"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

15/03/2018 -
Il diario di Michele Nardelli
Un momento dell'incontro alla Galleria San Fedele di Milano

Dal libro dell'esodo. Per interrogarci e turbare la pace.

Un salto a Milano per presentare un libro, un treno regionale e uno veloce, il tempo di arrivare in Galleria San Fedele in pieno centro, nel cuore della Milano della Compagnia di Gesù. Siamo nell'unico collegio elettorale della città (e forse della Padania) dove il centrosinistra prevale sulla Lega. La povera gente abita altrove, lontano da questi palazzi. Il capovolgimento qui è più che evidente e paradigmatico di come è cambiato questo paese.

Anche gli immigrati che s'incontrano in queste strade (in larga misura orientali) sembrano benestanti. Il paradosso allora è forse quello di essere proprio qui a parlare delle rotte dei migranti. Oppure noi stessi di questo capovolgimento siamo parte. E penso che anche su questo dovremmo riflettere.

Le persone che partecipano (donne in larghissima parte) hanno sguardi aperti, andare alla presentazione di un libro come quello nel quale Luigi e Roberta parlano di Idomeni, al confine fra la Grecia e la Macedonia dove nel 2015 si è infranta la cosiddetta “Rotta balcanica”, è già in qualche modo una scelta di campo... Eppure vorrei scuoterle queste persone, provocarle. Perché non sono venuto sin qui per assecondare la banalità del bene, ma per farle ragionare su questo tempo, per comprendere quanto sta accadendo.

Perché se in discussione è il diritto alla vita e ovunque si afferma il “prima noi” non è che ce la possiamo cavare con la coscienza tranquilla, magari andando ad una conferenza per convincersi che si è nel giusto nello stare dalla parte dell'accoglienza.

Il volume che presentiamo “Dal libro dell'esodo” non è una novità editoriale e da quel 2015 nel quale Roberta ci parlava del “teatro del reale” ne è passata di acqua sotto i ponti. Eppure siamo qui, a presentare un libro di immagini e di parole rimaste intatte, ancora tutte largamente da raccogliere.

Il libro diventa un pretesto per cercare di capire che non abbiamo a che fare con nessuna emergenza, che l'emigrazione esiste a prescindere dalle rotte, aperte o chiuse che siano. Che siamo in presenza di avvenimenti strutturali che ci parlano di questo tempo. E che quando li affrontiamo come emergenze abbiamo già scelto un approccio sbagliato. Legittimando in questo modo chi misura l'efficacia dell'azione politica nel tenerci alla larga dal cuore del problema, lasciando che sia la criminalità o la polizia a vedersela con l'umanità che noi abbiamo scelto di non vedere.

Non voglio sentir parlare di emergenza. Questo non significa ignorare le macerie e le persone grandi o piccine che ci rimangono. Semmai dovremmo cercare di “vivere umanamente fra le rovine della storia”. Oggi a Damasco, ieri a Sarajevo. Può esserci bisogno di tutto, certo, ma in primo luogo di capire. E chi ha bisogno di tutto, se non è un mascalzone, ti chiede in primo luogo di capire. Perché in caso contrario sei uno dei tanti coglioni dell'ipocrisia e del circo umanitario.

E capire significa mettere insieme le cose, osservare nel profondo della storia e dei luoghi, porsi le domande giuste, cogliere i nessi. Per quanto possibile, anche in questa occasione, ci proviamo.

Alla fine della presentazione mi avvicina una signora per complimentarsi. Ovviamente non può che far piacere se qualcuno ti dice “semplicemente intelligente, non capita frequentemente”. E che almeno le persone che sono venute alla Galleria San Fedele possano averne ricavato uno stimolo in più per cercare di “essere presenti al proprio tempo”. Temo l'autocompiacimento delle nostre piccole enclave, quando la frattura con il reale fa sì che nelle periferie la gente si viva sempre più in sottrazione e nel rancore. Perché le rovine della storia, a saper vedere, sono anche a Sesto San Giovanni. “Perturbare la pace”, scriveva James Hillman.

Rino mi guarda soddisfatto del nostro incontro e un po' sornione. Ci siamo conosciuti a Roma più di trent'anni fa quando lui, attento e rigoroso commercialista, scendeva da Milano per prendersi cura dell'amministrazione nazionale di DP. E in tutto questo tempo, durante il quale non ci siamo mai persi di vista, ha cercato di seguire le mie rotte di navigazione politica, sempre riconoscendone il carattere esigente e l'originalità, anche quando aveva (e continua ad avere) l'impressione che vivessi sulla luna.

Far politica non significa assecondare gli umori o dire alla gente quel che vuol sentirsi dire. Allo stesso modo, non intendo dispensare speranza a buon mercato. Il quadro attorno a noi è fosco, come se il presente non avesse imparato nulla dalla storia. Non va tutto bene, “siamo in guerra” continua a dirci inascoltato Papa Francesco. E qui nel cuore finanziario di Milano la guerra che abbiamo dichiarato verso il prossimo nel considerare non negoziabili i nostri stili di vita è ancora più stridente, ostentata e volgare.

Il tempo di bere un'anonima falanghina che fa il paio con l'omologazione di questi locali fra loro tutti uguali, e già devo correre per non perdere il treno verso casa. Ma la serata milanese mi riserva ancora una piccola sorpresa, quando il tassista che mi porta in stazione si palesa rapidamente come una specie che andrebbe protetta in questo mare di umori rancorosi. “Tassista democratico” si presenta, si rivelerà in pochi minuti persona sensibile e curiosa tanto da chiedermi un indirizzo per proseguire questo nostro brevissimo colloquio.

Segni di resistenza civile. Come quelli di cui mi parla Marco che incontro in stazione a Verona, mentre aspettiamo un altro treno che ci porti verso le nostre montagne. Lavora come formatore nel Centro per la Cooperazione Internazionale (già “Centro per la formazione alla solidarietà internazionale” e prima ancora “Università internazionale delle istituzioni dei popoli per la pace”), nomi che pure a saperli leggere ti raccontano degli orizzonti di una politica che ne ha sempre meno.

Mi parla di quel che di interessante sta facendo, come a voler più o meno consapevolmente attenuare il mio giudizio su un mondo che oggi fatico a riconoscere. Aveva vent'anni o giù di lì quando lo incaricammo di fare il delegato dell'ADL a Prijedor, un ruolo delicato e forse in quel momento più grande di lui ma che gli è servito molto nel suo percorso formativo e professionale. E, provo a dire, anche umano.

Forse i nostri occhi sono diversi, come del resto le nostre anagrafi. Parlando qualche giorno fa con Jenni che del “Centro” è la direttrice ragionavamo sullo stato di salute della cooperazione e del volontariato. E di come a mio avviso la crisi di sguardo che devasta la politica investa anche questi mondi, intenti a sopravvivere più che ad interrogarsi sul senso di quel che stanno facendo. Di come tutto questo non sia estraneo alla crisi delle classi dirigenti e, più in generale, all'involuzione che va minando la nostra comunità. Smarrita, perché ha smesso di interrogarsi.

Buona notte...

 

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