"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Darsi il tempo per costruire un'altra agenda politica

Paul Klee

di Michele Nardelli e Federico Zappini

(5 dicembre 2014) 180 secondi sono un tempo brevissimo, eppure sufficiente per dire alcune cose. Dell'iniziativa proposta da Lorenzo Dellai (il prossimo 6 dicembre, a Trento) è facile elencare i possibili limiti. Questo esercizio lo praticheranno in molti, secondo un copione collaudato. Calata dall'alto, fuori tempo massimo, politicista. Con queste premesse sembrerebbe plausibile aspettarsi gli stessi risultati - non tutti esaltanti - degli ultimi esperimenti che hanno visto protagonista l'ex Presidente della Provincia di Trento. Ma è davvero questo il livello del dibattito al quale vogliamo partecipare e che siamo interessati a sostenere?

Sarebbe troppo semplice liquidare così l'appuntamento di sabato. Al netto della formula e persino del metodo (che mescola le nuove formule del marketing politico con le più classiche chiamate a raccolta dei partiti) ciò che andrebbe messo in risalto sono le motivazione che ne hanno fatto emergere - in Lorenzo Dellai, ma non solo... - l'esigenza.

L'appiattimento del contesto politico trentino a quello nazionale, con il venire meno dello sguardo anomalo che questo territorio aveva nei confronti della propria governance e del proprio futuro. La marginalità che vive oggi la politica di fronte alle scelte strategiche capaci di coinvolgere un'intera comunità, o addirittura l'assenza di comprensione delle dimensioni e della complessità delle sfide che oggi ci si pongono davanti. La liquefazione dei partiti e il tentativo di fare a meno dei corpi intermedi, che ci lasciano privi di punti di riferimento, spaesati in un mondo dai tratti estremamente contraddittori. La frammentazione delle relazioni, la crescente difficoltà del dialogo, l'apparente impossibilità di immaginare luoghi della condivisione. Ognuno di questi temi meriterebbe una riflessione che non riesce a stare dentro soli 180 secondi, e che difficilmente troverà migliore definizione in un incontro lungo un pomeriggio.

Il problema quindi sta nel darsi il tempo. A mettere in difficoltà non è la brevità degli interventi (in tre minuti si può dire molto, sempre se si ha qualcosa da dire) ma la compressione - o, verrebbe da dire, la scomparsa - della dimensione dell'elaborazione del pensiero politico.

Se si decide - a ragione - di costruire occasioni di confronto accoglienti e inclusive, anche attraverso stili ritenuti più freschi e metodi comunicativi innegabilmente più efficaci, questo non giustifica il venir meno dell'obbligatorietà della cura del processo politico che ne sta a monte e a valle. Quel processo che si ciba del confronto quotidiano e dell'incrocio degli sguardi, della formazione continua e diffusa, del contributo di molti e diversi.

Si rischia altrimenti che gli input (le idee in ingresso) siano fragili e disarticolati e gli output (le ipotesi che derivano dal ragionamento collettivo) parziali e inefficaci. Si tende - è inutile negarlo - a rimanere in superficie delle questioni, ad accontentarsi dell'evocazione della partecipazione, a richiamarsi costantemente a nuovi soggetti o fasi costituenti. Ne deriva una riflessione politica ampiamente insufficiente, banalmente tattica, generalmente subalterna - a questo o a quel fenomeno sociale, economico o culturale se non addirittura a questo o a quel leader - e raramente capace di creare immaginari condivisi, o almeno condivisibili.

Al fattore tempo è strettamente collegata quindi la necessaria definizione di un cambio di paradigma, che nasca dall'analisi approfondita e non retorica della fase di transizione - economica, sociale e culturale - che stiamo attraversando. E' istante dopo istante, mettendo in dubbio anche le nostre più solide certezze, che possiamo leggere con maggior precisione un tempo che interpretiamo a fatica.

E' dentro questa cornice frammentata che la politica, abbandonata (nelle urne così come nell'agire collettivo) e mai così spogliata della fiducia, gioca la sua partita più difficile. Quella collegata alla riconquista del ruolo di costruttrice fantasiosa e coraggiosa di visione lunga, di ascoltatrice attenta, curiosa animatrice delle energie che dai cittadini provengono, protagonista meticolosa dell'elaborazione dei conflitti che la circondano.

Se il 6 dicembre potesse anche solo servire a mettere a fuoco un'altra agenda politica e una diversa forma dell'agire politico, sarebbe un passo importante per riprendere quella capacità di sperimentazione originale che ha contribuito a fare diversa questa terra.

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Antonio il 05 dicembre 2014 16:36
    Pur nutrendo forti dubbi sulla fisionomia dell'incontro, non voglio farmi vincere dal pregiudizio che l'occasione sia una farandola di interventi, magari anche intelligenti, ma che non hanno nulla a che fare con la costruzione di un pensiero collettivo. Le perplessità che sono emerse, nel corso dei nostri dialoghi e nella splendida convivialità che riusciamo a creare quasi mensilmente nei nostri incontri, le considero non solo del tutto fondate ma anche in qualche modo salutari: accrescono, un'altra volta di più, se mai c'è ne fosse stato bisogno, la fiducia che ho in voi, in noi, nel capitale umano, cognitivo, nella prospettiva straordinaria di condivisione e di progettazione che si può rappresentare e non si deve sperperare. Alludo, giusto per non essere privi di referenza (semantica), alle sfide che il nucleo "generativo e germinativo" di Politica Responsabile - forse,anzi sicuramente, da ripensare alla radice- avrà il piacere di raccogliere. Per questo il 6 dicembre ci sarò. Timidamente, con scarso entusiasmo, non considerandolo affatto un appuntamento decisivo, magari misurando lo scarto, non dico l'abisso, dalle parole, dai pensieri che abbiamo elaborato negli ultimi anni di questo tempo nuovo che fatichiamo a comprendere. C'è un piacere anche nel rilevare la distanza, ciò che non è all'altezza di essere la strada inedita e anomala che si ha in mente di percorrere. La dialettica si innesca anche così, il pensiero vive anche di movimenti "negativi", di sottrazioni! Come un'anomalia, come una distrazione, come un dovere...sono le ultime parole della Smisurata preghiera che Fabrizio De Andrè ci ha lasciato e si è riservato come testamento. Assumendo in senso forte, etimologico, la distrazione, cioè come un rivolgere altrove il pensiero e lo sguardo, altrove rispetto allo stato attuale delle modalità e degli schemi con i quali si legge e si vorrebbe reagire al presente, altrove rispetto non solo alla cronica assenza di pensiero che caratterizza il nostro orizzonte quotidiano ma anche al fatto che la "vita della mente" e con essa la meravigliosa esperienza di dare corpo ad una elaborazione politica collettiva, viene dalla maggioranza considerata un accessorio quando non un vero e proprio ostacolo. Cercando di fare un racconto anomalo (stavo per dire creativo, ma la creatività è oramai sulla bocca di tutti diventando una parola la cui vaghezza è pari solo alla sua vuotezza) ed insieme rigoroso dell'anomalia che questa terra ha rappresentato, mostrando in cosa è consistita e perché si sta smarrendo quel piacere di pensare da sé che costituisce la linfa vitale e la condizione imprescindibile per l'Autonomia. Rilanciando i principi di un'etica della responsabilità: etica che affonda le radici nell'ontologia, e siccome al centro dell'essere sta la relazione, senza il primato e la mediazione del politico, tutto diventa semplicemente assiologia, valori che si spacciano come universalmente degni di condivisione e che invece servono qui ed ora, magari ad alimentare, secondo il consueto scenario, deliranti sogni di magnifiche sorti e progressive. Come un'anomalia, come una distrazione, come un dovere.... Che è poi quanto dire presenti al proprio tempo, territoriali ed europei. Insomma, de nobis fabula narratur.
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