"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La crisi del Partito Democratico

Un momento dell'assemblea nazionale del PD (foto Ansa)

di Roberto Pinter*

(21 febbraio 2017) Ho seguito sconfortato i lavori dell'assemblea nazionale del PD. Non tanto per quello che è stato detto, che a parte qualche eccezione è stato un dibattito all'altezza del dramma vissuto dal partito, ma proprio per la mancanza di rispetto che a parole era stato invocato dal segretario.

Le espressioni di insofferenza di chi mal sopporta l'altro la dicono più lunga di ogni altra frase e applauso di circostanza: mentre i Veltroni di turno si prodigavano per richiamare il progetto originario, buona parte della platea applaudiva solo chi si adeguava alla linea dettata da Renzi per nulla preoccupata di una possibile scissione.

L'unica possibilità di evitare una scissione era nelle mani di Renzi e Renzi, abilissimo a cogliere le contraddizioni della minoranza,non ha mosso un solo dito, anzi ha rincarato la dose guardandosi bene da qualsiasi autocritica (sembra che il referendum l'avesse vinto) e sfidando gli avversari.

Non condivido l'idea di scissione e ho trovato contraddittorie le richieste della minoranza, ma quel che alla fine chiedevano era un segnale che non è arrivato.

Quello che non voglio capire è come sia possibile che i Veltroni, i Franceschini, i Fassino, gli Orlando, si limitino agli appelli all'unità e non provino a mantenerla imponendo al segretario di esserlo di tutti e non solo di una parte.

Ora si dirà che il PD non è mai nato, che quello che non ha funzionato è stata l'unificazione di culture diverse che in realtà non c'è mai stata. Tra chi ha fondato il PD c'era senz'altro chi conservava la diffidenza, ma è anche vero che l'elettorato del PD non ha avuto gli stessi problemi del gruppo dirigente e assieme a chi non veniva da storie precedenti si è ben presto scordata le appartenenze.

Il problema più che i comunisti che non si sono unificati con i democristiani è che la ricerca di una nuova sinistra si è scontrata da una parte con le vecchie culture e dall'altra con l'incapacità di trovare un nuovo pensiero e non solo un nuovo contenitore. Il problema è la drammatica impotenza emersa anche nell'assemblea di domenica, che a parte la voglia di ritrovare il proprio popolo mancava di una idea, una proposta, una condivisione che lo rendessero possibile.

Una sinistra che quando ha fondato il PD non era vincente e proprio per questo lo ha fondato unendosi ai cattolici popolari, ma che si è illusa che bastasse vincere elettoralmente per ritrovare la rappresentanza smarrita. Quello che doveva fare era abbandonare la presunzione che ha sempre accompagnato i vecchi gruppi dirigenti, evitare di sommare e spartire e rifondare una classe dirigente che sapesse osare e non solo mediare. Ma per farlo doveva investire su chi poteva per eresia di pensiero o per entusiasmo democratico interpretare un'idea di Partito Democratico che non fosse una minestra riscaldata.

Forse Renzi aveva il dinamismo necessario, peccato che la sinistra dei valori gli fosse estranea. Non parlo delle bandiere rosse o delle feste dell'Unità che tanto gli piacciono, parlo di quella remota possibilità, che avevano smarrito anche coloro che oggi la rivendicano, di esprimere un pensiero critico rispetto a quello dominante.

Tant'è che ci pensa la borghesia democratica del giornale Repubblica a ricordare al PD che è tempo di ripensare alla fede nella magnifiche e progressive sorti che ha sempre contraddistinto la socialdemocrazia.

Una fede che era anche l'illusione che bastasse far ripartire la locomotiva per rinnovare il patto tra capitalismo e lavoratori e dispensare il welfare necessario per non far pesare le disuguaglianze. Peccato che le disuguaglianze si sono trasformate in ingiustizie e la crescita le abbia aumentate. E il PD si è ritrovato, come tutta la sinistra europea, privo delle certezze fondative del suo riformismo: che fosse sufficiente coltivare le opportunità e il merito piuttosto che porsi il problema della redistribuzione della ricchezza e del potere o affrontare i privilegi di una parte sempre più garantita rispetto alla maggioranza degli esclusi. E si è ritrovato con la globalizzazione e i flussi migratori e la trasformazione e riduzione del lavoro che hanno sottratto alla politica e alle nazioni il governo delle cose e reso la sinistra estranea a chi era in cerca di una qualche forma di emancipazione.

Può ben prendersela il PD con i populismi e la demagogia ma come qualcuno ha ricordato in assemblea bisognerebbe vedere quanto ha concorso, prima ignorando la denuncia dell'intreccio tra affari e politica e la crescita dei privilegi e poi ricorrendo alla semplificazione del maggioritario e al leaderismo dei quali Renzi è una coerente espressione.

Troppo facile pensare che il PD va in crisi per l'imposizione da parte di Renzi e non da parte dell'elettorato di chi saranno gli eletti, ci sarà anche questo, ma la crisi del PD è ben cosa più grande perché è crisi di rappresentanza e crisi nella capacità di essere sinistra oggi. E forse per questo Renzi si accontenta del centro del partito, perché di più non saprebbe comunque fare, né a sinistra né come abbiamo visto nemmeno a destra.

In Trentino, che risente meno dei peccati originari anche se ne ha aggiunto qualcuno di suo, sarebbe bello che si cogliesse l'occasione per provare ad essere qualcosa di più che un riflesso del nazionale, non solo perché il riflesso è appannato o perché ci è in parte estranea la drammaturgia del nazionale, ma perché non c'è possibilità di una buona politica se non si riparte dalla capacità di legittimarla sul territorio.

Purché non si pensi che la forma (l'autonomia in questo caso) sia la risposta.

* Roberto Pinter (uno dei tanti costituenti del PD trentino e del PD nazionale)

 

2 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Maurizio Panizza il 22 febbraio 2017 17:50
    "Ma la crisi del PD è ben cosa più grande del "problema Renzi" perché è crisi di rappresentanza e crisi nella capacità di essere sinistra oggi.
    La frase che riporto in virgolettato è di Roberto Pinter che ha aperto questo confronto. Da parte mia ho da aggiungere ben poco, avendo lasciato da tempo la politica attiva per occuparmi di altre cose che mi danno più soddisfazione. Solo guardo con occhi delusi a quanto sta succedendo. Del resto se in un ormai lontano passato, dalla "Sinistra" ci si aspettava sempre rigore e diversità di azione e dunque onestà, trasparenza, abnegazione e forte tensione alla rappresentanza delle classi più deboli, possiamo dunque affermare che questo PD abbia incarnato quell'antico spirito fondativo?
    La risposta non la dò io, ma l'ha già data Pinter nelle sue conclusioni.
  2. inviato da vincenzo il 22 febbraio 2017 07:42
    I severi giudizii sul Partito democratico che appaiono sulla stampa corrispondono al vero? Chiediamocelo, anche alla luce dei fatti sotto i nostri occhi. Parole d’ordine impegnative, quelle che circolano in questi giorni nella sinistra italiana. Si va dalla rivoluzione invocata da de Magistris (Napoli capitale dell’insieme dei movimenti di democrazia di base), al campo progressista di Pisapia (Milano capitale del riformismo), al ribaltone grillino (Roma capitale a cinque stelle). Più modestamente, elettoralisticamente parlando, dentro il PD la dialettica territoriale fra Sud, Centro e Nord si incarna in volti intercambiabili quali quelli di Renzi, Rossi, Emiliano e via elencando. Rifondare la sinistra in queste condizioni? Impresa ardua che non necessariamente deve essere intrapresa in questo estremo nord alpino. La via per non venire sopraffatti ci viene indirettamente suggerita da Eugenio Scalfari che conclude l’editoriale di domenica 12 febbraio con questa esortazione al PD: “ci vuole una rifondazione della sinistra interna che utilizzi quanto c’è di efficace e moderno nella cosiddetta dissidenza”. Per fare ciò, sono sempre i suggerimenti di Scalfari, “Renzi deve cambiare il partito, esaltare una sorta di giovane guardia territoriale che prenda il posto dei circoli, ma dove sia molto presente anche la sinistra democratica, quella che sta dentro e quella che sta nelle immediate vicinanze“. Lungi da Scalfari qualsivoglia analogia con le maoiste guardie rosse, ma si trattava certamente di un robusto invito ad abbandonare le pratiche attuali del ceto politico. Parole al vento, si potrebbe dire, visto l’esito dell’assemblea nazionale del PD: Veltroni, Fassino, Franceschini ... tante mozioni degli affetti; mi ricordano le lacrime di Ingrao, al cui fianco mi trovavo al congresso di Rimini (scissione di Rifondazione). Allora però cadeva il comunismo, oggi si discute di dimissioni di un segretario che in caso di sconfitta al referendum aveva promesso di abbandonare la politica e che ora invece si ricandida. Dimissioni finte che generano un congresso finto. Renzi ha perso l'occasione per diventare uno statista, facendosi carico responsabilmente delle ragioni della minoranza e mantenendo l’onere della segreteria del partito fino alla scadenza naturale della legislatura; qualcuno ha ricordato "Via col vento" ed in effetti “domani è un altro giorno”. E per noi, per l’autonomia, come si doveva tradurre l’invito scalfariano? L’articolo 13 dello statuto del PD nazionale recita che “Per le elezioni regionali e locali l’accordo confederativo comporta la rinuncia del Partito Democratico a presentare proprie liste ovvero la regolare presentazione di liste elettorali comuni con il partito locale confederato.” Con colpevole ritardo, esponenti di primo piano del PDT, chiedono l’applicazione dell’articolo 13, nella convinzione di arrestare così la deriva in atto che lascia poche o nulle speranze a che si realizzi per il PD la guida della Presidenza della giunta provinciale per la prossima consigliatura. La sinistra trentina, figlia di un Dio minore, dovrà rinviare ancora il momento in cui veder realizzato il sogno di progenitura a lungo coltivato. Per le ingegnerie istituzionali il tempo stringe; se un assetto confederato si fosse adottato ai tempi della nascita ritardata del PD nel Trentino, la storia del centrosinistra autonomista avrebbe avuto un diverso svolgimento, e lo stesso Lorenzo Dellai, leader centrista dello schieramento, avrebbe potuto con più forza dar seguito al progetto di trasformazione della Provincia in Comunità autonoma, progetto necessario al fine di conservare le attuali speciali prerogative di autogoverno. La mancata realizzazione di quel disegno ha molti padri: il centralismo, che fa parte di un DNA passato indenne nel lungo processo PCI-PDS-DS-PD, il frazionismo interno al PD, che ha portato a vedere più nemici fra le proprie file che nel debole centrodestra; padre mancante, un leader carismatico intimamente riformista quale fu Walter Micheli. Personalmente ho potuto vedere all’opera la congiura di questi padri nei due congressi in cui presentai invano una mozione federalista. A cascata, la sequenza degli errori è stata impietosa: si è partiti dal mancato ballottaggio fra i candidati alla segreteria provinciale (Tonini e Nicoletti) che portò il partito nel limbo, per arrivare alla sconfitta di Olivi alle primarie coalizionali, da cui si uscì non investendo lo stesso di un ruolo politico, bensì assegnandogli un ruolo ancillare di “vicegovernatore”. L’esito delle prossime elezioni provinciali, se permane questo quadro, rischia di essere sfavorevole, con un Centrosinistra autonomista schiacciato fra un centrodestra alleato alle insorgenti liste civiche ed un movimento cinque stelle animato da uno spirito di radicale contestazione. Ma poiché è inutile piangere sul latte versato, ed essendo venuto a mancare il momento fondativo di un nuovo soggetto politico confederato, per la sinistra trentina si prospetta una “lunga marcia” ( e qui sì ritorna Mao) attraverso le istituzioni. prima di tornare a metter piede nelle stanze dei bottoni il Pd deve cambiare pelle e dirigenti. L’analisi di Roberto Pinter non fa una piega. E se pensassimo ad un manifesto programmatico?


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