"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Ritorno alla terra

asino
Intervento di Michele Nardelli in occasione della discussione sulla Legge Finanziaria 2012

L'autonomia come prerogativa per abitare i processi globali. La crisi finanziaria, demografica, ecologica. La crisi della politica. La necessità di un cambio di approccio nel pensiero come nei comportamenti. Ritornare alla terra. La declinazione del concetto di sobrietà. 

(14 dicembre 2011) Nel suo celebre romanzo "Per chi suona la campana" Ernst Hemingway cita i famosi versi di "Nessun uomo è un'isola" di John Donne. John Donne era un poeta e religioso inglese vissuto fra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, in tempi dunque piuttosto lontani dai nostri.  

Nessun uomo è un'isola

Nessun uomo è un'isola,
completo in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una zolla
venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.

Se non lo è un uomo, figuriamoci se il Trentino è un'isola. Il Trentino è parte integrante dei processi nel quale è immerso, come parte di una comunità globale sempre più segnata dall'interdipendenza. Questo spiega - ed è naturale che sia così - perché il confronto sulla finanziaria della Provincia Autonoma di Trento assuma in questo contesto un profilo che va oltre in nostri piccoli confini. A testimonianza del fatto che oggi la dimensione sovranazionale e quella locale sono insieme decisive: per questo l'Europa è la nostra prospettiva politica.

E dovrebbe aiutarci a capire l'importanza di uno sguardo sul mondo. A che cosa servono le relazioni internazionali se non a questo? Lo dico a chi, in questa sede, si è chiesto a che cosa servono gli 11 milioni che investiamo nel capitolo sulla solidarietà internazionale. Anche se talvolta non ci riusciamo, perché piuttosto che "lo sguardo sul mondo" prevale la logica dell'aiuto per quanto importante...

Accanto a ciò ci dovrebbe aiutare a dotarci di una visione attenta verso gli effetti dell'interdipendenza sul nostro territorio. Non solo per i tagli, ma perché la crisi non conosce confini (ne abbiamo parlato pochi giorni fa nel confronto sul tema della presenza della criminalità organizzata in questa terra). E che ci deve far considerare l'autonomia come prerogativa, come strumento per abitare i processi globali, come occasione per costruire relazioni.

Costruire relazioni... Ad ottobre sono stato invitato a Casablanca a parlare della nostra autonomia, come spunto per affrontare la questione del Sahara Occidentale dilaniato da mezzo secolo di guerra. Di fronte ad un auditorio di oltre 200 persone - recentemente il Marocco ha introdotto l'autonomia nella sua nuova carta costituzionale - ho spiegato che l'autonomia non è un espediente per aggirare il problema, che l'autonomia (l'autogoverno) è più, non meno, dell'indipendenza (nel senso che si può avere l'indipendenza ma non l'autogoverno).

In questo quadro l'autonomia ci aiuta a stare al mondo, per conoscerci meglio e per comprendere lo straordinario valore di quel che abbiamo, che dobbiamo coltivare e studiare piuttosto che considerare una rendita di posizione o, peggio, una sorta di privilegio. E diventare cultura, una forma mentis, un approccio ai problemi.

All'inizio della sua relazione il presidente Dellai parla della crisi e dice "La crisi globale non è solo finanziaria ed economica. Si intreccia con un deficit complessivo di valori, di cultura, di politica, effetto di quel pensiero unico nel quale il successo senza condizioni e la forza senza limiti costituivano i riferimenti fondamentali".

Sono molto d'accordo. Abbiamo infatti a che fare con almeno tre aree di crisi, che dovremmo saper guardare come intrecciate fra loro.

1. La crisi finanziaria

Se ne parla molto, qualche volta vanvera. Tanto che ne abbiamo sottovalutato la natura, prima nell'incertezza di non averla saputa vedere per tempo, poi nell'averla letta come una crisi congiunturale, e non invece come la fine di un ciclo. Quel ciclo che ha prodotto la finanziarizzazione dell'economia, lo strapotere della finanza sull'economia, dell'economia di plastica sull'economia vera. E che ci affida un compito: quello di riportare la finanza alla sua funzione tradizionale. E' il tema che si sono posti gli indignados nel loro presidio simbolico di Wall Street, è lo stesso tema che si è posto e si pone Barack Obama ed è quello che ci poniamo quando facciamo appello ai soggetti della finanza trentina per far fronte al sostegno dell'economia del nostro territorio (e di cui parlo in uno degli ordini del giorno che mi vedono primo firmatario). Fin quando la dimensione finanziaria garantirà rendite notevolmente maggiori del profitto che può venire dal lavoro nessuno investirà sulle produzioni, sull'innovazione, sulla ricerca.

2. La crisi demografica

Una notizia è passata inosservata. Abbiamo raggiunto i 7 miliardi di esseri umani sul pianeta. E' nata Danica ed è paradossale che la disputa sia se il settemiliardesimo abitante della terra ha visto la luce a Manila o in un villaggio indiano e non ci si interroghi invece sulla prospettiva, visto che prima del 2030 saremo in 9 miliardi sul pianeta(soglia considerata il limite di sostenibilità agroalimentare). Ci vogliamo interrogare sul serio sulla sostenibilità? Sulla limitatezza delle risorse, sul fatto che si stanno compromettendo gli equilibri del pianeta, che stiamo tagliando la foresta amazzonica per produrre soia e carne? Vogliamo prendere atto che, a prescindere dalla crisi finanziaria, tutti dobbiamo fare un passo indietro? O pensiamo che ci siano al mondo persone che hanno fra loro diritti diversi?

3. La crisi ecologica

Perché non ci interroghiamo su come sta cambiando il clima? Non serve essere esperti, lo possiamo vedere, se lo vogliamo, nelle alluvioni della Liguria e della Sicilia. Il cambiamento del clima sulla Terra è vecchio quanto il pianeta: 4 miliardi e mezzo di anni, ma è nel XX secolo che si sono prodotti i cambiamenti ambientali più radicali ed è la prima volta che se ne ha la percezione nel corso della vita di una persona. Per rendersene conto basterebbe osservarli secondo il noto gioco di simulazione compiuto da un astronomo che ha provato a comprimere la storia del pianeta terra - 4 miliardi e mezzo di anni - sulla scala di un anno.

"Secondo questa simulazione, se a gennaio, su un braccio esterno della via lattea, si forma il Sole, a febbraio si forma la Terra, ad aprile i continenti emergono dalle acque, a novembre appare la vegetazione, a Natale si estingue il regno dei grandi rettili, alle 23 del 31 dicembre compare l'uomo di Pechino, a mezzanotte meno dieci l'uomo di Neanderthal, nell'ultimo mezzo minuto si svolge l'intera storia umana conosciuta, nell'ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era accumulato nei millenni precedenti".

C'è in realtà una quarta crisi, forse meno importante, ed è quella della politica. Il fatto che la politica ha smarrito la propria capacità di visione, la capacità di elaborare nuovi pensieri complessi dopo la fine delle ideologie novecentesche. La crisi della politica non è solo crisi della forma partito, è in primo luogo crisi di pensiero e di visione. Zygmunt Bauman a Trento, nella sua Conservazione sull'educazione e nel suo confronto con alcuni studenti del Da Vinci ammoniva - di fronte alla grande massa di informazioni - sulla necessità di mettere a fuoco gli avvenimenti. E' il tema della formazione e della promozione delle nuove classi dirigenti, che non è un problema di rottamazione generazionale ma di elaborazione della storia, del recente passato, e del nostro predisporsi a passare la mano.

La politica (e non solo la politica) continua invece a rincorrere gli avvenimenti, come si trattasse di emergenze. Lo abbiamo visto anche nel 2011 quando abbiamo guardato al Mediterraneo senza comprendere quel che stava avvenendo, quella primavera che vedeva come protagonisti giovani, colti, senza simboli del ‘900. Il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani che ho l'onore di presiedere ha seguito passo passo, accompagnando la primavera in un cambiamento del Mediterraneo che riguarda anche noi, che ha coinvolto anche noi, perché il Mediterraneo è anche la nostra storia.

Si guarda il dito, non la luna. Tanto che affrontiamo anche la crisi finanziaria come un'emergenza, quando invece occorrerebbe un cambio di approccio. In questo senso non c'entra Berlusconi (che ha altre responsabilità ...): se è crisi strutturale, non sarà certo una manovra da 30 miliardi (venti netti) a salvare l'Europa. So bene che il quadro parlamentare è quello di prima, ma mi sarei aspettato qualcosa di diverso dal Governo Monti, il taglio ai 16,5 miliardi dei cacciabombardieri F35 ad esempio, e più fantasia.

Occorre qualcosa di più profondo della manovra attuale, bisogna aggredire i nodi che portano alla crisi. Non è nemmeno solo la Tobin tax (quello 0,1% di tassa sulle transazioni finanziarie che porterebbe un'entrata di 166 miliardi di dollari) che pure va fatta.

E' necessario in primo luogo una grande alleanza dell'economia reale ed è questo il tratto sul quale voglio insistere in questo intervento. Un'alleanza che vorrei prendesse il nome di "Ritorno alla terra". S'intitola così l'ultimo libro di Vandana Shiva, la cui prefazione di Carlo Petrini, l'inventore di Terra Madre, insiste sull'economia della natura. E' quello di cui parla Giuseppe De Rita, presidente del Censis, laddove ci parla di cultura terranea. Ed è quello che ci ha lasciato come testamento politico Andrea Zanzotto, il grande poeta da poco scomparso, quando ammoniva la sua terra, il Veneto, da cui si staccava con fatica pur essendo chiamato in ogni parte del mondo, quando accusava la sua terra di aver annientato la propria tradizionale cultura contadina.

Qui non si tratta di tornare al passato, bensì di ripensare lo sviluppo e soprattutto di pensare alla ricerca e alla tecnologia come fonte di liberazione dall'assoggettamento dell'uomo alla cosa.

Dobbiamo finalmente far nostra la cultura del limite. Lo dico anche ricordando che nel 2012 saranno passi quarant'anni dal rapporto "I limiti dello sviluppo" del Club di Roma. Quegli scienziati vennero allora accusati di catastrofismo e oggi li dovremmo riconoscere nella loro lungimiranza.

Dobbiamo ristrutturare il pensiero e ripensare i comportamenti. Tutti oggi parlano di sobrietà. Vorrei provare a declinare questa parola tanto di moda per riportarla al suo vero significato. Parlo della limitatezza delle risorse e dei beni comuni, di biodiversità (pensiamo alla scomparsa delle colture autoctone, delle specie animali e vegetali...), degli stili di vita e consumi, di etica nella ricerca (fin dove ci si può spingere ...), di nuova declinazione dei diritti in un contesto globale, di impronta ecologica e impatto ambientale  (penso al peso della CO2 nelle filiere lunghe), della natura dei confini e della conoscenza dell'altro, del conflitto generazionale, del limite come consapevolezza della finitezza delle nostre vite e infine della pace declinabile nella sobrietà (penso alla guerra del petrolio, dell'acqua, della terra).

In genere si associa la sobrietà alla povertà o alla miseria. Personalmente la voglio associare all'eleganza, allo stile e alla misura, alla bellezza. Una cultura, quella della sobrietà, che è peraltro connaturata a questa terra, tradizionalmente povera, che è stata di emigrazione. Una comunità tradizionalmente sobria e aperta, che ha nella sua storia tradizioni culturali importanti. Penso al diritto alla preghiera, ad esempio. Visto che si fa sempre riferimento alle tradizioni di questa terra, lo sapevate che nei primi anni del ‘900 durante l'impero austroungarico c'era a Trento una moschea con la quale si garantiva il diritto di culto ai soldati bosniaci di fede islamica?

Dobbiamo imparare a vivere in un contesto in cui ricominciamo a dare valore alle cose vere piuttosto che all'effimero, imparare a conoscere la storia (il secondo odg di cui sono primo firmatario sul polo archivistico), apprendere per conoscere, per il piacere di conoscere.

Ritornare alla terra, non vuol dire solo agricoltura che pure dobbiamo rimettere al centro della nostra economia, ma valorizzare le vocazioni del territorio. Molto è stato fatto, molto si deve fare. A cominciare dall'avere la consapevolezza del valore della nostra diversità che viene da tre aspetti:

  • in primo luogo dall'autonomia
  • in secondo luogo dalla diversità della struttura economica (la cooperazione trentina come secondo soggetto economico dopo la PAT stessa)
  • in terzo luogo dalla coesione sociale che ci ha messi al riparo dallo spaesamento.

Al tempo stesso, non possiamo permetterci di vivere di rendita. Ritorno alla terra significa avere a cuore le vocazioni del territorio (storia), la coesione sociale (fare sistema nei territori, cosa non facile e vero ostacolo alla valorizzazione delle filiere corte; ma anche rimotivazione delle persone nel loro lavoro, a cominciare dalla pubblica amministrazione), la conoscenza (investimento sul sapere e sull'innovazione): sono queste le tre parole chiave del "ritorno alla terra". Investono il lavoro, la difesa del reddito, la tutela del territorio, la riforma della pubblica amministrazione, le nuove cittadinanze (su questo aspetto ho voluto riprendere in un apposito ordine del giorno l'appello del presidente Giorgio Napolitano quando ha parlato di mettere fine all'ingiustizia di quei bambini e ragazzi figli di genitori stranieri che sono nati in Trentino - e in Italia - ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza).

L'anima di questa finanziaria? si chiedeva il consigliere Morandini. Rispondo con le parole di Massimo Cacciari: "Che cos'è fare politica se non dire al prossimo tuo che non è solo?".

Farlo con impegno, responsabilità, serietà, originalità di pensiero. Certo, c'è un quarto aspetto che ha contribuito a fare diverso il Trentino: se questa terra ha saputo essere diversa lo si deve anche alla sperimentazione politica che abbiamo saputo realizzare in questi anni. E che, personalmente, non considero un capitolo affatto chiuso.

 

6 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Michele Nardelli il 21 dicembre 2011 01:00
    Caro Antonio, ti volevo in primo luogo ringraziare per la tua risposta che non considero affatto "pazzia utopica". Semplicemente non la condivido. Non perché io non colga la necessità di una narrazione diversa da quella che ci propone il governo Monti, oggi in effetti la politica non sa esprimere se non in forma sporadica un pensiero capace di oltrepassare i paradigmi del Novecento. Ma perché sento quel che tu esprimi ancora dentro quel paradigma. Un pensiero critico e radicale, il tuo, ma non è questo che mi preoccupa. E sono d'accordo con te quando affermi che non sono certo le ritualità (a cui ci ha abituati la sinistra nelle sue varie forme) di cui abbiamo bisogno. Ciò nonostante... in primo luogo non credo che la cosiddetta società civile esprima una critica radicale del modello di vita e di relazioni economiche e sociali ma più diffusamente una logica da "non nel mio giardino" che anche tu cogli come pericolo quando parli dei diritti di "lavoratori di altri paesi"; in secondo luogo credo che Berlusconi (o Bossi) abbiano in questi anni vinto non solo nelle elezioni ma nel modo di pensare di tanti uomini e donne che si si sono riconosciuti (talvolta a prescindere da come votano) nel loro modello sociale. E non credo affatto che quel modello, politico e culturale (che implica stili di vita e di consumo), considerato irresponsabilmente "non negoziabile", sia venuto meno. Spero solo che si cominci a comprendere che così non si può continuare.

    Michele
  2. inviato da Antonio Marchi il 21 dicembre 2011 00:58
    Caro Michele,
    per rispetto di quello che mi mandi ti rispondo a modo mio, solo
    sulla crisi perché sul resto mi sento di arrossire se mi guardo allo
    specchio pensandomi meglio o diverso da chi viene da altre terre e
    dunque sorvolo volutamente per non rabbrividire... sapendo però bene
    che il mio punto di vista sulla crisi e sul debito non potrà che
    rappresentare per te che rappresenti pezzi di un'istituzione alla
    quale non aderisco, una pazzia utopica.
    Non è difficile elaborare a tavolino una lista di obiettivi settoriali e parziali anticapitalistici. Questo, però, è solo un esercizio formale e di mera propaganda che vi risparmio. I grandi movimenti sociali, come quelli che occorrerebbero in questo momento, esplodono, se esplodono, non per decisione dell’avanguardia politica ma in seguito a processi spontanei di radicalizzazione che si
    trasformano in lotta. Non a caso parlo di movimenti sociali e non di
    manifestazioni/corteo nazionali simboliche o dimostrative o più o meno spettacolari, che possono essere promosse e organizzate da partiti,associazioni o sindacati. Di queste manifestazioni ne vediamo
    periodicamente da anni e a volte con dimensioni enormi, ma non hanno
    portato ad alcun risultato concreto. I grandi movimenti sociali in
    genere elaborano autonomamente le proprie parole d’ordine, i propri
    obiettivi parziali. Il compito dell’avanguardia politica e sindacale è radicalizzarli, chiarire la dinamica dello scontro, dissipare le illusioni. Tra questi compiti c’è anche quello di spiegare le
    sconfitte, di sedimentare l’esperienza, di creare le condizioni per cui non si ripetano gli stessi errori.

    Tra le illusioni correnti (anche al Centro Sociale Bruno c'è questa
    idea)per battere la crisi e non pagare il debito, c’è quella che si
    debba formulare un programma di politica economica alternativa, o
    sottoporre ad esame il debito sovrano per decidere cosa si debba
    pagare e cosa no, o addirittura uscire dall’eurosistema o, più
    modestamente, puntare su un qualche improbabile referendum. Questo
    significa mettere il carro davanti ai buoi. Per operazioni del genere
    occorre avere già il potere politico oppure contare su un «governo
    amico» di triste memoria. Per inciso, noto che proposte di politica
    economica «alternativa» su scala nazionale sono in contraddizione con
    la tesi della «globalizzazione». Mettersi poi a dare consigli alla
    borghesia su come risolvere la propria crisi e smussare le
    contraddizioni del sistema, o anche volerle imporre un qualche
    compromesso progressista, sociale ed ecologico tra capitale e lavoro è
    esattamente quel che non bisogna fare.

    Non abbiamo bisogno di campagne d’opinione e neanche di
    manifestazioni-spettacolo. Non abbiamo bisogno di velleitarismi
    politicistici. Dobbiamo rifuggire dai surrogati referendari e
    istituzionali. Tutto ciò costituisce un diversivo rispetto al compito
    prioritario e una sostituzione di ciò che non si può inventare ma che
    è il solo mezzo per iniziare ad aprire delle possibilità: lotte di
    massa su obiettivi determinati e specifici con l’obiettivo di non
    cessare il conflitto finché non si conseguono concretamente, in tutto
    o in parte. Che possano confluire insieme in un movimento
    antigovernativo e antipadronale che concretizzi, settore per settore,
    situazione per situazione, l’indicazione politica centrale del
    momento: NOI NON PAGHIAMO I COSTI SOCIALI DELLA CRISI E DEL DEBITO
    CONTRATTO DA PADRONI, BANCHE E GOVERNI.E NON VOGLIAMO NEMMENO CHE PER NOI LO PAGHINO I LAVORATORI DI ALTRI PAESI.

    Cari saluti e buon natale

    Antonio Marchi
  3. inviato da Luigi il 20 dicembre 2011 10:27
    Ciao Michele,
    Condivido in tutto le tue argomentazioni! Prosegui a sostenere le buone idee e combattere, alla Gandhi, perché diventino realtà.
    Ciao Auguri di buon Natale e di un sereno e proficuo anno nuovo
    Luigi Nicolussi
  4. inviato da saro il 18 dicembre 2011 20:40
    Ciao Michele,
    ho letto il tuo intervento, che condivido in gran parte.
    Volevo fare solo una cosiderazione terra a terra che mi ha stimolato la lettura del capitolo sulla crisi finanziaria e che c'entra marginalmente :

    la QUESTIONE dei finanziamenti provinciali in agricoltura che vedo e tocco giornalmente nel miolavoro, oramai sono interventi che drogano la realtà e che dovrebbero essere rivisti
    perchè ogni volta che si profila la possibilità di un finanziamento pubblico per l'acquisto di qualche strumento o mezzi di produzione il prezzo di questo aumenta almeno della quantità dell'intervento.
    Una revisione della materia deve essere fatta anche se è molto complicata
    Sempre in questo settore nelle nostre vallate dove l'agricoltura ormai è industrializzata si sta passando- per diversi motivi- da un'agricoltura di sostegno familiare anche con i lavoratori part time ad un'agricoltura industriale/latifondista (con tutte le conseguenze sulla cura del territorio e l'abbandono dei terreni in certe zone meno produttivi) che ha dei redditi di centinaia di migliaia di euro ed è considerata ancora agricoltura di montagna e quindi non soggetta alla tassazione del reddito.
    In questo momento dove vengono richiesti sacrifici ai soliti noti,si dovrebbe richiedere anche a questi concittadini di partecipare in maniera progressiva e adeguata al risanamento, mi viene da dire, se non ora quando?
    a riguardo della mancata riduzione delle spese militari si potrebbe riprendere con forza la proposta di OBIEZIONE alle spese militari.
    buon lavoro ciao
  5. inviato da stefano fait il 16 dicembre 2011 12:19
    Anch'io sottoscrivo molto volentieri, con un unico appunto (che è un parere personale): la decrescita e la sobrietà non dovrebbero essere intese a scapito dell'espansione.
    L'umanità ha dimostrato nella sua storia evolutiva di essere spiritualmente espansiva, ma si è persa per strada (simbolicamente: la Caduta/Cacciata di Adamo ed Eva) e ha deciso di espandersi fisicamente (dominio sul creato, obesità, massa muscolare).
    Un discorso sul contenimento di noi stessi e sui limiti, ossia sull'autodisciplina, dovrebbe prima di tutto precisare che si tratta di un appello ad evolvere nella direzione giusta, non a devolvere/involvere, perché altrimenti l'istinto umano rifiuterà il messaggio (molto giustamente ed assennatamente).
  6. inviato da atmrusso il 15 dicembre 2011 00:45
    Bene, molto bene
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