"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Del ruolo e della forma della politica. Da una chiacchierata con Fabrizio Barca.

Immagine Zappini

 

di Federico Zappini

(17 novembre 2015) Un mesetto fa, a margine di un suo impegno a Trento, ho avuto l’occasione di scambiare qualche chiacchiera (insieme al gruppo di territoriali#europei) con Fabrizio Barca. Un incontro interessante per molti aspetti, che provo in questo testo a elaborare lavorando per parole chiave, cercando tra esse un tratto comune utile a riflettere sul ruolo e sui modelli organizzativi della politica. Avendo seguito con attenzione il lavoro che Barca ha condotto prima presso il Ministero per la Coesione Economica (per chi non lo conoscesse ecco qui il sito di OpenCoesione), poi nell’attivazione e nello sviluppo di comunità (progetto Luoghi Ideali) e infine nel marasma del PD romano post-Mafia Capitale (per approfondire qui il rapporto finale dell’inchiesta) ero curioso di ascoltare le sue riflessioni e capirne l’efficacia soprattutto metodologica. Il metodo appunto è stato tema ricorrente nel tema passato insieme e così sarà per questa mia riflessione.

Territorio, comunità, partecipazione.

Negli ultimi anni si è immaginato che le parole territorio e comunità (con la partecipazione come utile termine passpartout) rappresentassero la declinazione naturalmente positiva di un progetto politico, qualunque esso fosse. Negativi – o almeno pericolosi – erano al contrario i flussi che attraversavano quei territori. Flussi che tanto bene ha descritto Aldo Bonomi e che hanno modificato irrimediabilmente – nel bene e nel male – gli schemi con i quali eravamo abituati a leggere la realtà che ci circondava. Flussi di denaro, flussi di persone, flussi di informazione e sentimenti. Ora, è abbastanza evidente che i territori e le comunità (e la partecipazione di conseguenza) sono contesti in costante e rapidissima trasformazione, perennemente messi alla prova da fenomeni – gli stessi flussi che ho elencato sommariamente – che possono essere generatori di aspri conflitti e allo stesso tempo di innovative e fino a oggi non ancora del tutto comprese opportunità. In entrambi i casi a fare la differenza è la capacità di stare dentro le trasformazioni in atto con strumenti adatti e con l’accortezza di far sentire ognuno protagonista della cura e della valorizzazione del territorio stesso, oltre che dell’animazione della comunità di cui fa parte. Sono i sempre più frequenti processi bottom up (dal basso verso l’alto) a doverci incuriosire. In tal senso il protagonismo di ciascuno dentro la vita sociale, politica e culturale non è più un punto fra tanti dentro un programma elettorale, ma diventa la caratteristica fondamentale e certificatrice di un avvenuto cambio di indirizzo nella definizione di uno spazio politico e dell’azione che lo attraversa.
La transizione tra il “non più” e il “non ancora” che ci accomuna (a Trento come a Roma, a Parigi come in ogni altro angolo del pianeta) non può fare a meno di un coinvolgimento trasversale di tutti gli attori in campo, determinando un modo nuovo di intendere la governance e il rapporto di ogni singolo cittadino con essa, oltre che una rinnovata e riconosciuta missione dei corpi intermedi, di cui parlerò in seguito.

Progetto, processo, metodo, precondizioni

 Non è quindi nella ricerca – e magari anche nella conquista parziale – del consenso che si determina la capacità di un soggetto politico di essere credibile, riconosciuto e soprattutto utile. Almeno non nell’immediato. Certo si può rimanere in trepidante attesa per l’ultimo sondaggio (mai così poco rappresentativi e altalenanti) o dirsi stupiti di fronte ai dati sulla crescente disaffezione di cittadini e cittadini nei confronti della politica. Ci muoviamo, bisogna esserne consapevoli, dentro un terreno da anni mal coltivato, privo delle condizioni necessarie per agire un’azione politica degna di questo nome. Ecco allora che l’esperienza di Fabrizio Barca nei vari settori del suo intervento – da Ministro, da studioso, da dirigente di partito – ci viene in aiuto per chiarirci quale può essere la strada da percorrere nel tentativo di riaffermare la centralità della politica e nel ridefinirne le forme organizzative. Chi conserva la voglia di andare oltre l’ipotesi di costruire salvifici “contenitori” (ad ogni latitudine dell’arco costituzionale) – aspettandosi che magicamente questi si riempiano di persone, energie e idee – è bene si concentri su alcuni passaggi preliminari e propedeutici alle fasi successive. Nel discorso di Barca questi step intermedi emergono con una certa chiarezza. I progetti, come luogo materiale e sperimentale della messa alla prova di comunità spurie e multiformi che fanno riferimento a un territorio bene specifico e hanno bisogno di un appiglio pragmatico alla propria realtà geografica e sociale di riferimento. Per potersi riconoscere e iniziare a lavorare insieme. I processi, lenti e costanti, che favoriscono e si cibano della sedimentazione di buone pratiche, di rapporti di fiducia, di linguaggi condivisi. Il metodo non inteso come vezzo teorico e tecnico ma come quotidiana verifica della propria non autoreferenzialità e della reale animazone di una comunità che tende al cambiamento.
I progetti hanno bisogno di bravi disegnatori, materiali da costruzione di qualità, manovali capaci e creativi, di ipotesi da vagliare e, se confermate, da mettere in cantiere. I processi necessitano invece di pazienza, costanza, curiosità, un pizzico di fortuna. Solo raccogliendo questa sfida progettuale/processuale ci accorgiamo di come prima venga l’attivazione e la creazione di quelle che da tempo definisco precondizioni (un tempo si sarebbero dette condizioni pre-politiche) e che solo successivamente possono sfociare in una più articolata riflessione sulle forme dell’organizzazione da darsi.

Frammentazione/Ricomposizione. Spazi/Luoghi. Non partito/Partito. Il dilemma della rappresentanza.

E se avesse centrato l’obiettivo Alessandro Baricco quando per la scuola Holden propone un’intera annualità dedicata alla scrittura di un sequel (in alternativa all’ultimo triste capitolo che sembriamo vivere…) per la storia dell’Europa? Non è un’ipotesi troppo innovativa quella che dalla frammentazione alla ricomposizione si debba passare, anche, attraverso la ricerca di una narrazione comune, includente e coinvolgente. Non ci vuole molto intuito per capire che semplici spazi fisici diventano luoghi pulsanti di passioni solo lì dove si esprime la vita vissuta, fatta di ciò che si riesce a fare insieme perché si pensa meriti di essere fatto. Al netto dell’apologia dello stoytelling come panacea di ogni male e contro l’idea che possa uno solo (come si tende per comodità a fare) tracciare le rotte della narrazione, rimane centrale l’esigenza di sentirsi parte di un qualcosa che ci rappresenti, che permetta di raccontare e raccontarsi. Sogni, ambizioni, fragilità e persino paure. In relazione con uno spazio sovranazionale (l’Europa, il Mediterraneo, il Mondo intero) o con la geografia più compatta della propria città il meccanismo è lo stesso e sta alla base anche della possibilità – auspicabile – di un ruolo nuovo per i corpi intermedi. “Fare società”, come suggerisce Aldo Bonomi alle organizzazioni sindacali all’interno di una riflessione sul pensiero comunitario di Adriano Olivetti. “Fare con la comunità”, come ampiamente dimostra l’opera del gruppo di lavoro che circonda Fabrizio Barca, per aiutarla ad autorappresentarsi e autogovernarsi.E i partiti? Per il momento non sembrano approcciarsi a questo cambio di angolo visuale con particolare curiosità e investendo troppe energie. Il tempo scorre.

dal blog di Federico Zappini https://pontidivista.wordpress.com/

 

0 commenti all'articolo - torna indietro

il tuo nick name*
url la tua email (non verrà pubblicata)*