"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

«Ora riconvertiamo l'economia». Intervista a Enrico Giovannini

Rovesciamenti?

Parla il portavoce dell'Alleanza per lo sviluppo sostenibile: "L'emergenza coronavirus ci impone un cambio di paradigma su ambiente ed equità sociale. Eurobond per investimenti green"

di Angela Mauro *

Si rischia di compiere “lo stesso errore” compiuto dopo la crisi 2008-2009: e cioè non cogliere “l’occasione per cambiare paradigma” e “riorientare il sistema economico nella direzione di una maggiore sostenibilità ambientale e una maggiore equità sociale” e non creare “posti di lavoro purché siano”. Enrico Giovannini, economista, ex Chief Statistician dell’Ocse, nonché ex ministro del Lavoro, cofondatore e portavoce dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), è preoccupato perché l’emergenza da coronavirus sta spazzando via dal dibattito pubblico l’attenzione maturata in questi anni sugli Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu. Non un vezzo, ci spiega in questa intervista, ma una strada obbligata per reagire a shock come questi e costruire un futuro migliore e più solido. Si creino “eurobond per investire nell’economia verde: non sarebbero misure assistenziali”.

Gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, pur fatti proprio dalla Commissione europea con il Green deal, sembrano scomparsi dal dibattito pubblico sull’onda dell’emergenza Covid-19. Come se lo spiega?

Prima della crisi del 2008-2009, in Ocse avevamo provato a convincere molti governi ad adottare la logica di andare “oltre il Pil” nella misurazione dello stato di una società. La crisi fu il killer di questa discussione. Quando alcuni anni dopo chiesi ad Alan Krueger, advisor di Obama che pure faceva parte della commissione Stiglitz, perché non fosse stata colta l’occasione per cambiare paradigma, mi rispose che la priorità assoluta era creare posti di lavoro, non importa quali. Ecco, il rischio è che oggi si commetta lo stesso errore. È chiaro che la preoccupazione per lo shock economico, accanto a quello sanitario, è molto elevata ed è giustissima. Ma il rischio vero è di usare le risorse per far ripartire attività economiche a qualunque costo, perdendo di vista la necessità di pensare al futuro e riorientare il sistema economico nella direzione che tutti auspicavano solo poche settimane fa, tra cui quello di una maggiore sostenibilità ambientale e una maggiore equità sociale. I governi, ma anche l’Ue potrebbero istituire, accanto all’unità di crisi, quella che io chiamo “unità di resilienza trasformativa”, cioè un gruppo di soggetti, persone, istituti, esperti che ci facciano capire come “rimbalzare avanti” e non indietro.

L’Ue sembra invece intrappolata in discussioni ‘antiche’: non riesce nemmeno a decidere di condividere i rischi economici di questa crisi.

Distinguiamo tra la Commissione e il Consiglio. Vorrei fare i complimenti alla Commissione europea perché ha reagito con messaggi e proposte forti che solo un anno fa erano inimmaginabili: la proposta di sospendere il Patto di stabilità, il ‘warning’ che Breton ha inviato alla Germania per sbloccare l’export delle mascherine verso l’Italia, proposte innovative sui cosiddetti eurobond. Trovo che sia una Commissione molto più avanti rispetto a quella precedente. Gli ostacoli si trovano nel Consiglio e vedremo domani come reagiranno i capi di Stato e di Governo (alla riunione dei leader in videoconferenza, ndr.). Tutti sono d’accordo sulla necessità di mobilitare risorse. Lo ha fatto la Bce, nonostante lo scivolone comunicativo della Lagarde, lo ha fatto la Commissione europea sui fondi strutturali non utilizzati della programmazione 2014-2020, lo stanno facendo i singoli governi accogliendo la proposta della Commissione di sospendere il Patto di stabilità: questo è un passo avanti. Il punto è che i governi hanno posizioni molto diverse sul piano finanziario. La paura di condividere i rischi con paesi che hanno dimostrato di non saper rispettare gli accordi è una paura profonda in certe opinioni pubbliche. Ed è qui che la leadership politica dovrebbe fare la differenza.

La crisi riguarda tutti, non solo alcuni Stati. Pensa che questo possa sbloccare la discussione? È vero che gli Stati hanno condizioni di partenza differenti: l’Italia, la Spagna, la Francia, il Portogallo non hanno la solidità di bilancio della Germania e dell’Olanda. Però è anche vero che lo stato di salute delle banche tedesche non è dei migliori.

La mia speranza è che una volta identificati i possibili strumenti con cui rispondere, si entri in un’ottica cooperativa. Ricordiamo il dibattito sul sistema di assicurazione europea sulla disoccupazione, la proposta italiana di istituire un meccanismo europeo come hanno fatto gli Usa creando un meccanismo federale dopo la crisi del ’29. Spesso le crisi stimolano le decisioni. Posso anche capire che un paese sia restio a condividere i rischi con uno che voglia usare le risorse aggiuntive solo per la spesa corrente e non per investimenti trasformativi. Siamo indietro su questa discussione proprio perché siamo concentrati nello sforzo di mettere in campo strumenti per ridurre l’ampiezza della caduta della ipotetica ‘v’ e non stiamo discutendo su quali caratteristiche dovrebbe avere il tratto ascendente della ‘v’. Insisto: se siamo convinti che la transizione green sia un’opportunità straordinaria per creare nuovi posti di lavoro, non solo per ripristinare un ambiente degradato, allora forse diventa possibile creare degli eurobond per investire in questa direzione senza che questa venga considerata una misura assistenziale. Vorrei ricordare, a tale proposito, che in Europa, ogni anno, si stimano 500mila morti precoci causate dall’inquinamento e che sembra esistere una correlazione tra danni alla salute da inquinamento e mortalità da coronavirus. Ecco che un eurobond da spendere per trasformare le attività più inquinanti aiuterebbe anche a ridurre i costi sanitari presenti e futuri, liberando risorse per altre finalità e migliorando la sostenibilità delle finanze pubbliche.

Se l’Ue non fa l’Ue, il rischio è che i paesi più deboli possano rivolgersi alla Cina o alla Russia, superpotenze che non vedono l’ora di infilarsi e disgregare l’Europa.

Credo sia cruciale il modo in cui gli Usa usciranno da questa crisi. Da questo dipende un eventuale rafforzamento dell’asse euro-atlantico che la presidenza Trump ha picconato. Anche negli Stati Uniti l’emergenza sta sottoponendo il sistema a forte stress. Se questo determinasse un cambiamento delle politiche, l’Europa sarebbe il naturale soggetto con cui immaginare un nuovo corso. Se prendiamo questa crisi come l’occasione per fare un balzo in avanti, un nuovo asse atlantico può diventare un grande motore di cambiamento.

Ma solo se il coronavirus si abbatterà come un fulmine politico su Trump e dunque sconvolgesse il corso della campagna per le presidenziali portando i Democratici alla vittoria. O no?

Una crisi come questa rende tutti molto più vulnerabili. E questo potrebbe costringere gli Usa a ripensare il sistema sanitario e a ritrovare nell’Europa un sistema non “socialista”, come dice la propaganda repubblicana, bensì un sistema più capace di proteggere la società rispetto a shock ripetuti. Chiaramente ciò potrebbe avvenire solo se l’Ue sarà in grado di reagire essa stessa a questo shock in maniera positiva, con un balzo in avanti e non chiudendosi.

Può farlo anche Trump?

Al di là delle sue posizioni ideologiche, Trump non può che fare gli interessi della sua nazione. Se dunque a livello economico ci si rendesse conto che il sistema attuale è troppo vulnerabile e quindi che bisogna riprendere a cooperare a livello internazionale, credo che avrebbe la duttilità per farlo. Proprio perché, al di là della persona, c’è un establishment. Ma questo richiede che l’Europa diventi un modello nella risposta, il che vuol dire investire in modo significativo anche sull’assetto istituzionale. L’Unione era stata immaginata per gestire crisi classiche del capitalismo, shock anche violenti ma che duravano pochi mesi, dopo di che si ripartiva. Ora, dopo ben quattro gravi crisi dal 2008 in poi – quelle economiche del 2008-2009 e del 2011-2012, quella migratoria e ora quella sanitaria - sappiamo che gli shock possono anche essere molto violenti e ravvicinati, e noi non siamo attrezzati per questo. Dobbiamo metterci nell’ordine di idee che qualcuno deve avere il potere di reagire: in certe condizioni la Commissione dovrebbe avere più potere di azione diretta, sostenuta da una capacità fiscale europea.

Che giudizio dà sull’azione del governo in questa emergenza? Potrà reggerla o serve un governo di unità nazionale per la ricostruzione, come suggerisce l’opposizione?

Torniamo all’Agenda 2030: entro il 2020, secondo gli impegni presi nel 2015, tutte le città dovevano dotarsi di piani per l’adattamento ai cambiamenti climatici e ai disastri. Se l’avessimo fatto, oggi forse discuteremmo di questa crisi con un po’ più d’ordine. Parto da qui per dire che il nostro paese è studiato a livello internazionale per la sua capacità di risposta nella gestione dell’emergenza, non nella sua capacità di prepararsi prima. Solo sei mesi fa, la John Hopkins University, la Gates Foundation e il World Economic Forum avevano fatto una simulazione per una pandemia scatenata da un coronavirus; da anni gli scienziati ci dicono che, con la perdita di biodiversità, i virus si propagano di più. Queste cose erano state dette, ma le abbiamo considerate improbabili. E abbiamo sbagliato. Per parlare di ricostruzione, partirei dai contenuti di questa ricostruzione, come dicevo all’inizio. E però la responsabilità è anche delle imprese, della società civile. Tutti devono programmare il rimbalzo, non solo i governi.

Secondo autorevoli studi scientifici, incide la frammentazione delle foreste per scopi agricoli o edilizi: questo ha avuto un impatto violento sull’ecosistema, ‘liberando’ virus che prima convivevano con gli animali in un ambiente separato dall’uomo.

Sì, è così. Questo vuol dire che pandemie come l’attuale potrebbero riproporsi. Noi non abbiamo un istituto pubblico di studi sul futuro che individui rischi, ma anche anticipi opportunità positive. Ce l’ha Singapore, la Francia, la Gran Bretagna e altri paesi, la cui esperienza dimostra che questi istituti hanno il compito di preparare una società a diversi futuri possibili e provare a realizzare quelli migliori. Nel 2018, come ASviS avevamo proposto un emendamento alla legge di bilancio per istituirlo, ma ci fu detto che non era un’idea interessante. La mia speranza è che l’Italia impari da questa crisi, in modo bipartisan, che costruire istituzioni di ricerca, anche sul futuro, serve a tutti. La discussione parlamentare del decreto ‘Cura Italia’ potrebbe essere l’occasione per affrontare in maniera strutturale questo problema.

* Intervista a cura di Angela Mauro, tratta da https://www.huffingtonpost.it/

 

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