"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Inizia così "Il sarto di Ulm", l'ultimo lavoro di Lucio Magri. Quel sarto era la metafora di un'idea senza tempo, a dispetto della storia che l'aveva condannata all'oblio. Lucio Magri era un comunista così.
Lo è stato quando il comunismo era una diversa visione del mondo e la leva per cambiarlo; lo è stato quando in suo nome i carri armati occupavano le strade di Praga, proponendo un'idea di comunismo diversa da quella polverosa dei regimi dell'est europeo; lo è stato quando la rivolta giovanile e operaia ha riproposto all'ordine del giorno la necessità di una radicale alternativa al capitalismo moderno; ha continuato ad esserlo negli anni della sconfitta e della fine del PCI nella speranza di ricostruire, fra i cocci della storia, una nuova identità comunista.Ma poi ti trovi tuo malgrado a fare i conti con il limite, che nel privilegio delle nostre esistenze dedicate a ciò in cui credevamo, prima abbiamo rimosso e poi semplicemente spostato sempre un po' più in là. Così la fine di una storia coincide con la tua e ti trovi a fare i conti con il venir meno degli affetti, dei compagni di una vita, delle energie per ricominciare.
La morte per suicidio assistito di Lucio Magri è diversa da quella del sarto di Ulm. Assomiglia piuttosto ad un atto di protesta estrema che descrive il carattere insopportabile dell'epilogo, personale e di una vicenda collettiva. E una resa incondizionata di fronte alla solitudine.
E' un pezzo di storia, anche mia, che se ne va. E il sentirsene oggi lontani attenua di poco il dolore.
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