebbe già un bel risultato. Il tragico è che a questo siamo.
Quanto è ancora lontano un pensiero europeo capace di comprendere l'Europa nelle espressioni sociali e culturali di una regione che va dagli Urali all'Atlantico e capace di fare del Mediterraneo il contesto d'incontro fra oriente e occidente.
Se non capiamo che i temi del lavoro, del welfare, dell'ambiente, delle comunicazioni, della formazione, della cittadinanza... non possono essere affrontati se non a partire da un approccio sovranazionale, il progetto europeo è finito. Se non capiamo che in questa cornice la difesa di stili di vita insostenibili ma che consideriamo "non negoziabili" significa guerra...
Un progetto europeo davvero nuovo deve porsi il tema dell'austerità, della riconsiderazione dei consumi e del lavoro, del ritorno alla terra e all'unicità dei territori per contrastare i processi di finanziarizzazione dell'economia, dell'abolizione degli eserciti nazionali... solo per dire le prime tre o quattro cose che mi vengono in mente.
Ma tutto questo presuppone un cambiamento di sguardo che ancora non c'è. E che non vedo nemmeno nelle parole che pure sento vicine di Giulio...
(21 gennaio 2014) Leggo e rileggo la proposta di riforma del sistema elettorale che il segretario Matteo Renzi ha sottoposto alla direzione del Partito Democratico (vedi scheda in allegato).
Mentre continuo a pensare che il problema non abiti qui, ma piuttosto nel racconto che la politica riesce a fare del nostro tempo, non posso che prendere atto di come la cultura maggioritaria e centralistica sia diventata il tratto di omologazione di grande parte del sistema politico italiano.
A rischio di sembrare naïf, continuo a pensare che il sistema proporzionale sia il migliore fra quelli fin qui sperimentati, che il ruolo della politica sia quello di costruire le alleanze di governo anche sulla base dell'esito del voto, che l'elezione diretta del premier (e dei presidenti) comporti un pericoloso accentramento dei poteri in chiave plebiscitaria, che i premi di maggioranza falsino l'espressione del voto popolare, che le preferenze siano uno strumento tutto sommato utile (anche se non l'unico) nella selezione delle candidature, che le minoranze politiche (ma anche quelle nazionali) debbano trovare rappresentazione istituzionale, che il ruolo di elettore e di iscritto siano diversi e che, pertanto, le primarie siano le negazione del ruolo dei corpi intermedi e a guardar bene della politica.
sabato, 28 dicembre 2013 ore 10:00
Il tema dell'Europa sociale sarà l'oggetto del confronto nell'incontro di fine anno di "Politica Responsabile".
L'obiettivo è quello di indicare le linee di lavoro su cui impostare il secondo appuntamento della scuola di formazione "Territoriali ed europei", prevista dal 25 al 27 aprile 2014 (la data è ancora ipotetica).
Va da sé che l'incontro sarà anche l'occasione per scambiarci gli auguri di fine anno, nella speranza che quello che ci attende non sia all'insegna dei forconi e del rancore.
L'appuntamento è alle ore 10.00 di sabato 28 dicembre 2013, al Café de la Paix, in Passaggio Teatro Osele a Trento.
Trento, Café de la Paix