"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La memoria di sé. Un racconto della città di Trento e dei suoi cambiamenti nell'ultima frazione di secondo

Kapla

di Michele Nardelli

Se considerassimo il calendario geologico, scala di grandezza in cui l'intera storia della Terra viene compressa nell'arco di un anno – esercizio che dovremmo considerare per avere un atteggiamento rispettoso verso il pianeta e la natura nonché per comprendere la limitatezza delle nostre esistenze – l'ultimo secondo di questa simulazione corrisponderebbe a centoquarantaquattro anni.

Non preoccupatevi, non intendo prendere in considerazione quest'ultimo secondo e pertanto tornare alla città di Trento del 1875, anche se averne memoria non sarebbe affatto inutile. Saremmo già, a ben vedere, nella città asburgica e alle principali scelte urbanistiche che daranno corpo nei decenni successivi alla Trento moderna, a cominciare dallo spostamento dal centro della città del corso del fiume Adige (1858).

In un bel libro uscito qualche anno fa, l'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis scrive che uno dei motivi che portano alla morte di una città è «quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi»1.

Il dopoguerra, l'eredità del Ventennio e l'assistenza

Se si vuole avere una visione della città del futuro, occorre fare certamente un passo indietro ed elaborarne almeno la storia recente, quella in cui Trento prova a riemergere dopo la seconda guerra mondiale, piegata dagli effetti del fascismo e della guerra, devastata dai bombardamenti, segnata dalla povertà diffusa e da un forte degrado ambientale.

E' infatti negli anni del dopoguerra, in quel tratto di storia che corrisponde all'ultima frazione di secondo, che la città di Trento inizia a crescere in maniera significativa, sia nella sua dimensione urbana che sul piano demografico. Una crescita senza qualità.

La Trento che conosciamo oggi è una bella città, in cima alle graduatorie sulla qualità del vivere, ma non è sempre stato così. Nell'immediato dopoguerra la città è ripiegata sull'emergenza, nell'assistenza verso un tessuto sociale devastato, nella ricostruzione e nel riattivare il tessuto economico e sociale precedente. Senza affatto interrogarsi se al fascismo non corrispondesse anche un modello sociale ed economico conseguente. L'elaborazione del conflitto fatica ad avere cittadinanza.

Trento prova a rinascere ma in assenza di un disegno innovativo. Basti pensare alla discutibile qualità della ricostruzione degli edifici nel centro storico, avvenuta sull'onda di modelli architettonici in stile razionalistico che segnarono Trento come tante altre città. Alzate lo sguardo, un esercizio sempre utile.

Ricostruzione e crescita avvengono in maniera empirica, senza porsi la domanda cruciale di quale fosse o avrebbe dovuto essere la propria natura, quali le proprie vocazioni. E' l'emergenza a dettare legge.

La sua periferia (quella che allora era la sua periferia) è segnata dalle scelte industriali ereditate dal Ventennio: l'Italcementi di Piedicastello, la Sloi di via Maccani, la Michelin in Sanseverino, la Caproni a Roncafort, la Stem in viale Verona, le Officine Elettrochimiche Trentine in via Brennero, la Prada e la Galtarossa a Trento nord, la Gambarotta a Cadine, alcune delle quali particolarmente nocive ed inquinanti. Altre arriveranno successivamente: la Hilton a Mattarello, la Ignis ai Spini di Gardolo, la Clevite a Roncafort, le Officine Lenzi e l'OMT alla Clarina. Se si escludono alcune piccole imprese, la Stem (accumulatori), la SMT (la fabbrica delle brocche), la Demanicor (cucine economiche), la Graffer (impianti di risalita), la Moruzzi (legnami), la Nones (serrande), la Cremogen (lavorazione della frutta), ben poche delle industrie di Trento e dintorni avevano a che fare con il territorio e le sue potenzialità e non è affatto casuale che di tutto questo tessuto industriale sia rimasto ben poco, tranne semmai inquinamento e veleni.

Allo stesso modo la crescita urbanistica della città avviene senza un disegno. In assenza di un'idea di città (industriale, terziaria, turistica, storico/culturale ...) la città cresce più per effetto della migrazione da valli particolarmente impoverite che per la sua capacità di attrazione specifica.

Il Comune di Trento passerà così dai 62 mila abitanti del 1951 (molti dei quali distribuiti sui paesi/sobborghi) ai 99 mila del 1981. I quartieri che nascono sotto questa spinta demografica si sviluppano dapprima verso sud oltre il torrente Fersina (San Bartolomeo) e oltre il quartiere di San Giuseppe (S.Pio X e Clarina), dove sorgono ex novo interi rioni di edilizia popolare, poi verso la collina e successivamente verso nord. Sarà così anche nel quartiere di Cristo Re.

Anche l'impatto con il territorio circostante lascia il segno: sviluppo inguardabile della “Trento alta”, il Bondone (di cui si vedono i segni pressoché indelebili ancora oggi), progressiva cementificazione della collina, crescita dei sobborghi lungo l'asta dell'Adige in virtù della presenza industriale.

Trento è allora una città fortemente inquinata, sopra e sotto. La sua ubicazione fa sì che il fumo delle industrie cittadine ristagni, cui si aggiunge l'effetto camino della valle dell'Adige, tanto che è normale che l'inquinamento e l'odore pungente della Samatec di Mezzocorona (dove oggi sorgono le Cantine Mezzocorona) arrivi fino in città. Le case sono riscaldate a carbone, a nafta e nella migliore delle ipotesi a kerosene. Non tarderà ad aggiungersi, come vedremo, l'inquinamento da traffico. Nel sottosuolo finiscono gli idrocarburi e il piombo, avvelenandone il futuro. I depuratori ancora non ci sono e sono dunque le rogge, l'Adigetto, il rio Salé e il Fersina a fungere da collettori, naturalmente in direzione Adige.

L'approccio verso i temi ambientali era così modesto che ad un certo punto si prende in seria considerazione lo spianamento della Verruca (Doss Trento), come aveva richiesto l'Italcementi. Si erano inventati che il Doss Trento sarebbe ben presto franato, così che la parte vecchia del rione di Piedicastello, uno degli insediamenti più antichi della città venne evacuata per diversi mesi (vedi archivio Livia Battisti).

Ne avremo prova con l'alluvione del novembre 1966, quando il fiume Adige riprese il suo antico corso cittadino. Quel fiume d'acqua che attraversava da Gardolo a Sanseverino il cuore della città era un mare oleoso, carico di veleni, che ci interrogava proprio sullo sviluppo senza qualità.

Ma dovrà scorrere ancora molta acqua sotto i ponti prima di un qualche ripensamento. Ci vorranno le esplosioni della Sloi (giugno 1978) e la tragedia di Stava (luglio 1985) ad imprimere un diverso approccio da parte delle istituzioni alla questione ambientale, posto per altro che di quella eredità ancora paghiamo le conseguenze (vedi inquinamento aree di Trento nord).

Gli anni delle prime pianificazioni e l'esplosione del terziario

Solo con gli anni '60 un disegno programmatico inizia a prendere corpo. E' il disegno riconducibile alla figura di Bruno Kessler che porterà alla nascita dell'Università (1962), al primo Piano Urbanistico Provinciale (1967), al Pacchetto (le 137 norme di attuazione dell'autonomia, 1969), al secondo Statuto di autonomia (1972). E' soprattutto per effetto di quest'ultimo, con il passaggio delle competenze autonomistiche dalla Regione alle Province, il loro progressivo ampliamento e al prendere corpo dell'ampio apparato amministrativo che presuppongono, che si affermerà il carattere terziario della città di Trento.

Trento è destinata a diventare una piccola capitale, ricca di funzioni e di dotazioni finanziarie importanti. Ma nemmeno con l'arrivo del PUP si invertirà la tendenza dell'immigrazione interna e dello spopolamento delle valli più periferiche.

In ogni caso nei primi anni '70 comincia a circolare qualche idea anche per il riordino della città. Sulla scia del PUP viene redatta la previsione urbanistica di “quattro aree direzionali” con il compito di “ricucire” la città. Avrebbero dovuto riguardare l'area a ridosso della Regione (via Petrarca, via Vannetti, via Romagnosi), la porta verso sud (Piazza Fiera, vecchio Ospedale, Corso Tre novembre, Via Piave), l'area verso il fiume Adige e la Ferrovia, e infine la parte nord di via Brennero.

La crescita di Trento nel frattempo procede in maniera estemporanea, più sotto la spinta di interessi privati che altro. A guardar bene anche la presenza dell'Università avrà ben poca incidenza sulla qualità del suo sviluppo, se non per la nascita di alcuni condomini (peraltro di dubbia qualità) dell'Opera universitaria e per alzare il prezzo degli affitti. Anche il disegno di Kessler per dar vita ad un polo universitario (l'area direzionale Adige) venne sterilizzato e non vide mai la luce (in realtà se ne discute ancor oggi a proposito del futuro dell'area ex Italcementi a Piedicastello).

L'unica manifestazione di interesse che gli studenti universitari mettono in campo per la città è la rivendicazione che i finanziamenti statali destinati alla realizzazione dell'Auditorium (1500 milioni di lire, il denaro del cinquantenario della “vittoria”) venissero dirottati sulla rinascita delle Androne (allora fatiscenti), ma rimarrà un fatto isolato. E quando Adriano Olivetti, sì proprio lui, il visionario imprenditore / intellettuale di Ivrea, venne a Trento proponendosi di incontrare gli studenti di Sociologia per esporre le sue idee sul principio di comunità, ne ricevette un sostanziale rifiuto.

L'onda riformatrice tende a rifluire, Kessler venne spedito a fare il deputato a Roma, un rito politico che in Trentino significava emarginazione.

Sono gli anni del boom automobilistico. Fanno specie le immagini del tempo con le piazze del centro storico (piazza del Duomo su tutte) letteralmente occupate dalle autovetture. Trento è una piccola città, forse allora più intasata che negli anni più recenti. Paradossalmente la realizzazione dell'autostrada del Brennero (1968 – 1974) avrà un effetto liberatorio, se consideriamo che prima tutto il traffico (compreso i mezzi pesanti) da e verso il Brennero (ma anche quello verso la Valsugana, Vicenza e Padova) passava dal centro città (viale Verona, corso 3 novembre, piazza Fiera, piazza Venezia, via dei Ventuno, via Brennero). Anche il confronto sugli spazi pedonalizzati nel centro storico non sarà affatto scontato, incontrando l'opposizione di diversi portatori di interessi.

Nacquero in quel contesto le prima ipotesi di nuova viabilità nord – sud con la realizzazione della tangenziale che avrà effetti devastanti per il rione di Piedicastello. Ma era il progresso e le culture politiche che allora si confrontavano di fronte alle magnifiche sorti progressive vi s'inchinavano (del resto anche adesso è un po' così).

Quel che prima era periferia diverrà centro urbano. Il nuovo ospedale Santa Chiara viene realizzato in questo contesto (opera iniziata nel 1960 e inaugurata nel 1970), fra il quartiere residenziale della Bolghera (al Bólgher) nato come “città giardino” (“el quartier dei siori”, forse l'unica eccezione di tipo programmatorio nel dopoguerra) e i rioni popolari di Trento sud. In quegli stessi anni nacque anche il nuovo quartiere di Madonna Bianca, con le sue torri e le sue case a schiera.

Il tema ambientale inizia ad avere cittadinanza politica. Ci pensano nei primi anni '70 i nascenti Comitati di Quartiere a porre all'attenzione della comunità cittadina il problema degli spazi verdi e della vivibilità dei rioni cittadini. Con la prima occupazione dell'area che poi divenne il Parco di San Marco, con la nascita del Comitato di quartiere di Piedicastello proprio attorno alla realizzazione della bretella che ne avrebbe snaturato la parte storica. “Piedicastello non morirà” era lo slogan. Ci vorranno quasi cinquant'anni perché quello sfregio venga sanato.

Grazie alle lotte e alle occupazioni (illegali) da parte dei Comitati di Quartiere e della popolazione diverranno aree verdi il parco Santa Chiara, Maso Ginocchio, l'ex campeggio di Cristo Re, una parte dell'area delle Predare, il parco delle Coste.

Memorabile fu l'occupazione nel giugno 1975 del vecchio Ospedale Santa Chiara (e dell'area circostante) per impedire che la nuova destinazione prendesse corpo. Sulle macerie del vecchio ospedale doveva nascere un centro direzionale analogo al Centro Europa di Via Vannetti. L'occupazione durò sessanta giorni nei quali la città si riappropriò di un luogo a tutti famigliare, alla fine dei quali la mobilitazione popolare fece desistere l'amministrazione comunale da una nuova colata di cemento. Dalla ristrutturazione del vecchio convento diventato poi ospedale e del lazzareto nacquero il centro culturale Santa Chiara, la nuova mensa universitaria e il più grande spazio verde nel cuore della città. Credo che quell'occupazione abbia segnato una svolta non solo perché altre ne seguirono, ma perché fu un colpo di frusta alla politica attorno al tema della qualità del vivere nella città.

Fine anni '60 e primi anni '70 segnarono in ogni caso una metamorfosi politica importante. Soprattutto nel mondo cattolico e nella DC, perché è da quel mondo (più che dalla sinistra tradizionale) che nascono i maggiori fermenti sociali. Sono gli anni in cui il movimento sindacale esprime forme significative di autonomia politica, come la nascita dello SMUT (il primo sindacato unitario dei metalmeccanici) di Giuseppe Mattei. Alle istanze del movimento operaio (cruciale la vertenza Michelin del 1973/1974) corrispondeva un forte e radicato movimento studentesco, i comitati di quartiere di cui abbiamo parlato, un associazionismo ambientalista che affonda le sue radici nelle organizzazioni della montagna (SAT e SOSAT). Troveranno espressione politica nelle nuove esperienze della sinistra critica.

Fra logiche speculative e anomalia

Seguirono gli anni '80, quelli della normalizzazione. Così le dinamiche precedenti proseguono con scelte ampiamente discutibili come la realizzazione dell'Interporto, la nascita del nuovo quartiere di Centochiavi, un mai sopito interesse speculativo su aree importanti nel centro cittadino (area Tosolini) o a Trento nord (come nel caso del Magnete e di “Corso nord”).

Lo scontro sui temi urbanistici con il partito degli affari diventa acceso. Uno scontro che arriva anche dentro le sedi istituzionali, con un dualismo che caratterizzerà la seconda metà degli anni '80 e la prima parte degli anni '90. La crisi industriale viene affrontata con strumenti (Progettone) che provano in maniera del tutto innovativa a coniugare territorio e ambiente. Così la tragedia di Stava aprirà la strada al nuovo PUP costruito attorno all'idea – allora innovativa – di sostenibilità.

E' però paradossale che siano la fine del tessuto industriale cittadino, la dismissione delle vecchie Caserme (e guardando al futuro, lo sblocco delle aree di proprietà della Curia), ad aprire nuove opportunità di pianificazione strategica della città. Area ex Michelin, area ex caserme Filzi, area ex Italcementi, area ex Sloi diverranno altrettante sfide di carattere urbanistico per il futuro della città.

Come paradossale sarà che la rinascita della città inizi con l'intercettazione pressoché casuale dei Fondi Fio che permisero il primo serio intervento di abbellimento del centro storico con la sua nuova pavimentazione.

Non c'è ancora un'idea urbanistica della città, ma la giustapposizione di interessi e scelte politico/culturali. E solo così si può comprendere la contraddittorietà dello sviluppo della città, fra idee lungimiranti (progetto Bosquets) ed il permanere di interessi speculativi. E' necessario riconoscere come, fra la fine degli anni '90 e i primi anni del nuovo secolo, emergano percorsi interessanti di pianificazione sociale e culturale che attraversano le istituzioni, il tessuto sociale e cooperativo, le realtà culturali della città.

Un dualismo presente a suo tempo nella nascita dei Comprensori ma che si evidenzia soprattutto nella più organica riforma istituzionale che darà vita, pur breve, alle Comunità di Valle, prima vera occasione per ridisegnare il rapporto fra il capoluogo e le valli. In bilico fra accentramento dei poteri e assunzione responsabile di autogoverno del territorio, la riforma non troverà mai una vera attuazione. Un nodo che permane cruciale: Trento città centralistica, che svolge tutte le funzioni di governo oppure quella città diffusa con il resto della provincia?

Un altro paradosso sarà che il centralismo provinciale avrà conseguenze nello svuotamento anche del Comune capoluogo e di importanti istituzioni culturali cittadine. Il che peserà nel rapprto con il Mart e il Muse, il Festival internazionale della Montagna come quello sull'economia, sfide che peraltro hanno contribuito a cambiare volto alla città di Trento. Divenendo così, senza mai averlo deciso, città culturale e turistica.

Croci e delizie di un laboratorio politico trentino che ci portano fino ai giorni nostri. L'esempio del Muse e del quartiere delle Albere, riveleranno questa irrisolta contraddizione.

Una road map

Questo racconto non ha l'obiettivo di delineare scenari. Ma lo sguardo sul passato può aiutarci ad individuare una possibile road map, provando ad indicare qualche risposta rispetto al tragitto di questa città. Ne indico solo qualche titolo.

  1. Trento come incrocio non solo fra nord e sud ma anche est /ovest (Regione Dolomiti, Macroregioni Alpina, Adriatico-Ionica, Danubiana)

  2. Trento laboratorio di autogoverno (Terzo Statuto, Europa, Beni comuni e proprietà collettive, Circoscrizioni, altri soggetti organizzati-associativi, Federazione Cooperative)

  3. Trento città della ricerca (Università e formazione permanente, CFSI-CCI, Sistema museale, Fondazione Mach, Festivals)

  4. Trento città alpina (laboratorio sui cambiamenti climatici, sull'impronta ecologica, sul ritorno alla montagna, sulle nuove geografie).

Sono solo alcuni titoli che provano ad indicare una prospettiva nella quale Trento interagisce con il territorio circostante, caratterizzandosi come città diffusa. Se ci pensate, il tema della vocazione e del rapporto con il territorio sono stati i nodi cruciali (e irrisolti) di questo tratto di storia che ho cercato, in maniera necessariamente schematica, di tracciare.

Buon lavoro.

1Salvatore Settis, Se Venezia muore. Einaudi, 2014

 

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