"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Cosa stiamo diventando? Dai muri della vergogna alla guerra.

Lo sbarco della nave Vlora, 8 agosto 1992

«La maledizione di vivere tempi interessanti» (23)



«Il migrare è la condizione reale dell’uomo a questo mondo»

Dževad Karahasan

di Michele Nardelli

Quanto piccolo è diventato il pianeta, da mettere in discussione uno dei tratti salienti della natura umana? Eppure è così. In un mondo che si è costruito attraverso grandi processi migratori si ergono muri di ogni tipo, materiali ed immateriali.

Addolorano quelli materiali che ricostruiscono frontiere che pensavamo abbattute, disegnando nuove apartheid. Penso al filo spinato alto quattro metri e lungo 175 chilometri che l’Ungheria sta costruendo al confine con la Serbia, una scelta che ci racconta di come ben poco si sia elaborato in quel paese sulle politiche di discriminazione razziale quando l’Ungheria – per condivisione e per ritornare in possesso di quei territori che il Trattato di Versailles gli aveva sottratto – acclamava l’invasione tedesca e la deportazione di ebrei e rom che lì rappresentavano una parte significativa della popolazione1. Più di mezzo milione di persone finirono nei campi della morte. Oppure a quello che per 3.200 chilometri divide il Messico dagli Stati Uniti d’America per fermare l’immigrazione e dove circa seimila persone vi hanno perso la vita nel tentativo di attraversarlo. E’ lungo 2.900 chilometri quello che separa l’India dal Pakistan per una guerra mai finita. E come non ricordare quello di sabbia e mine fra Marocco e Sahara Occidentale che di chilometri ne fa 2.700. Costruito nel 1964, dopo oltre mezzo secolo il muro di Cipro ancora divide l’isola fra la parte greca e quella turca per oltre 180 chilometri. In Irlanda del Nord ancora 5 chilometri di muro dividono le comunità cattolica e protestante. Ma ci sono muri – come quello di Rio de Janeiro – che sono stati realizzati dentro lo stesso stato per dividere i ricchi dai poveri, i quartieri residenziali e favelas, 11 chilometri di vergogna costati 17,6 milioni di dollari. La Bulgaria ha contrassegnato il proprio ingresso nell’Unione Europea realizzando una barriera di filo spinato che quando completata sarà di 160 chilometri per cercare di impedire l’emigrazione dalla Turchia. E’ lunga 250 chilometri (e larga 4) la terra di nessuno contrassegnata dalle mine e dal filo spinato che separa la Corea del Nord da quella del Sud. Ed infine, ma l’elenco dei muri della vergogna potrebbe continuare a lungo, particolarmente odiosi sono i quasi 700 chilometri di muro che sono stati realizzati negli ultimi anni per dividere la Palestina storica. Sorto per volontà di uno stato, quello di Israele, che ha deciso contro le istituzioni del diritto e della comunità internazionale di avere come proprio orizzonte – cortocircuito della memoria – il filo spinato.

E poi ci sono i muri immateriali, meno visibili ma altrettanto odiosi. Penso al Mar Mediterraneo, un immenso cimitero solcato da carrette e gommoni di chi costruisce il proprio business sull’umana sofferenza. Al cinismo di chi approfitta di donne e uomini privi di cittadinanza. A chi fa leva sull’ignoranza e sulla paura per ottenere facile consenso. E, infine, penso alla guerra fra poveri di cui abbiamo avuto riscontro in queste settimane nelle nostre città, a quanto si possa diventare cattivi nel vedere in questa povera gente un nemico che potrebbe contendere quel che si ha e che altri non hanno.

Com'è brutta questa Europa e che brutto sta diventando questo nostro paese che pure ha conosciuto più di altri il dolore del migrare. Bastano poche decine di immigrati per innescare forme di ribellione sociale... Laddove un tempo ci si faceva in quattro per aiutare chi arrivava dal meridione mettendo a disposizione quel poco che si aveva per rendere meno grama la vita di chi aveva ancora meno, ora si bruciano i materassi della protezione civile. Qualcuno si ricorda (era l'agosto 1991) della nave “Vlora” stipata di ventimila profughi albanesi approdata nel porto di Bari? Ma quello era un altro paese...

Ed anche qui, in questa terra dove la solidarietà dovrebbe essere nel DNA (dal 1874 al 1914 emigrarono dal Trentino 40 mila persone, praticamente un quarto della popolazione di allora) e dove gli immigrati oltre a produrre l'11% del PIL garantiscono forza lavoro in settori chiave dell'economia e dei servizi, si arretra culturalmente e si diffondono odiosi stereotipi insieme alla paura. “Al Trentino 810 profughi” titolava domenica L'Adige in prima pagina a otto colonne, praticamente 4 per Comune, molti dei quali se ne andranno a breve per ricongiungersi con le loro famiglie in altri paesi europei. Sarebbe questa questa l'emergenza? Ci siamo dimenticati delle centinaia di profughi provenienti dall'Albania nel 1991 ospitati dalla caserma Degol di Strigno, seguiti l'anno successivo da quelli provenienti dalla guerra di Bosnia?

Chi prima gridava “Roma ladrona” ora urla “prima gli italiani”, slogan che parla al rancore profondo e agli istinti peggiori, poi non molto diversi da altre parole d’ordine che nel corso del Novecento sono state all’origine delle sue grandi tragedie. Un mondo senza memoria.

In assenza di elaborazione della storia, non si può che vivere al presente, nell’emergenza continua senza comprendere che l’emergenza stessa è parte del problema, come se tutto questo non avesse a che fare con precise responsabilità, individuali e collettive. Cioè nelle scelte compiute nella sfera pubblica come nei nostri comportamenti e stili di vita privati.

L’esodo non viene dal nulla. E’ l’esito di dominazioni coloniali, guerre di ogni genere, sfruttamento delle risorse, regimi autoritari accondiscendenti con le grandi potenze “democratiche”. O anche, semplicemente, della vana speranza di venir reclutati dalla parte degli inclusi e per questo pronti a tutto. La povertà non è santa. Come non lo sono le nostre democrazie quando rivendicano la “non negoziabilità dei propri stili di vita”.

Per questo siamo (e cominciamo a sentirci) in guerra. L’acqua, la terra (ovvero il cibo), le fonti energetiche fossili hanno carattere limitato. In prossimità dei 9 miliardi di esseri umani sul pianeta (2030) e di fronte all’insostenibilità dell’attuale livello di consumi (l’overshoot day nel 2014 è stato il 19 agosto), possiamo imboccare due strade: la prima è quella della sobrietà, riducendo la nostra impronta ecologica e facendo nostra la cultura del limite; la seconda è quella di rivendicare che qualcuno ha più diritti di altri, la divisione del mondo fra inclusi ed esclusi, in altre parole la guerra.

Non si ha il coraggio di dirlo esplicitamente, non sta bene. E poi, come la mettiamo con il delirio della crescita? Ma la realtà corre già su questa seconda strada. Si inizia con i muri e il filo spinato, si agita lo “scontro di civiltà”... dove si finirà non sarà affatto estraneo alle scelte che sapremo compiere in questo passaggio di tempo.

1 Consigli di lettura. György Konrád, “Partenza e ritorno”. Keller editore, 2014. Danilo Kiš, Alexandar Tišma “Novi Sad, i giorni freddi”. ADV, 2012

 

2 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Michele il 07 agosto 2015 15:39
    Permettimi di non essere d'accordo. Al di là dell'esauribilità o meno delle risorse energetiche fossili, come puoi non vedere che per il petrolio e il gas abbiamo conosciuto decenni di guerre che hanno coinvolto anche l'Italia, con tutta l'eredità che ci hanno lasciato? Come non vedere che già oggi consumiamo una quantità di risorse per un terzo in più di quelle che potremmo permetterci e che gli ecosistemi sono in grado annualmente di produrre? Come puoi non vedere come l'acqua e la terra (il cibo) siano già oggi motivo di conflitti acuti e di guerre?
    Se l'umanità non inizierà a fare i conti con la cultura del limite, vincerà il consumismo e ognuno di noi diventerà, come in parte già siamo e come ci ricordava Andrea Zanzotto, nel contempo vittime e carnefici di un sistema insostenibile.
    Con tutto il bene che mi vuoi, mi dici che regalo consenso alla Lega. Con tutto il bene che anch'io ti voglio, cerca di uscire dal paradigma prometeico e dell'uomo signore del mondo, che della cultura egoistica sono all'origine.
    No, l'insostenibilità di questo modello di sviluppo non porterà la gente a cambiare ma ad azzannarsi. Ed è quello che in parte già sta avvenendo.
  2. inviato da stefano fait il 06 agosto 2015 22:40
    Ti voglio un sacco di bene Michele e perciò continuerò a romperti le balle ;op

    Io continuo a suggerirti di non costruire il tuo edificio su fondamenta fragili, ma tu procedi cocciutamente.

    E' dagli anni Cinquanta che, come tu ben sai, le "fonti energetiche fossili" avrebbero carattere limitato, eppure le compagnie petrolifere riaprono pozzi abbandonati e li ritrovano produttivi e si scoprono giacimenti laddove i geologici lo escludevano categoricamente.

    Ora gli specialisti hanno rinviato il famigerato picco alla metà del secolo.
    Tra 30 anni sarà rimandato a fine secolo.
    E così via.

    Il peggio è che non solo sono fondamenta teoreticamente ed empiricamente fragili, che indeboliscono le tue SACROSANTE RAGIONI E MOTIVAZIONI, sono pure suicide: tu predichi, di fatto, la scarsità, non rendendoti conto che gli esseri umani, alle prese con un futuro di carenze, entrano IMMEDIATAMENTE E AUTOMATICAMENTE in modalità istinto di sopravvivenza à la Salvini (o à la abitante di paese affondato nella miseria).

    Ti sei cacciato in un vicolo cieco logico e stai di fatto regalando voti ai leghisti e a tutti i movimenti che sbandierano l'egoismo, l'avidità, la violenza psicologica e fisica, il mors tua vita mea.

    Lo giustifichi con te stesso ripetendoti che alla fine l'intervento messianico del picco del petrolio costringerà la gente a cambiare.
    E perché non lo sbarco degli alieni?
    O il mutamento climatico?
    O la seconda venuta del Cristo?


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