Ryszard Kapuscinski
Shah - In - Shah
Feltrinelli, 2001
«Iran, 1980: lo scià Reza Pahlavi è fuggito, Khomeini ha preso il potere. Chiuso nella stanza di un albergo ormai deserto di Teheran, Ryszard Kapuscinski cerca di ricavare un senso dalla massa di appunti, fotografie e registrazioni che ha accumulato durante il suo lungo soggiorno in Iran. In un libro appassionante, in cui la cronaca diviene storia senza perdere nulla della sua umana immediatezza, Kapuscinski ricostruisce il lento ma inesorabile procedere degli avvenimenti che hanno portato alla rivoluzione khomeinista...».
Un libro da leggere nel susseguirsi di rivoluzioni democratiche finite nel sangue, strategie di destabilizzazione da parte di chi in Occidente non si è ancora rassegnato alla fine del colonialismo e di torbide proteste tipiche di questa oscura postmodernità, che attraversano questo straordinario paese.
sabato, 4 giugno 2016 ore 10:30
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Presentazione del libro "Europa anno zero" di Eva Giovannini (2015, Marsilio)
Ne parliamo con l'autrice alle ore 10.30 di sabato 4 giugno. Iniziativa realizzata da territoriali#europei in collaborazione con Associazione Punto Europa
Dove sta andando l'Europa?... Per capirlo è necessario capire quali sono le forze politiche che sfruttano (e amplificano) la crisi delle istituzioni e della tenuta sociale e politica dell'ipotesi europea.
In questi anni dieci del terzo millennio stiamo assistendo a un sostanziale ritorno dei nazionalismi in Europa. Movimenti di una destra radicalmente identitaria, populista e con tendenze xenofobe sono entrati nel Parlamento europeo e nel 2015 i risultati elettorali in ben otto paesi dell’Unione hanno decretato l’avanzata incessante delle destre. Sono destre anomale, nuove, destre che non vogliono essere definite tali. Per lo più «sovraniste», non fasciste, per quanto in alcuni casi presentino frange estreme e pericolose.
Trento, Café de la Paix, Passaggio Teatro Osele
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Nessun uomo è un'isola,
completo in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una zolla
venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.
John Donne
poeta e religioso inglese vissuto fra la fine del 1500 e l'inizio del 1600

Genocidio, persecuzione, sterminio: Radovan Karadžić è stato riconosciuto colpevole e condannato a 40 anni. La sentenza, però, delude parte delle vittime e, forse, arriva davvero troppo tardi per favorire la riconciliazione
di Andrea Oskari Rossini*
Alla fine, il verdetto ha deluso sia le vittime che la difesa. Vasvija Kadić, dell'associazione Madri di Srebrenica, ha definito “vergognosa” e “offensiva” la condanna di Radovan Karadžić a 40 anni, e non all'ergastolo. Il presidente dell'associazione dei veterani della Republika Srpska, Milomir Savičić, ha invece definito “ingiusto” il verdetto, mentre gli avvocati della difesa annunciavano il ricorso. Sono passati troppi anni, venti, dalla fine della guerra, e in questi anni le diverse narrazioni sugli anni '90 non hanno fatto che allontanarsi, in un paese in cui tutto, a partire dal sistema dell'educazione, è diviso. Era dunque prevedibile che ognuno si sarebbe sentito rafforzato nelle proprie opinioni dalle parole del giudice O-Gon Kwon, qualunque esse fossero state.

Il referendum per fermare le trivellazioni alla scadenza delle concessioni non ha raggiunto il quorum necessario del 50% più uno degli aventi diritto, fermandosi a quota 31,2%. E' prevalso l'appello all'astensionismo, nobilitando la diserzione dalle urne e la crescente disaffezione verso la partecipazione. Che il governo Renzi si faccia forte di questo risultato, manifestando disprezzo verso milioni di persone che hanno espresso con il voto la loro opinione e il loro senso civico non fa che approfondire la distanza (certamente la mia) da questa politica.
Per un quadro dettagliato sull'esito del referendum www.repubblica.it/static/speciale/2016/referendum/trivellazioni

Il 18 marzo 1996 finiva l’attacco alla capitale bosniaca che durava da oltre mille giorni Ecco cosa resta del conflitto che ha cambiato il volto dell’Europa (da www.dirittiglobali.it)
di Paolo Rumiz
(18 marzo 2016) Quattro Bmw nere ultimo modello con vetri affumicati arrivano sgommando davanti a un ristorante sulla strada fra Tuzla e Sarajevo. Ne escono dieci uomini con giubbotto antiprotettile e pistole nelle fondine, seguiti da civili e qualche valigetta 24ore. L’ultimo ad aprire la portiera è un uomo in giacca e cravatta, faccia rubiconda. Entra senza salutare con la scorta, nella locanda si fa silenzio. Consuma agnello arrosto, patate. Beve un bicchiere di yogurt misto ad acqua, poi butta sul tavolo una manciata di euro spiegazzati e se ne va, seguito dai guardiaspalle. Non è un boss. È un ministro. E la gente dice che è cosa normale. La Bosnia è in mano alla mafia, mentre il popolo è alla fame.

La solitudine in cui viene abbandonata la Grecia è solo il più recente segnale dello smarrimento dell'Europa nella gestione della crisi dei rifugiati (da www.balcanicaucaso.org)
(4 marzo 2016) Le nuove procedure introdotte lungo la rotta balcanica stanno comportando nei fatti la progressiva chiusura della rotta stessa. È quanto si evince dagli eventi degli ultimi giorni al confine di Idomeni, e dalle segnalazioni dei volontari lungo tutte le tappe del percorso che, fino a pochi giorni fa, permetteva ai profughi di raggiungere la Germania dalla Grecia.
Le limitazioni degli accessi sulla rotta balcanica stanno avvenendo in violazione di ogni normativa internazionale sul diritto d'asilo, come già denunciato dall'Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le persone sono selezionate in base alla nazionalità e ad altri criteri stabiliti unilateralmente da alcuni governi della regione, e non sulla base dell'analisi dei singoli casi.
venerdì, 26 febbraio 2016 ore 18:00
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Alle radici della paura 1
L'associazione territoriali#europei, nell'ambito del percorso annuale "Fra il non più e il non ancora", ti invita all'incontro dal titolo "Scontro di civiltà? Alla ricerca di un'altra storia"
Venerdì 26 febbraio 2016, ore 18.00 – Sala Volksbank, piazza Lodron - Trento
Ne discutono, prendendo spunto da libri e storie che raccontano “incontri di civiltà”, Michele Nardelli e Adel Jabbar. Il dialogo sarà accompagnato da alcune letture di Antonio Colangelo.
La paura invade l'Europa. S'impadronisce dell'immaginario, condiziona i comportamenti, devasta la coesione sociale, pervade l'agire politico. Riappaiono le frontiere, i muri e il filo spinato. Il mare diviene una fossa comune. Chiedersi perché la paura dilaghi è d'obbligo.
Trento, Spazio archeologco Volksbank, Piazza Lodron
sabato, 20 febbraio 2016 ore 11:00

Quello che segue è un appello firmato da numerosi esponenti del mondo politico, sociale e culturale per dire no al ripristino di barriere contro le persone al confine del Brennero. L'appuntamento è sabato prossimo 20 febbraio 2016, alle ore 11.00 per una catena umana sulla linea del vecchio confine.
Riteniamo che l’annunciata intenzione delle autorità austriache di costruire al Brennero una barriera per separare e registrare i migranti, sia incompatibile non solo con l’idea di un’Europa aperta, ma sia anche inconciliabile con il profondo significato anti-nazionalista che è racchiuso nella nostra autonomia speciale. Come ha scritto qualche tempo fa Étienne Balibar: i confini sono sempre meno geografici e sempre più sembrano ritagliarsi la funzione di “frontiere per l’interiorità”, diventando non solo la linea che divide due Stati, ma il luogo nel quali sono in gioco “le concezioni del mondo” e quindi – anche – “le concezioni dell’uomo”. E se in questo modo i confini diventano il punto “in cui bisogna scegliere” – quali i migranti e chi è di casa, quali i cittadini e chi non ha cittadinanza, dove quelli che i diritti li hanno e dove gli altri che invece, solo, li richiedono – il prossimo sabato 20 febbraio alle ore 11 saremo al passo del Brennero per darci la mano, disposti al di qua e al di là di un confine che non vogliamo diventi una linea d’esclusione.
Per aderire scrivere a Giovanni Agostini giovanni.agostini@consiglio.provincia.tn.it
Passo del Brennero
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(27 febbraio 2016) In molti hanno detto la loro sabato scorso al Brennero. Silvano Bert – con la consueta pacatezza – ha saputo centrare meglio di tutti la questione. “Non credo che i confini si possano abolire, perchè confine può voler dire anche avere un territorio in comune. Io sono qui per favorire il dialogo.” Le sue parole sono un monito, un avvertimento per un dibattito che, nato dentro i codici emergenziali imposti del contesto politico e sociale di questo tempo, si pretende (a torto) di poter risolvere con interventi anch’essi di natura emergenziale. Alzare solidi muri da un lato, rivendicare l’abbattimento di ogni limite dall’altro. Due letture eccessivamente semplificate, che non ci aiutano nella comprensione di una fase storica di rara complessità come quella che stiamo affrontando.
La corsa degli Stati europei a costruire barriere “anti-profughi” sulle proprie linee di confine, il costante richiamo a sovranità da riaffermare (nel caso Brexit, un pericoloso precedente), l’assenza di visione comune su qualsiasi tema sono sintomi di un malessere che non ha più le caratteristiche della difficoltà passeggera ma della crisi strutturale, di progetto e di valori. L’Europa diventa quindi automaticamente soggetto terzo da sé con il quale trattare per la difesa dei propri interessi o – nel peggiore dei casi – contro il quale scagliarsi per denunciarne l’inefficienza o l’inutilità, diagnosticandone la fine. “Gli anni spensierati sono alle spalle” afferma in una bella lettera Andrea Seibel, descivendo l’attuale stato dell’Unione.

di Gabriele Di Luca *
(15 febbraio 2016) Purtroppo non è andata come molti di noi speravano. Prima data in modo confuso, contraddittorio, allarmato e allarmante, adesso la notizia è che al Brennero, com’è già accaduto a Spielfeld, il piccolo comune al confine tra Austria e Slovenia, verrà allestita una barriera per contenere il flusso dei profughi. Si tratta della rivelazione che straccia un’illusione cullata a lungo. Recuperandone la nobile espressione originaria, risalente al testo del Manifesto di Ventotene redatto da Altiero Spinelli, parliamo ovviamente della “definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”. A ben guardare un processo sempre e solo annunciato, quindi regolarmente smentito soprattutto allorché ci è parso scontato.
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Una bella intervista pubblicata nel blog www.ultimoeuropeo.wordpress.com
di Federico Zappini
L’aspetto più interessante di poter chiacchierare con Mauro Berruto è la dimensione poliedrica della persona che si ha di fronte. Affermato allenatore, fino alla panchina della nazionale maschile italiana di volley. Narratore e formatore, alla guida da qualche mese della Scuola Holden di Torino. E ancora, curioso e attento osservatore dei contesti sociali connessi – e non – al mondo dello sport. Ognuno di questi “mondi” riesce a emergere dentro le sue parole e rende l’insieme delle riflessioni che ha condiviso con “Ultimo Europeo?” utilissimo a tracciare un bilancio degli Europei di calcio conclusi lo scorso 12 luglio. Non solo racconto dell’avvenimento calcistico ma anche uno sguardo alle tensioni sociali delle nostre società, alle crisi economica e politica che colpiscono l’Europa, all’approccio complesso al tema dell’identità e dell’incontro con l’Altro.
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«Tempi interessanti» (35)
(31 gennaio 2016) Ho apprezzato che il premier Renzi si sia recato, al ritorno dall'incontro con Angela Merkel, sull'isola di Ventotene per rendere omaggio agli estensori del Manifesto “Per un'Europa libera e unita”, il manifesto dei federalisti europei scritto nell'esilio del 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni.
Gli atti simbolici hanno certamente un forte valore evocativo e Matteo Renzi lo sa. Nel 2011, in occasione del 70° anniversario della stesura del “Manifesto”, come presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani, proposi al Consiglio Provinciale di recarsi in delegazione proprio a Ventotene per ricordare le radici culturali del progetto europeo. La risposta fu imbarazzante...

L’ultimo reportage di Giulio Regeni, su un’affollata assemblea di uomini e donne per la libertà. Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza della primavera araba.
(5 febbraio 2016) Oggi il Manifesto pubblica l'ultima corrispondenza di Giulio Regeni, dedicata alla realtà dei sindacati indipendenti in Egitto. Come sapete nei giorni scorsi Giulio è stato assassinato e il corpo martoriato dai segni della tortura gettato lungo una strada nella periferia del Cairo. In altri articoli pubblicati in passato da il Manifesto, Giulio Regeni si era firmato per prudenza con uno pseudonimo, dicendo esplicitamente agli amici di temere per la sua sicurezza personale. Che Giulio sia stato vittima della feroce repressione militare in vigore in quel paese dopo il golpe militare che ha deposto il legittimo governo è piuttosto evidente, anche per i tentativi di depistaggio con i quali la polizia ha cercato di ascrivere la morte del giovane ricercatore ad un incidente automobilistico. Ora non c'è che da augurarsi che la verità venga a galla e che la comunità internazionale s'interroghi sulla natura della lobby di potere che governa questo paese cruciale nel quadro del vicino Oriente. Riprendo il testo dell'articolo come un piccolo omaggio verso l'impegno di Giulio e le cose in cui credeva questo giovane studioso.
di Giulio Regeni
Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.

Viviamo giorni drammatici, che ricordano i tempi del 1989, quando tutto cambiò con estrema rapidità. E vi sono inquietanti similitudini con il crollo della Jugoslavia. Un commento del corrispondente da Capodistria di Ossrevatorio Balcani Caucaso (www.balcanicaucaso.org)
(28 gennaio 2016) La sensazione di essere arrivati al capolinea oramai è netta. Le cose corrono veloci. Non accadevano con tanta rapidità dal 1989, quando a crollare era stato il muro di Berlino. Troppo inquietanti le similitudini con la caduta di un altro impero, quello jugoslavo, per evocarle. Ma l’inefficienza delle istituzioni europee, l’incapacità di prendere decisioni rapide e di gestire la crisi fanno tirare un sin troppo facile parallelo con la presidenza collegiale e il governo della federazione jugoslava.
Voglia di muri
Intanto, non senza un certo entusiasmo e con un ampio consenso popolare, cresce in tutto il continente la voglia di sicurezza e di barriere protettive. Chiudersi per difendersi da immani pericoli che potrebbero sconvolgere per sempre la tranquilla vita di ogni giorno. Una nuova cortina di ferro sta nascendo e si fa strada la consapevolezza che se il filo spinato dovesse essere sostituito da una struttura di cemento armato con tanto di torrette di guardia, nessuno si lamenterebbe più di tanto.
Se solo un anno fa qualcuno avesse ipotizzato che un reticolo sarebbe stata eretto ai confini o che sarebbero stati ripristinati i controlli di frontiera tra i paesi dell’Unione sarebbe stato preso per pazzo. Oppure nessuno avrebbe potuto credere che governi democratici avrebbero preso seriamente in considerazione l’ipotesi di sequestrare i beni dei profughi per pagare le loro spese di mantenimento.