"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Lóvi solàgni Lupi solitari

Renzo Francescotti

Lóvi solàgni Lupi solitari

Curcu & Genovese, 2007

Con questo splendido volume, anche sotto l’aspetto editoriale, che raccoglie la sua produzione in dialetto più consistente, Renzo Francescotti si conferma uno degli autori maggiori della poesia neo dialettale d’Italia.

Dalla raccolta è rimasto fuori un testo significativo come La Guéra dei Carneri (1976, Premio Perale), che avrebbe consentito al lettore di risalire alle prime origini della sua disposizione al bilinguismo poetico (egli scrive da sempre anche in italiano), ma ovviamete l’autore ha preferito presentare solo le opere che possono comporre una sorta di poema unitario.

Il volume contiene, infatti, le opere maggiori: Cantada disperada (1995, Premio “Aque slosse”, con prefazione di Cesare Vivaldi); Celtica (1998, prefazione di Giacinto Spagnoletti); Zità en tra i crozzi (2001, prefazione di Umberto Zanetti); Iris (2004, prefazione di Paolo Ruffilli). Di nuovo si aggiunge L’ultima cantada (2007), con una nota introduttiva dello stesso autore.

Il titolo generale è desunto da una immagine e da una intuizione poetica molto care a Francescotti. Se ne fanno interpreti gli stessi editori che, riprendendo un’affermazione di Tavo Burat (predatore del volume), concludono la noterella sul risvolto di copertina in questi termini: «Il lóf solàgn è il filo conduttore che lega i cinque personaggi di altrettanti capolavori di Francescotti: il pertegànt della Cantada disperada, il Rosso di Celtica, Gal della Zità en tra i crozzi, Iris, la donasól-donasóla che sceglie di tornare lóva solàgna nel deserto maso avito, ed infine Nando, nomen-omen de L’ultima cantada».

Si può comprendere, pertanto, la ragione per cui la raccolta complessiva abbia la strutturazione di un “poema in cinque arcate” o, come dice lo stesso autore, “una cattedrale laica a cinque navate”, e possa assumere anche il valore di «un poema di resistenza, in quanto il dialetto può farsi arma per resistere all’omologazione alienante»; un’arma che riesca a resistere per «saper ascoltare la voce del silenzio, la sapienza e l’ironia scanzonata di un saggio, quasi eremita».

Il “talento libertario”, come ben osserva Tavo Burat, si preserva non solo perché il poeta “rifugge dalle forme chiuse”, ma anche perché è capace di variare i suoi registri accordandoli alle “sei corde” della sua chitarra: lirica, drammatica, ironica, fantastica, filosofica, etica. Sotto questo aspetto, Renzo Francescotti rappresenta una esperienza letteraria unica, senza possibili confronti. Del resto, sono già in tanti a riconoscerlo. Sarà opportuno citare qualche giudizio in proposito: «Lirica fortissima e umanissima, capacità di rendere quasi epico il linguaggio trentino» (Franco de Battaglia); nella poesia di Francescotti «prende corpo una narrazione storica rivissuta come dal basso, in chiave di forte e convincente protesta umana e politica» (Tullio De Mauro); nella sua opera «traspare insieme al suo, il volto di un popolo» (E. Mazzoleni); «il nostro poeta non ripudia la migliore tradizione letteraria della sua terra, ma il salto di qualità è netto e rilevato» (U. Zanetti).

Giudizi che trovano ampia conferma ne L’ultima cantada, ultima perché chiude la ponderosa raccolta dei Lóvi solàgni e perché il protagonista Nando (da Fernando), l’alter-ego dell’autore, interpretando il suo nome come predestinazione augurale, ha il piacere supremo di poter “andare”, di non fermarsi finché lo sorreggono «forza de gambe e polmoni / co la luna enté la chitara / tonda come el pan entel prosac / vardando en l’aqua del lac / el mondo che se dopia entei insogni / nando». Certo, un giorno si fermerà anche lui, quando qualcuno dirà che è andato avanti abbastanza.
Perché Nando, oltre alla sorte di suonare e cantare, ha il piacere di muoversi e di conoscere «dento en temp che come i veci / no ‘l g’ha pu memoria»: in nome della libertà, è disposto a passare come «en braconier en bandito / en ramengo / en pastor senza pu recin / o nom / de meari de ani fa?» Egli non sa se sia per uno scatto di allegria o di tristezza che di colpo si alza il volo dei suoi canti d’usignolo: ma è dovuto indubbiamente al richiamo misterioso di una donna e al suo amore. Una cosa è certa: «E son anca mi che canto / en la to boca de rosa / le parole che sgola / su a le nugole rosa / ‘sti trili de cristalderòca / sentiendo che no potia / cantar sin tu boca».

Gli ultimi due versi sono in spagnolo, di Pablo Neruda, un poeta che Francescotti deve aver molto amato, noi pensiamo, e col quale si sente spesso in sintonia, non solo sul tema dell’amore, ma anche sul tema della libertà, libertà in senso più lato di quello politico, che lo induce – in una Ballada fordement – a chiedersi se egli sia «ancora en paes inocent». Il poeta, infatti, non crede di poter indossare la veste di capo o gregario. Leggiamo Bisness nella traduzione che ne fa lo stesso poeta a pie’ di pagina:

«Né capo né gregario: io / sono sempre stato un libertario. // Gli altri per fare i loro business / imbrogliano rubano sparano. // Io tento di imbrogliare il destino / rubo al tempo / sparo note con la chitarra. // E non me ne importa niente / dei soldi che avvelenano / l’anima il cuore la mente. // Cerco business / con le S.p.a. del vento / fortuna / con l’altra faccia della luna.»

Come si vede chiaramente, qui realismo e surrealismo si fondono insieme, come accade sempre nella grande poesia. Ma le pagine migliori di tutte le “cantade” di Francescotti hanno sempre questo respiro di realtà e utopia. Anche l’ultima pagina del denso volume ne risente manifestamente con quel Nando che ha ancora voglia di suonare per sé, ma purtroppo la sua chitarra è orai logorata ed è stanco del lungo impervio cammino. Affidiamoci, per una più agevole comprensione, alla traduzione degli ultimi versi, fatta dall’autore: “… Troppo lunga la scarpinata / da suonatore-cantore / o troppo corta è stata? / Non lo so. Mi sento stanco / alla fine della giornata. / E’ alto il letto / ereditato dai miei / ma più alta la notte: / finita o infinita? Chissà: / io aspetto il botto che mi getti / verso l’eternità.”

In attesa di quel “botto”, il poeta avrà tutto il tempo per approfondire ancora le sue tematiche esistenziali. Ne abbiamo veramente bisogno; tutti, oggi più che mai.

Vittoriano Esposito

 

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