"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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giovedì, 26 dicembre 2019Al Bistrot Le Angeliche

Diario palermitano... e non solo

Palermo, dicembre 2019. Tre giorni non sono niente per visitare e cercare di capire una città come Palermo. Nella quale peraltro sono stato molte altre volte, ma senza mai con l'intenzione di entrare in questa città, nella sua storia e nella sua comunità. Come se qualcosa me la facesse sentire ostile.

Devo dunque ringraziare gli amici di Tulime1: è grazie a loro se negli ultimi anni mi ci sono avvicinato un po' di più, per quanto di fretta. Forse, anzi certamente, sono cambiati i miei occhi, il mio sguardo si dispone diversamente dal passato. Così in quest'ultima occasione, un po' per le persone che ho incontrato, un po' girovagando nei quartieri del suo centro storico, un po' perché più ci si addentra nel Mediterraneo il fascino di questi luoghi carichi di storia e di umanità ti avvolge, ho trovato Palermo una città particolarmente avvolgente e mi è venuta voglia di ritornarci. Ne parlo in questo piccolo diario palermitano.

Da qualche anno e grazie ad un libro che ha fatto nascere sintonie profonde, con Francesco Picciotto abbiamo avviato un dialogo che è diventato amicizia. E quando, un paio di mesi fa, mi ha chiamato proponendomi di stare per qualche giorno nella sua città per una serie di conferenze e incontri in Università, presentare il libro Sicurezza, riprendere le fila di un itinerario siciliano e mediterraneo del “Viaggio nella solitudine della politica”, mi sono messo a disposizione.

Dall'ultima volta che ero stato a Palermo sono passati un paio d'anni abbondanti. Anche allora su invito degli amici di Tulime che della cooperazione di comunità hanno fatto il loro modo di relazionarsi con il mondo, cercando di “darsi il tempo” per interrogarsi sulla sostenibilità del loro modo di pensare e di agire. Qualche mese prima (era l'ottobre del 2016) sempre su loro invito ero stato ad Alcamo (TP), per partecipare all'assemblea nazionale della loro associazione proponendo loro una riflessione attorno al libro di Luca Rastello “I Buoni”, una vera e propria sferzata verso un mondo – quello della cooperazione e della solidarietà – così incline a separare fini e mezzi, ovviamente in nome del bene.

Nella mia ultima visita avevamo anche avuto un incontro attorno al “Viaggio nella solitudine della politica” che stavamo iniziando, ma in quella circostanza mi scontrai con vecchie ferite e qualche pregiudizio che la politica ha lasciato nel sentire di chi ci ha creduto. E, malgrado un confronto tutt'altro che banale, non se ne fece niente.

Due anni dopo sono ancora qui, in primo luogo per l'invito rivoltomi dal Dipartimento Cultura e Società dell'Università degli Studi di Palermo in un convegno di tre giorni che ha come titolo “Le professioni della cultura” dove sono coinvolto in due sessioni: una tavola rotonda dal titolo “Ricucire gli strappi: la relazione come cura e progetto. Orizzonti per una didattica inclusiva” e, il giorno successivo, per un incontro con gli studenti e le studentesse dei corsi di laurea: “Guardare lontano, guardare attraverso. Il border crossing delle professioni”.

E poi in programma è prevista anche una nuova presentazione di “Sicurezza”, questa volta nel cuore di Palermo (al Capo) presso il Bistrot “le Angeliche”, ristorante di grande bellezza e qualità gestito da un gruppo di donne, prima di una serie di incontri a cadenza mensile a partire dalla domanda “Ho bisogno di …?” che spazieranno fra i grandi temi del nostro presente.

Fra un incontro e l'altro ho l'opportunità di uno sguardo da vicino dei quartieri del centro storico che mantengono ancora vivi i loro caratteri popolari, fra vecchie attività artigianali, negozietti che sembrano usciti da un qualche film neorealista degli anni '50, locali e osterie storiche affollate.

Ma cominciamo con la prima tavola rotonda, dove intervengono oltre a chi scrive anche Rita Affatigato, Serena Marcenò, Maria Chiara Monti e Francesco Picciotto. Ad affollare la sala, i rappresentanti di diverse associazioni di volontariato internazionale e numerosi/e studenti e studentesse universitarie. Il carattere della tavola rotonda è piuttosto informale, la conversazione ruota attorno al concetto di relazione che è il cuore della cooperazione di comunità come lo dovrebbe essere del servizio sociale. Posso immaginare come vi sia una qualche attesa verso il mio intervento, considerato che attorno a questo approccio (la cooperazione come relazione) con Mauro Cereghini abbiamo sviluppato le tesi di “Darsi il tempo”, un libro che continua – nonostante sia uscito undici anni fa – a fare scuola.

Fra me e la cooperazione internazionale negli ultimi anni ho messo una certa distanza. Una distanza cresciuta nel tempo, proprio per i suoi tratti invasivi se non proprio neocoloniali e per l'assenza di un orizzonte alternativo al dilagante modello neoliberista. Non per questo intendo dissuadere i presenti dall'idea di considerare il terreno della cooperazione internazionale come un possibile ambito professionale, anzi. Ma nemmeno essere reticente sulla deriva profonda di una cooperazione che ha smarrito gran parte della sua capacità di andare all'origine delle contraddizioni – che siano esclusione sociale, impoverimento, guerre o semplicemente consapevolezza dell'interdipendenza – che ne motivano l'agire.

Le nostre tesi di allora (2008) sulla crisi della cooperazione internazionale non solo hanno avuto conferma ma la realtà nel frattempo è andata oltre, tanto nella deriva di natura emergenziale quanto nel suo carattere “umanitario”. E se oggi decidessimo di rimettere mano a quel testo lo dovremmo fare in maniera ancor più radicale, nella diagnosi come nella terapia di un corpo (quello della cooperazione internazionale) malato e aggrappato alla logica degli aiuti allo sviluppo.

Non si tratta di dare un giudizio morale sull'efficacia della cooperazione e ancor meno sull'agire delle persone che ne sono coinvolte, ma di andare alla radice del problema, quella che già allora individuammo come questione cruciale, la crisi di sguardo ovvero l'inadeguatezza delle categorie analitiche per descrivere un mondo in profonda e rapida trasformazione e la necessità di fare i conti con i paradigmi del secolo scorso.

Paradossalmente, c'è oggi ancora più bisogno di prima di costruire relazioni globali che ci permettano di “stare al mondo”. E di dotarci nel tessuto sociale ed istituzionale di operatori di comunità in grado di intessere relazioni che, nella reciprocità, sono la condizione ineludibile per essere all'altezza delle sfide della postmodernità. Concetto che riprenderò il giorno successivo a proposito del border crossing, quel confine poroso nel quale svanisce il di qua e il là.

Chissà che prima o poi non valga la pena riprendere in mano questo filone di ricerca che, a ben guardare, in realtà non abbiamo mai smesso di osservare (anche se certamente di praticare).

Apro qui una parentesi. In queste settimane si dibatte molto in Trentino sulla scelta da parte del governo a guida leghista della Provincia Autonoma di Trento di tagliare i fondi della cooperazione internazionale. Con quel che significa anche per il Centro per la Cooperazione Internazionale dove sono incardinati come proprie unità operative le Competenze per la società globale (la formazione) e l'Osservatorio Balcani Caucaso – Transeuropa, minandone il futuro. Una scelta miope e sbagliata, ma certamente coerente con il voto dell'autunno 2018 e con l'idea maggioritaria che – con la logica del chi vince piglia tutto – comporta l'attuale scasso istituzionale. Quante volte avevo detto alle precedenti maggioranze di mettere al sicuro, almeno per quanto possibile, le nostre eccellenze sul piano della ricerca e della formazione... realtà che si reggono sul lavoro delle persone coinvolte, capaci di attrarre risorse dalle istituzioni mondiali ed europee e che ora vengono messe in ginocchio.

Per onestà intellettuale non posso non riconoscere che se questo non è stato fatto è grazie a chi, a prescindere dalla propria collocazione politica, queste eccellenze non le ha nemmeno sapute riconoscere, tanto erano chiusi nella propria insipienza e nelle logiche padronali di gestione di quel che andavano finanziando. Che andrebbero considerate patrimonio di un territorio, non di qualcuno in particolare.

Analogamente faccio fatica a riconoscere il mondo del volontariato internazionale del quale queste eccellenze sono state espressione (così nacquero nel 1993 l'UNIP2 e nel 1999 Osservatorio Balcani3), un mondo che negli ultimi anni sembra aver progressivamente smarrito la propria autonomia politica e progettuale (oltre alla consapevolezza del proprio percorso), in un'involuzione dove è di nuovo la logica degli aiuti (o semplicemente della carità) a costituire l'orizzonte del cooperare, come se il nostro modello di sviluppo e di consumo non avessero nulla a che fare con le ragioni dell'esclusione. Mi chiedo quanto siamo stati capaci di imprimere – con le nostre riflessioni, con vent'anni di attività di formazione, con le stesse esperienze di cooperazione di comunità che cercavano di coinvolgere le articolazioni comunitarie più diffuse – un esito diverso. So bene come abbia dovuto difendere l'attività del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani o di OBC dalla mediocrità (e dal provincialismo) di gran parte della mia stessa maggioranza. E tutto questo non è certo motivo di conforto.

Questo senza togliere nulla alla gravità dei tagli della nuova amministrazione provinciale. Ma guardarsi dentro, interrogarsi, riflettere sul senso di quel che si sta facendo è cosa che non dovrebbe mai venire meno nelle nostre associazioni come in ciascuno di noi. Chiusa la parentesi.

Eppure sono qui, a Palermo, dall'altra parte di questo paese, a parlare di cooperazione di comunità. Trovando quell'attenzione che altrove, nel cinismo dei “progettifici”, s'è andata smarrendo. Tanto che, nel dibattito che dà seguito alle riflessioni dei partecipanti alla tavola rotonda, un giovane africano arrivato in Sicilia con i barconi (e che ora si sta laureando proprio su questi temi) interviene per dire che si è riconosciuto completamente nelle mie parole. Così che alla fine dei lavori riprenderemo la nostra conversazione, scambiandoci indirizzi ed anche una dedica su una copia di “Darsi il tempo” con la promessa di scriverci nel merito. Ma scorgo anche qui, negli interventi dei rappresentanti di molte delle associazioni presenti, la stessa incapacità di riflessione che ho trovato altrove. Tutto ruota attorno alle emozioni, agli interventi di emergenza, ai progetti … come se si trattasse di un gioco, per qualcuno a cui si sarebbe giocato poco, per altri infinito. Così, nell'incapacità di avere uno sguardo lucido e onesto prima di tutto con se stessi, nella fatica di mettersi in discussione, la crisi non sa trovare risposte.

Il mattino seguente è l'occasione per parlare in maniera più approfondita di questa incapacità di osservazione che investe sia il mondo della cooperazione internazionale che dell'azione sociale. Con la fine di una storia che potremmo datare 1789 – 1989 si è conclusa anche una narrazione fatta di paesi poveri e ricchi, di sviluppo e di sottosviluppo (e delle coordinate geografiche che la rappresentavano), di paesi in via di sviluppo e di aiuto allo sviluppo, di donatori e beneficiari, di sovranità e di autodeterminazione, di progresso e conservazione. Un altro mondo e ci siamo smarriti.

Capisco bene come le parole e lo sguardo che propongo possano essere un frullatore del mondo precedente che destabilizzano chiavi di lettura non solo consolidate ma tutto sommato anche comode, tanto per chi sta da questa parte e intende far parte del mondo dei buoni, quanto per chi sta dall'altra e che dai rituali della cooperazione (e dei servizi) trae la propria condizione di (per quanto relativo) privilegio.

So che le mie argomentazioni vanno oltre i confini degli ambiti formativi che qui, nell'aula magna del Dipartimento Culture e Società di Palermo, prendiamo in esame. Lo “stare al mondo” di cui parlo prova un diverso racconto di un tempo nuovo nel quale compaiono “nuove geografie”, dove i nazionalismi sono funzionali all'offshore, dove i confini coltivano il mito mentre gli affari corrono lungo i corridoi della Gazprom, dove all'abbandono della campagna e delle montagne corrisponde il prendere corpo di enormi megalopoli nel quale il confine fra legalità e illegalità diviene oltremodo indecifrabile, dove i cambiamenti climatici producono enormi esodi di popolazioni ma all'insegna del prima noi, ovvero i nuovi pogrom del XXI secolo.

Così, nell'interdipendenza, la costruzione di relazioni è la modalità di abitare il presente. Nella cooperazione internazionale come nell'azione sociale. Non cooperanti, ma animatori di comunità connesse e interdipendenti. Non so se gli studenti che affollano l'aula magna si aspettassero un approccio del genere e se sono riuscito nell'intento di perturbare i luoghi comuni e gli stanchi rituali del mondo dei buoni. Che, nella loro autoreferenzialità, sanno essere di una banalità sconcertante. Quando non cinici e cattivi.

Parlo ad un pubblico di studenti che immagino motivati ed anche ai loro docenti, immaginando che se mi hanno fatto venire fin qui significherà pur qualcosa. Confido nel fatto che questo diverso approccio possa trovare continuità di ricerca e didattica. Di questo ho rassicurazione da parte della nostra moderatrice, la professoressa Serena Mercenò, che sento (grazie alla sua introduzione ma prima ancora alla lettura del suo “Critica alla cooperazione neoliberale”, Mimesis edizioni, 2018) sulle mie corde. Le sensazioni sono positive.

Cambiamo scenario. Siamo a pranzo al Bistrot Le Angeliche, al Mercato del Capo. Un posto bellissimo, gestito con cura da un gruppo di donne, che vi consiglio caldamente quando sarete a Palermo. Con Serena Mercenò, Patrizia Spallino e Francesco Picciotto parliamo dell'itinerario siciliano/tunisino del Viaggio nella solitudine della politica. E, dall'entusiasmo che riscontro, mi sa che questa volta ci siamo. Per il momento posso solo dire che il cuore di questo itinerario dovrebbero essere gli intrecci e i capovolgimenti, l'influenza della cultura araba e i sincretismi che la storia ha prodotto nel Mediterraneo, i flussi degli uomini e delle cose attraverso le sponde di questa grande isola di mezzo e la Tunisia, paese che oggi forse anche per questo si conferma come uno straordinario laboratorio culturale e politico. Avremo modo di parlarne.

E proprio le Angeliche, qualche ora più tardi, saranno la cornice della presentazione del libro “Sicurezza”, un lavoro che continua a rappresentare il pretesto per un confronto politico che la politica non sa realizzare. Tiro fuori le ultime energie (devo riconoscere che dopo due giorni di incontri e seminari mi sento un po' prosciugato) ed anche in questa occasione il libro scritto a quattro mani sempre con Mauro Cereghini (sodalizio che ho tradito nell'ultimo libro che sta per uscire attorno alla tempesta Vaia e agli effetti dell'agire umano sul Pianeta Terra) si rivela l'occasione per uno sguardo lungo sul nostro presente.

E poi finisce qui, perché i dolci delle Angeliche meritano uno spazio a parte. Oddio, anche gli arancini che la tradizione propone nel giorno di Santa Lucia. Spettacolari. Un profumo che avverto anche il mattino seguente per le strade attorno alla piazza della Borsa, nell'antica focacceria San Francesco o alla pasticceria Palazzolo di Cinisi dove con Francesco ci fermiamo prima di prendere l'aereo per tornarmene verso casa. Questione di sincretismi.

 

1 Tuline è una è un'associazione che promuove progetti di solidarietà e cooperazione di comunità in diverse parti del mondo... Ad oggi le aree di intervento coinvolgono le popolazioni di Tanzania, Uganda e Nepal.Attraverso la pratica della cooperazione di comunità, che mette al centro dell’azione la collettività anziché il singolo individuo, l’associazione offre supporto all’agricoltura e all’allevamento sostenibile. Sostiene, inoltre, progetti di microcredito, per la tutela dell’ambiente, di mercato equo-solidale per favorire lo sviluppo dell’artigianato locale e interviene in difesa dei diritti umani. Tulime Onlus negli anni ha sviluppato anche programmi permanenti a favore dell’infanzia, degli individui con disabilità e rivolti in generale alle fasce più vulnerabili della società.

2 Si tratta dell'Università internazionale delle istituzioni e dei popoli per la pace. Nata nel 1993 a Rovereto presso la Fondazione Opera Campana dei Caduti dopo quindici anni è diventata Centro di formazione alla solidarietà internazionale con sede a Trento e in seguito Centro per la Cooperazione Internazionale.

3 Oggi Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa, il più importante portale di inchiesta e ricerca su questa parte di Europa

venerdì, 13 dicembre 20191998. La festa per il ventennale di Solidariet. In primo piano Mario Caparelli

Caro Mario,

provo a scrivere le parole che avrei voluto rivolgerti nel momento del nostro ultimo saluto ma che, per emozione, ritrosia o timidezza, non mi sono venute.

Il mio primo pensiero, al di là dei tanti episodi di vita che abbiamo saputo intrecciare e che pure sarebbe bello rammentare, non può che andare all'impegno politico che, di questi tempi, facciamo un po' fatica a ricordare ed elaborare. Che invece è giusto rivendicare perché in ciascuno di noi non ci sono compartimenti stagni e perché la politica per noi occupava (e ha continuato ad occupare) uno spazio grande, di cuore e di pensiero, che ci ha fatti incontrare lungo un percorso impervio e appassionante.

Non una moda, non un fuoco giovanile, non l'idea oggi così suadente e finta di chi “si presta” alla politica, ma la politica come modo di guardare e vivere il proprio tempo, coltivandola con la passione delle idee e con l'ironia di saperci perdenti ancor prima di cominciare, perché eretici e perché il nostro modo di interpretare l'impegno politico non amava le sirene accattivanti del potere che pure non hanno mai smesso di metterci alla prova.

Non per coerenza verso una dottrina che poi, associata a Mario, non potrebbe che far sorridere, ma per la bellezza di stare al mondo senza mai far finta di niente di fronte alle peggiori come alle piccole porcherie. Parte di un collettivo che nell'agire locale si sentiva connesso con la dimensione globale. Così, nei momenti più delicati come nei passaggi più difficili, Mario c'era.

Mi si affaccia un ricordo lontano. Quando decidemmo che le nostre idee andavano rappresentate nelle istituzioni dell'autonomia, in quello splendido autunno del 1978 che ci avrebbe visti andare, casa per casa, portando l'appello di Bepi Mattei per il voto a Democrazia Proletaria, Mario si presentò nella sede di via Gentilotti (nei pressi del ponte dei Cavalleggeri) a Trento portandosi un amico, un distinto signore. «Ecco qui il compagno Valeron – ci disse Mario – il nostro candidato per la Valle di Fassa».

Amavamo le missioni impossibili. Un po' rivoluzionari terzomondisti, un po' operaisti, un po' francescani: in quella vecchia casa dei ferrovieri, diventata inabitabile dopo averci costruito a ridosso un grande condominio sorto dove un tempo c'era la casa Volpi (che conoscevo molto bene per essere uno dei luoghi delle scorribande di quando eravamo ragazzini), si comprendeva al solo entrarci di quale genere di persone eravamo. I vecchi mobili recuperati da Michele il ferroviere, una stufetta a legna per scaldare d'inverno almeno una stanza, un salone ricavato dall'abbattimento di una parete che l'aveva resa ancor più traballante, un locale per la carta e il ciclostile (e un ciclostile ereditato dalle sedi precedenti con qualche milione di volantini stampati all'attivo) e poi l'immancabile Granma, l'edizione francese dell'organo del Partito Comunista Cubano che ci arrivava pressoché quotidianamente in abbonamento postale. Mi sembra ancora oggi di sentire l'odore della carta ruvida con cui veniva stampato.

Era la fine degli anni '70, stavamo entrando in quel decennio dove scomparvero prima i Consigli di Fabbrica e poi anche tante fabbriche, alla radicalità politica si contrapposero lo stragismo e gli anni di piombo, al protagonismo sociale subentrò il mantra del successo e dell'arricchirsi.

Malgrado lo spirito del tempo, in quel luogo diventato per caso una sede di partito, si respirava miseria. Eppure quel signore distinto non fece una piega e firmò l'accettazione di candidatura. Così completammo la lista dei candidati, anche noi con il nostro rappresentante ladino. Diventammo amici e quell'anno con Gabriella andammo a passare il nostro primo Capodanno da loro, a Canazei. La sua casa era un po' come la nostra sede. Un po' matti effettivamente eravamo e dormimmo in una stanzetta gelida tanto che, per difenderci dal freddo, il padrone di casa ci diede una bottiglia di whisky. Anche lui non scherzava... Qualche mese dopo Valeron partecipò con grande naturalezza ad un'assemblea nazionale dei delegati nei pressi di Rimini nella quale come al solito ci azzuffammo fra una tesi e l'altra. Eravamo preoccupati dell'idea che di noi si sarebbe fatta, ma anche in questo caso rimase imperturbabile.

Poi ci perdemmo di vista. Ogni tanto chiedevo a Mario se avesse sue notizie ma niente o quasi. Quando al cimitero di Trento ci siamo salutati, mi guardavo attorno se per caso non spuntassero i baffi ben curati di Valeron. Chissà che fine avrà fatto Paolo Soraperra, così si chiamava[1].

Dopo qualche anno andai a lavorare a Roma, la città di Mario, ero diventato il suo messaggero verso i suoi anziani (o almeno così mi sembravano allora) genitori che non erano certo abituati ad entrare in un luogo di sovversivi quale poteva sembrare ai loro occhi la direzione nazionale di Democrazia Proletaria. Ma la mamma di Mario mi prese in simpatia.

Anche quando decidemmo di separare i nostri destini dal partito a livello nazionale dando vita (in quei giorni fatidici del novembre '89) a Solidarietà, Mario “il romano” fu parte della nostra scommessa federalista.

Ci pensò poi la vita e le sue vicissitudini a portarlo su traiettorie imprevedibili e dolorose. Quando il figlio Andrea decise di non essere più di questo mondo tutto sembrò crollare. Difficile risalire da quel vuoto profondo che ti rimane dentro come fallimento. Poi il bisogno di vivere riprende forma, ti sprona ad uscire dal guscio. Così Mario riapparve fra noi, provato certamente ma non per questo meno disposto a ritrovare un senso alla propria traiettoria esistenziale. Seppure con quel velo di tristezza che si confondeva con l'ironia di sempre.

Mario – talvolta malgrado le apparenze – era persona impegnata. Era in primo luogo “il Professore”, cui si affiancavano gli altri tasselli di impegno civico e sociale: l'ambientalista di Legambiente, il rianimatore dell'associazione Dante Alighieri di Trento, l'attivista del circolo culturale Rosmini, l'amministratore della Fondazione Crosina Sartori, il tifoso della Roma, l'amante del cinema e della montagna. E poi ancora la militanza politica. Bastava chiamarlo, il Kappa c'era sempre. Persino quando imboccammo – senza nemmeno sceglierla – la strada del liberi tutti (e tutte), che poi per diversi di noi si tradusse nell'adesione al costituendo PD, Mario sapeva vivere questi passaggi in maniera disinvolta, ben sapendo che prima delle adesioni formali c'era un sentire ed appartenere comune che nessuna logica di partito avrebbe potuto cancellare.

Mi chiese ad un certo punto di dargli una mano nell'attività della “Dante Alighieri”, storica associazione che sentiva il peso del tempo. Gli proposi alcuni incontri, presentazioni di libri e viaggi. E quel luogo si rianimò. Un lavoro che avrebbe richiesto quell'impegno sistematico che Mario non aveva nelle sue corde e forse anche nelle sue energie.

Un giorno, non molto tempo fa, venne a casa. Mi disse che gli sarebbe piaciuto avere una piccola baita in montagna e conoscendo le nostre frequentazioni della Valle del Fersina, mi chiese se sapessi di qualche opportunità. E fu così che da un amico che all'amore per la valle incantata stava rinunciando, nella piccola frazione di Houver a Fierozzo Mario acquistò la porzione abitabile di un vecchio maso.

Di quella piccola e vecchia casa in un insediamento storico nella valle incantata Mario era proprio orgoglioso, anche se il fiato per le passeggiate che aveva immaginato cominciava a mancare, Ma nelle sue intenzioni quel luogo era soprattutto una possibilità di incontro con le sue persone care. E così quando ci si vedeva o quando veniva a casa a portarci le tessere di Legambiente, Mario me ne parlava con entusiasmo.

Eppure, nonostante l'amore per la montagna, Mario era un pesce di città dove sguazzava come nel suo elemento naturale fra un cinema, un dibattito o una partita della Roma. Oppure in giro per il Trentino e per l'Italia con il tuo camper che caro Mario, accompagnandoti per l'ultima parte del tuo cammino, era diventato vecchio come te.

Ci rivedremo da qualche parte, certamente nella Valle del Fersina, ogni volta che girovagando per i miei boschi, volgerò lo sguardo verso Houver.

Un forte abbraccio.

Michele

 

* Mario Caparelli è nato a Como il 5 ottobre 1941. Laureato in Fisica e Meteorologia, ha insegnato per molti anni all'IPC di Trento. Se ne è andato improvvisamente il 30 novembre 2019.

 

[1]Dopo aver scritto questo pezzo mi sono messo a cercare Paolo Soraperra, per dirgli della morte di Mario e per il piacere di risentirlo dopo tanti anni. L'ho trovato in Toscana, dove vive con Laura. L'emozione di scambiare delle parole al telefono con lui è stata davvero forte. E prima o poi andrò a trovarlo. Intanto voglio pensare che Mario mi abbia portato sulle sue tracce.