"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Il mantra delle riforme

I soliti ignoti

 

Tempi interessanti (11)

 

di Michele Nardelli

 

(10 marzo 2015) «Il paese ha bisogno delle riforme e non ci fermeremo». Sembra essere questo il mantra della compagine governativa che da poco più di un anno governa l'Italia. E di fronte alle critiche che pure vengono anche o soprattutto dal fronte interno, si risponde che gli orientamenti sono stati discussi e approvati nelle sedi partito e che un comportamento diverso nel voto in Parlamento equivarrebbe ad una rottura del vincolo politico fondato sul criterio di maggioranza. Rimuovendo il fatto che il programma con il quale si è andati al voto nel 2013 era quello di Pierluigi Bersani e che la nascita del governo Renzi è avvenuta attraverso la formazione di una maggioranza anomala rispetto alle alleanze con cui ci si rivolse agli elettori.

Proprio nel giorno in cui la Camera dei Deputati è chiamata ad esprimersi in seconda lettura sul testo varato dal Senato di riforma della Costituzione, vi voglio proporre una rapida disamina di questi provvedimenti considerati “indispensabili” per far uscire il paese della crisi, tralasciando la considerazione che ben altre dovrebbero essere le riforme strutturali a fronte di una crisi che altro non è che il portato dell'insostenibilità del modello di sviluppo che si è imposto insieme alla finanziarizzazione dell'economia.

 

La fine del bicameralismo

 

La prima grande riforma è rappresentata dalla fine del bicameralismo e dalla trasformazione del Senato in una sorta di consulta delle Regioni con poteri limitati al raccordo fra lo stato e gli enti locali. Saranno i Consigli Regionali ad eleggere al loro interno e fra i sindaci delle città metropolitane i cento rappresentanti, un'elezione di secondo grado a testimoniare il grado di autorevolezza di questa nuova istituzione. Ricordo che il Senato della Repubblica, grazie ad un diverso sistema elettorale (i collegi regionali), sin dalla fase costituente era stato immaginato come espressione delle autonomie regionali e locali, ma con pari dignità (e poteri) della Camera dei Deputati. Anche se poi i partiti, nella loro involuzione centralistica, lasciarono cadere questa vocazione territoriale, per approdare al cosiddetto bicameralismo perfetto. Tanto che oggi questa riforma viene intesa come operazione nel segno della diminuzione del numero dei parlamentari e dello snellimento delle funzioni legislative. Senza dimenticare che il bicameralismo, contrariamente a quanto si sente spesso affermare, è il sistema più diffuso nelle democrazie rappresentative.

 

Il rovesciamento del “Titolo V”

 

Che la scelta dell'abolizione di fatto del Senato avvenga all'insegna di un forte rigurgito centralistico, lo si può evincere da un'altra delle riforme assurte a simbolo del cambiamento: quella del “Titolo V” della Costituzione Italiana. Laddove la riforma del 2001 andava in direzione di un maggior federalismo (e suffragata da un referendum confermativo), con questa “controriforma” si incide sul riparto di competenze legislative, oggetto dell'articolo 117, rovesciando lo schema precedente. Scompare la legislazione concorrente e la legislazione statale esclusiva si arricchisce di alcune nuove materie e funzioni. Se già le competenze regionali in termini di autogoverno reale erano limitate (e condizionate dai criteri di trasferimento della finanza pubblica), con la riforma Boschi una parte significativa delle materie di legislazione concorrente migra alla competenza statale. Si salvano, per il momento, le Regioni a statuto speciale (e le Province Autonome) ma l'indirizzo di fondo è chiaro. Come del resto è avvenuto con l'abolizione delle Province ordinarie, con l'effetto di aver lasciato interi territori (ed in particolar modo le “terre alte”) in balia di un centralismo regionale che svilisce le aree periferiche. Uno scasso istituzionale che avrà effetti disastrosi.

 

L'Italicum

 

A fare da contraltare della riforme costituzionali c'è l'Italicum, ovvero la riforma del sistema elettorale. Partendo dal “Porcellum” ogni proposta non poteva che essere migliorativa, ma a quanto pare non è necessariamente così. E, del resto, il disegno di cui è espressione l'Italicum non è in fondo molto diverso da quello che aveva ispirato la legge Calderoli. Come scrive Antonio Floridia (vedi la sua analisi in questa home page) «c'è da chiedersi su quale presupposto si fondi questo scriteriato disegno di riforma. Tutto nasce da un vincolo che sembra intangibile: ovvero, pretendere che “la sera stessa delle elezioni” si possa proclamare un vincitore. Si lancia un anatema contro la possibilità che, in Parlamento, dopo le elezioni, si possa aprire una legittima, e trasparente mediazione politica; ma, in realtà, si apre la via alle peggiori negoziazioni. E non si può non notare un paradosso: in fondo, su cosa si fonda l'attuale governo, se non su una maggioranza formatasi e raccolta nelle aule parlamentari, dopo le elezioni?». In altre parole ogni proposta elettorale esprime una cultura politica e se questa si chiama “governabilità”, piuttosto che “bipolarismo” o approccio “maggioritario”, tanto lontano non si andrà dai modelli che si fondano sulla logica del “chi vince piglia tutto”. Anche in questo caso dimenticandoci che il principio di fondo di ogni democrazia che vuole essere rappresentativa dovrebbe essere quello di uguaglianza e di proporzionalità.

 

Il jobs act

 

Un'altra riforma sbandierata come attesa dagli italiani (e dai mercati) è quella che ha portato all'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Del cosiddetto “jobs act” se ne è parlato come di un'iniziativa fondamentale per sbloccare il mercato del lavoro e mettere fine alla diseguaglianza fra lavoratori stabili e precariato. Che questo avvenga dando mano libera alle imprese di poter licenziare senza “giusta causa” è un'idea tanto bizzarra quanto tutta da dimostrare. Dopo la sua approvazione è iniziata una campagna mediatica tesa a dimostrare che gli effetti delle riforme di Renzi già si farebbero sentire sulla crescita del paese. Per capire che si tratta di una “bufala” basterebbe dare un'occhiata ai dati che proprio oggi ha reso noti l'Istat sulla produzione industriale a gennaio che segna una contrazione dello 0,7% su dicembre e del 2,2% rispetto a gennaio 2014. E questo nonostante lo spread sia sceso a meno di 100 punti (con la conseguenza di un alleggerimento degli interessi passivi sul debito pubblico), dal dimezzamento del costo del petrolio e dalla vistosa perdita di valore dell'Euro che ha effetti immediati nel favorire le esportazioni (un po' meno per i risparmiatori).

 

La responsabilità civile dei giudici

 

Quanto alla riforma della giustizia, quella sulla responsabilità civile dei giudici è una partita vecchia come la P2, la quale non a caso aveva al primo posto «la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati». L'esito è un conflitto fra i poteri dello Stato tanto da portare il Presidente Sergio Mattarella ad affermare che «le recenti modifiche alla legge Vassalli andranno attentamente valutate alla luce degli effetti concreti dell'applicazione della nuova legge». Parole che pesano, come ha scritto qualcuno “rotolando giù dal Colle fin dentro Palazzo Chigi”. Altre riforme sono solo annunciate, investiranno il sistema radiotelevisivo, la scuola ed altro ancora. Non voglio essere prevenuto, ma se il buongiorno si vede dal mattino...

 

Il bisogno di riforme

 

Non fa parte della mia cultura politica quello di aggrapparsi ai miti del passato, nemmeno quando questi ci riportano alla stagione delle grandi riforme che negli anni '70 hanno profondamente cambiato questo paese. Al contrario, i nuovi contesti richiederebbero uno scarto di visione e di pensiero nella consapevolezza che abbiamo superato da tempo il limite, che la continua crescita demografica e il carattere limitato delle risorse ci obbligano a ripensare le categorie che ci hanno portati sin qui. Certo che servono le riforme, dunque. Ma quelle che ci dovrebbero portare ad avere un approccio europeo (e territoriale) verso il lavoro e il welfare, mettendo le briglia ad un sistema finanziario impazzito per renderlo meno vantaggioso rispetto all'investimento produttivo, oppure quello che dovrebbe portare ad una riforma del sistema di difesa in chiave europea e così via. Ma qui c'è materia per un nuovo capitolo di questa rubrica.

 

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