"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Zibaldone di un mondo alla deriva

Roma, Campo dei fiori. La statua di Giordano Bruno

«La maledizione di vivere tempi interessanti» (78)

di Michele Nardelli

Verrebbe da dire “fatemi scendere”. A scorrere gli avvenimenti di cui parlano le cronache quotidiane c'è di che ritrarsi inorriditi di fronte all'ordinaria stupidità con la quale improvvisate classi dirigenti e vecchi poteri affrontano gli esiti di un passato che incombe e di un presente che delinea i tratti di un'inquietante postmodernità.

Voglio mettere le mani avanti, a scanso di equivoci. Non mi piace la lamentazione dei rancorosi e temo di venir reclutato nelle schiere dei nostalgici del passato, perché gli scenari del presente non sono figli del nulla e perché sono convinto che malgrado tutto le nuove generazioni abbiano qualche punto in più a loro favore.

Semmai il problema siamo noi, considerato che continua a valere l'efficace espressione di Renè Char «la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento»1: il paradosso tipicamente moderno per il quale ogni generazione dimentica le motivazioni di quelle che l'hanno preceduta. Ovvero priva di quell'elaborazione attraverso la quale il passato diventa sedimentazione storica collettiva.

Ma non si tratta solo o tanto di un problema di natura generazionale. Il fatto è che veniamo da una classe dirigente (la mia e quella precedente) che non ha scelto di mettersi di lato (non da parte, che assomiglia molto alla rottamazione), ma ha cercato con le unghie di succedere a se stessa, magari attraverso un lamentoso «...fummo leoni e gattopardi, quelli che ci seguiranno saranno iene e sciacalli»2. E soprattutto portandosi appresso una cassetta degli attrezzi che il tempo e i cambiamenti hanno resa inservibile.

E' proprio in questa incapacità di comprendere il mondo che alberga lo smarrimento del presente, la fatica di mettere a fuoco gli avvenimenti, l'opacità nel decifrare i segni del tempo. Tanto che ogni cosa si consuma nel susseguirsi di continue emergenze che, come ho avuto modo di scrivere recentemente (http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=3972), peraltro non sono tali.

Provo dunque a mettere in fila una serie di vicende annotate che sono scomparse dalla cronaca con la stessa velocità con cui si sono imposte per qualche ora. E qualche considerazione.

Un veleno che serpeggia in Europa. Il protocollo dell'uomo in nero...

L'inquietante uomo in nero che ancora per qualche settimana occuperà il Palazzo del Viminale, mi riferisco a Marco Minniti, continua a rivendicare il suo operato di fustigatore dell'emigrazione clandestina. Di quella politica cioè che ha avallato l'idea stessa che una persona possa essere un criminale semplicemente perché rivendica il diritto alla vita. E che ha lasciato il destino di migliaia di persone nelle mani di chi in Libia o altrove fa affari sulla pelle delle persone. Portando alla criminalizzazione di quelle Ong che non hanno aderito al protocollo Minniti.

E' il caso della Ong catalana Proactiva, proprietaria della nave Open Arms che a marzo ha portato in salvo 216 migranti e per questo accusata di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina3. O della Aquariusdell'associazione Sos Mediterranè e approdata nelle scorse settimane a Catania dopo uno scontro/trattativa con la Guardia costiera libica... o di chi altri come Medicins Sans Frontieres quel protocollo hanno avuto il coraggio di respingerlo al mittente.

La profondità di prospettiva di chi pensa che il dramma migratorio lo si possa affrontare semplicemente scaricandolo su altri fa il paio con gli avvenimenti di Bardonecchia che hanno suscitato l'indignazione per la violazione dei confini da parte della gendarmeria francese, come se il problema non fosse il quotidiano sequestro di persone per riportarle in un paese dove non vogliono stare.

Se la risposta dei progressisti (uso per comodità questa categoria obsoleta, per quanto la collocazione politica di Macron o di Renzi sfugga alle tradizionali categorie della politica) sui fenomeni migratori è quella di rincorrere le posizioni della destra xenofoba che ripristina il filo spinato lungo le vecchie frontiere nazionali, non è solo un problema di disumanità... significa che il Novecento e le sue tragedie non ci hanno proprio insegnato nulla.

Il veleno che serpeggia in Europa richiede un cambio di prospettiva che finalmente si metta alle spalle il delirio otto-novecentesco degli stati-nazione che non ha ancora finito di produrre macerie.

L'ipocrisia dell'occidente e il debito di Sarkozy

A proposito di Libia. Ha colpito lo stato di fermo cui è stato sottoposto l'ex presidente francese Nicholas Sarkozy. L'accusa che gli ha rivolto la magistratura di Nanterre è di aver ricevuto in prossimità delle elezioni presidenziali del 2007 un finanziamento illecito di 50 milioni di euro dall'allora presidente libico Mu'ammar Gheddafi. Che di lì a quattro anni – nel pieno di una primavera araba che in Libia è stata tante cose fuorché primavera – verrà assassinato dalla guerra voluta dalla Francia del presidente Sarkozy per mettere le mani sul petrolio libico e, ora lo sappiamo, anche per togliere di mezzo lo scomodo testimone della spregiudicatezza dell'Eliseo e che probabilmente avrebbe avuto qualcosa da dire di fronte al voltafaccia del presidente francese.

Ma in Libia non c'era nessuna primavera da sostenere e nessun diritto umano da salvaguardare negli obiettivi della coalizione occidentale che decise l'intervento militare e quello che è accaduto in questo paese dopo il 2011 ne rappresenta un'eloquente testimonianza. Compresa la tratta dei migranti che – come ci ha raccontato Andrea Segre nel suo bel film “L'ordine delle cose” – ha nel territorio libico e nel caos organizzato delle sue moderne milizie che si contendono ogni tipologia d'affare un passaggio cruciale. In quel film, immaginato tre anni prima del “protocollo Minniti”, emerge la capacità dell'autore di scrutare dentro gli avvenimenti e nel cinico intento della politica di cercare consenso senza nemmeno la resipiscenza dell'interrogarsi sul dramma individuale e collettivo che in quelle acque si consuma nell'indifferenza quotidiana del “prima noi”.

L'ossessione del filo spinato. Un paese che si avvale dei cecchini...

Anche lo Stato di Israele è alle prese con i migranti. Certo che il solo immaginare Israele come terra d'asilo, in un paese che non conosce lo stato di diritto bensì quello etico (dove gli arabi che vi risiedono sono persone di serie inferiore) e dove l'immigrazione etnico/religiosa (cioè di famiglie di origini ebraica) è stata intesa in chiave antipalestinese, non può che essere segno di un tempo nel quale si è smarrito ogni senso di dignità.

In quale incubo s'è cacciata la “nazione ebraica” con il sionismo, ovvero l'idea di dar vita ad uno stato degli ebrei in Palestina! E pensare che all'inizio del Novecento questa corrente di pensiero era largamente avversata dalla comunità ebraica mondiale, almeno fino a quando la tragedia dell'olocausto non la fece diventare una via di fuga dal mondo che pure contraddiceva con la profonda natura cosmopolita di questo popolo. E' proprio vero che il paradigma dello stato-nazione non ha mai smesso di produrre orrori.

Nel rendere omaggio alla figura di Walter Banjamin nei pressi della sua ultima dimora al cimitero di Port Bou riflettevo fra me su quanto quella generazione di intellettuali apolidi di origine ebraica (oltre a Walter Benjamin, Hannah Arendt, Theodor Adorno, Bertold Brecht...) si troverebbe distante da ciò che lo Stato di Israele è diventato. Di quello stato che non esita ad armare i cecchini come è avvenuto nei giorni scorsi al confine fra Gaza e Israele per uccidere deliberatamente i giovani attivisti palestinesi che manifestavano in forme nonviolente per la costrizione a vivere nella vergogna della prigione a cielo aperto più grande del mondo. Ventisette ragazzi assassinati e duemilaquattrocento feriti sono l'ultimo atto di una guerra che si trascina da decenni nell'ipocrisia globale e in dispregio di ciò che rimane del diritto internazionale.

Già qualche anno fa, nell'osservare le colonie israeliane in Cisgiordania circondate dal filo spinato o il crescere di un muro della vergogna lungo quattrocento chilometri, mi chiedevo a quale deformazione psicosociale può portare l'ossessione dell'insicurezza. Di certo, l'armarsi non è la strada.

In questo modo non potranno che crescere il dolore e il rancore. Occorre ad ogni livello un cambio di approccio che metta al centro lo stato di diritto e la nonviolenza invece che lo stato etico e il diritto della forza. Servirebbero nuovi pensieri e nuove classi dirigenti. E non solo per Israele. Ma mentre scrivo queste parole mi rendo conto che la realtà sta andando esattamente nella direzione opposta. Con effetti destabilizzanti in tutta la regione.

Classi dirigenti. In buone mani...

Sono decenni che l'epicentro della destabilizzazione globale avviene nel vicino Oriente. Dalla Palestina al Libano, dall'Afghanistan all'Iraq, i focolai di tensione non sono affatto spenti. La guerra in Siria, forse il teatro nel quale tutte le partite della regione sembrano intrecciarsi, si protrae da ormai sette anni con un bilancio di vittime insopportabile. Quella nello Yemen annovera numeri inferiori ma non per questo meno gravi. In quello scacchiere si giocano interessi strategici che coinvolgono le grandi potenze (Russia e Stati Uniti d'America) ma anche paesi cruciali come la Turchia, l'Iran, la Siria, l'Arabia Saudita e lo stesso Stato di Israele. Non se ne potrà uscire senza un passo indietro di ciascuno, che oggi però non si scorge all'orizzonte anche in relazione alla natura delle classi dirigenti che si affermano in ciascuno di questi paesi.

Putin è stato da poco confermato per un nuovo mandato presidenziale con percentuali plebiscitarie nel nome della grande Russia; Trump è stato eletto da poco più di un anno e non sarà certo la congiura dei ricchi a rovesciarlo; Erdogan ha cercato di liquidare con il pretesto del tentato golpe ogni forma di dissenso interno; Netanyauh è forte di un elettorato che ha conosciuto nel corso degli anni una sua mutazione profonda anche come effetto dei processi dell'immigrazione dei nuovi coloni provenienti dai paesi dell'est europeo; Assad ha ristabilito il suo potere con una guerra che non risparmia nemmeno l'uso delle armi chimiche; Mohammed bin Salman – il giovane erede al trono saudita – in pochi mesi ha dimostrato tutta la sua spregiudicatezza nel tenere insieme gli interessi della monarchia con quelli di Israele e dell'Occidente. Rouhani ha abilmente costruito un'alleanza con la Turchia e con la Russia, sullo sfondo dell'accordo con le Nazioni Unite (e con l'UE) sul programma nucleare civile, isolando Trump e Netanyauh. Ed è forse questo l'elemento di novità nello scacchiere mediorientale, ma non per questo si evidenzia una soluzione positiva nella cornice della quale immaginare la soluzione per la questione afghana, curda, né tanto meno per quella palestinese.

Che la Russia sia oggi il soggetto che più di ogni altro sembra in grado di giocare un ruolo cruciale è indiscutibile e forse per questo le potenze occidentali stanno cercando pretesti (che pure non mancano) per mettere in difficoltà il nuovo zar, con il quale fino a ieri si sono costruite alleanze non dichiarate e talvolta ingombranti. Quel che accade in queste ore senza la benché minima legittimazione internazionale lo dimostra.

Scheletri, fra armi e rifiuti

Gli armadi sono pieni di scheletri. Fra quelli nostrani, la vicenda dell'assassinio dei giornalisti Ilaria Alpi e Milan Hrovatin in Somalia nel 1994. Quella pagina di storia è così sconveniente che dopo 24 anni non c'è nessun colpevole, i depistaggi sono stati innumerevoli (compresa la condanna che aveva portato in carcere Hasci Omar Hassan, oggi completamente scagionato dopo aver scontato 16 anni) e la desecretazione delle informazioni più volte annunciata è ancora del tutto parziale.

Di certo c'è che la vicenda di cui si stavano occupando Ilaria e Milan riguardava un traffico di armi in cambio dello stoccaggio in Somalia di rifiuti tossici, che queste armi viaggiavano con gli Hercules C130 senza insegne che partivano da una pista clandestina nei pressi di Trapani (sulla quale aveva indagato anche Mauro Rostagno prima di fare la fine che sappiamo) e che l'Italia in quel periodo aveva una relazione privilegiata con il Corno d'Africa per un giro di finanziamenti attraverso la Cooperazione Italiana pari a 400 miliardi di vecchie lire.

A guardar bene il binomio armi e rifiuti non è certo questione di un passato remoto sul quale in ogni caso sarebbe importante fare chiarezza. Perché l'Italia è uno dei principali paesi produttori di armi nel mondo, perché le armi di fabbricazione italiana uccidono quotidianamente nelle tante guerre che nemmeno fanno più notizia, che tale export – come ci ricorda con il suo prezioso lavoro d'inchiesta l'amico Giorgio Beretta4 – è in continua crescita ponendo l'Italia nel gotha mondiale dei paesi produttori con tanto di accompagnamento ufficiale dei nostri governanti (centrosinistra compreso), che l'Italia vede aumentare costantemente le proprie spese militari (nel 2016 prima in Europa con un incremento dell'11%). E perché, per altro verso, il business dei rifiuti ha in Italia un giro d'affari (ufficiale) di 11 miliardi di euro, mentre quello relativo ai rifiuti tossici alimenta – secondo il Rapporto“Ecomafie 2013 – Nomi e numeri dell’illegalità ambientale” di Legambiente – un giro di affari che porta ogni anno nelle tasche dei clan oltre 16 miliardi e mezzo di euro. Solo per dire che le “Terre dei fuochi” non sono solo in Campania.

Sarebbe questo il migliore dei mondi possibile?

Il “Grande fratello” impallidisce

Qualcuno l'ha definito “lo scandalo del secolo”. L'affare dei dati personali gestiti da Cambridge Analytica e che sta travolgendo Facebook ha dei risvolti inquietanti rispetto ai quali il “Grande fratello” evocato nel 1949 da George Orwell in “1984” sembra un gioco da ragazzi. Siamo in presenza di un mercato dei dati personali la cui manipolazione non conosce limiti e obiettivi, dalle indagini sui comportamenti individuali all'esito delle elezioni. Nessuno può chiamarsi fuori.

Tutto questo avviene in un contesto nel quale i paradossi si accavallano, i navigatori si sentono liberi e connessi come non mai, gli ignoranti orgogliosi del proprio giardino (molto spesso immaginario), le anime belle appagate del loro dividere il mondo fra buoni e cattivi. Come scriveva Orwell: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza»5.

Come ha osservato il garante della privacy dell’Unione Europea Giovanni Buttarelli, il sistema del furto dei dati degli utenti, utilizzati poi per scopi elettorali, era piuttosto consolidato e – a quanto pare – non certo una novità. E non è affatto da escludere che quanto avvenuto negli Stati Uniti possa essersi verificato anche in Italia dove Cambridge Analytica sembra aver utilizzato i dati degli utenti per profilarli e, di conseguenza, offrire loro delle indicazioni specifiche che potessero indirizzare le loro scelte.

Devo dire che non ho mai condiviso l'idea che il voto potesse essere il prodotto di particolari manipolazioni, convinto che gli orientamenti politici abbiano a che fare con quelli culturali che a loro volta hanno tempi di sedimentazione ben più profondi di quelli dell'agenda politica. E ciò malgrado è proprio nell'orientare i processi culturali che misuriamo la forza del condizionamento, della nascita dei luoghi comuni, del prendere corpo delle paure.

Peraltro va considerato che è sufficiente spostare l'orientamento degli elettori indecisi in alcuni stati chiave per passare da Obama a Trump. Se poi il racconto degli schieramenti si differenzia sempre meno, diluito in un brodo di coltura dove le categorie sono le stesse, il gioco è fatto.

Modernizzazione e precarietà

In questi mesi abbiamo ascoltato un coro di cortigiani parlare di ripresa economica e di aumento dell'occupazione in base a statistiche fuorvianti e di indicatori obsoleti. Descrivendo in questo modo un paese legale che aveva ben poco a che fare con quello reale. Dove la precarietà rappresenta la cifra di una deregolazione attuata in nome della cosiddetta modernizzazione. Cosa questo significhi realmente lo possiamo comprendere andando a vedere i numeri delle morti bianche e degli infortuni sul lavoro.

Nel 2017 in Italia sono morte sul lavoro 1029 persone (praticamente tre al giorno) mentre gli infortuni sono stati 635.433, ovvero 1741 ogni giorno. Dati di per sé gravi, ma che lo sarebbero ancora di più se fosse possibile conteggiare il lavoro nero che qui non viene contabilizzato. Basta osservare più da vicino i dati relativi agli infortuni per comprendere che il fenomeno è sottostimato, tanto è vero che mentre al Nord le denunce di incidenti sul lavoro sono in costante aumento, al Centro e al Sud sono in netto calo. Il che significa che in buona parte del paese, quando le persone si fanno male, fanno finta di niente o forniscono una motivazione diversa.

Altro aspetto interessante è l'incidenza degli infortuni e delle morti bianche che nella popolazione sopra i sessant'anni è pari al 25%. In questo caso alla precarizzazione si aggiunge lo spostamento in avanti dell'età pensionabile, che costringe i lavoratori anziani a svolgere mansioni inadatte in rapporto all'età.

Come si può facilmente comprendere, tutto questo non è estraneo a tre dei capisaldi delle politiche dei governi che hanno caratterizzato la penultima e l'ultima legislatura: la Legge Fornero, l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la riforma dello Jobs act.

Non mi appassiona la difesa della condizione dei lavoratori “in un solo paese”, perché non è possibile e perché anche questo ha a che fare con il “prima noi”. Da anni assistiamo a fenomeni come la delocalizzazione delle imprese in paesi dove non ci sono tutele né del lavoro, né della salute, né tanto meno dell'ambiente. E dunque il problema andrebbe posto sul piano almeno europeo se non globale, laddove per lo stesso tipo di lavoro si presentano condizioni radicalmente differenti. Nessun luogo è un'isola e l'interdipendenza fa sì che la tendenza alla precarietà non conosca confini, tanto che già oggi in alcuni settori come l'agricoltura abbiamo a che fare con il riapparire in Italia di forme di schiavitù. Che altrove sono normalità.

Il lavoro andrebbe riqualificato (cosa e come produrre, si diceva un tempo) e redistribuito (considerato che non c'è scritto da nessuna parte che l'innovazione tecnologica debba essere al servizio del profitto anziché al liberare tempo). Purtroppo avviene l'opposto.

Anche in questo caso il cambio di paradigma si rivela l'unica strada. A cominciare dallo sguardo con il quale leggiamo il mondo, che non può essere circoscritto ad una dimensione chiusa nei confini nazionali.

Leggere il mondo... e questo nostro Trentino

Il fatto è che in assenza di un racconto che sappia elaborare il Novecento e i suoi paradigmi (e con essi la sconfitta profonda della sinistra) ben difficilmente saremo in grado di tracciarne uno diverso.

L'esito delle elezioni del 4 marzo scorso in Italia è certamente la sconfitta del “renzismo” ma è anche e soprattutto parte di quella sconfitta storica. E se non lo comprendiamo imputandolo ad un difetto di comunicazione (o alle divisioni interne della sinistra), continueremo a non capire che un tempo si è concluso e che per aprirne uno nuovo occorre metterne in discussione i “fondamentali”.

Continuare ad enunciare parole come crescita, lavoro, sanità, casa, istruzione, ambiente, pace, migranti... non vuol dire assolutamente nulla. Perché il nodo è a monte di tutto questo, è la messa in discussione radicale del paradigma del progresso e dello sviluppo delle forze produttive, del mercato come del nostro rapporto con gli ecosistemi, delle forme dell'organizzazione collettiva come dell'esercizio della forza.

Compito, come si può facilmente comprendere, che richiede un lavoro di lunga lena, culturale e sociale prima ancora che politico. Che non si realizza con colpi di teatro o inventandosi nuovi contenitori e tanto meno con leadership improvvisate. Richiede una comunità di pensiero, ben oltre la terra in cui viviamo e questo stesso paese.

Credo sia altresì doveroso interrogarsi su quel che accadrà da qui a pochi mesi in Trentino e in Alto Adige – Südtirol (e a breve in Friuli Venezia Giulia e in Valle d'Aosta). Ma quando già un anno fa con il prologo trentino del nostro “Viaggio nella solitudine della politica” mettemmo in guardia che si andava sfarinando il blocco sociale dell'anomalia trentina, in pochi ci prestarono attenzione. Oggi, dopo il disastroso risultato elettorale delle elezioni politiche, in molti parlano della necessità di una discontinuità. Fioriscono gli appelli, salta qualche testa. Ma la discontinuità, prima ancora che nelle persone o negli schieramenti, riguarda le idee, quel racconto appunto che – riferito a questo territorio – significa un progetto di futuro capace di fare un bilancio sulle luci e sulle ombre della nostra autonomia. E di dire alla nostra gente che se non sapremo “fare meglio con meno” cadremo anche noi nella logica del “prima i trentini”, tirando inevitabilmente – visto che le fotocopie sono in genere meno attraenti dell'originale – la volata alla Lega. Rivendicare il vuoto politico di questa legislatura o negare il patrocinio al Gay Pride delle Dolomiti mi fa dire che siamo già su questa cattiva strada.

2Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo. Feltrinelli, 1969

4http://opalbrescia.org/

5George Orwell, 1984. Mondadori, 1950

 

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