"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Economia e pace. Un altro declino

di Fabio Pipinato

Prendiamola da lontano. Sydney, Australia. L' Istituto che studia la relazione tra economia e pace e il settimanale "The Economist" hanno presentato il rapporto Global Peace Index. La notizia: i ricchi vogliono la pace. La sua mancanza, infatti, costa all'economia mondiale 5 trilioni di dollari all'anno.

«Non si possono fare affari in un contesto fragile e frazionato» ha sbottato durante la presentazione dello studio Sir Moody Stuart, presidente di Anglo American, una holding leader nel campo delle energie rinnovabili. Aggiunge: «Le attività produttive traggono grandi vantaggi da condizioni ambientali nonviolente e forse è venuto il momento per le aziende di riflettere sul fatto che pratiche trasparenti ed etiche possano giocare un ruolo più ampio nell'ottenere pace e stabilità». E l'Italia? Secondo il rapporto, non ha perseguito la pace. Ha perso, in un solo anno, otto posizioni: dal 28esimo al 36esimo posto. Superati dal Botswana e Sud Korea siamo terz'ultimi nell'Europa Occidentale seguiti solo da Cipro e Grecia. I primi della classe, quasi noiosi, sono Nuova Zelanda, Danimarca, Norvegia, Islanda, Austria e Svezia e ciò spiega perché la politica nostrana insiste nel guardare a nord. Insomma, l'avanzare in questa classifica significa stabilità, sicurezza, visione di futuro, prosperità, ricchezza ed opportunità diffuse. Retrocedere significa concentrazione di potere, disoccupazione, caduta del valore di case, risparmi e pensioni, paura per il diverso. Risentimento popolare. Pace è molte cose. L'indice misura diversi fattori soppesandoli rispetto altri paesi. Il nostro «funzionamento del governo» (6,43 rispetto agli 8,57 della Germania), la «percezione di corruzione» (4,8 rispetto al 7,9 della Germania), il «livello di criminalità» (3 rispetto all'1 di Francia e Gran Bretagna), l'uguaglianza dei sessi (0,65 rispetto a 0,76 della Germania - a riguardo stendiamo un velo pietoso), la libertà di stampa ove siamo stati superati dall'Uruguay. Non è un paradosso e nemmeno una novità. Come nella rivoluzione francese sono i ricchi, in primis, a ribellarsi ai ricchissimi. I benestanti (terzo stato) non solo reclamano stabilità che significa assenza di guerra, avidità, accumulo infinito di ricchezze ma dicono basta alla sfrontatezza di pochi assoluti che «tutto possono» e che non conoscono limiti. L'Europa che non ha ancora votato dovrà quindi decidere se continuare il sogno o sperimentare la xenofobia, su esempio olandese. Dopo la crisi del '29 non ebbe dubbi. Optò per la paura mentre l'America scelse il «new deal». Oggi, 2009, gli Stati Uniti ripropongono un «nuovo corso». E noi?

 

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