"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Bruno Zorzi intervista Mamadou Sow (da L'Adige del 16 maggio 2009)
Partiamo da qui: ad un certo punto il telefono di Mamadou Sow, 42 anni, senegalese, commerciante, in Italia da anni, già «ospite» delle galere di Gheddafi prima di approdare in Italia, suona. Lui risponde in un lingua stranissima e dopo un minuto mette giù.
«Questo era mio fratello. Mi chiama dal mio villaggio natale che si trova quasi in mezzo alla savana. Telefonini e televisioni in Africa le trovi ovunque, ormai anche in mezzo alla foresta, e il guaio è questo: la gente ha il mito dell'occidente.
Pensa che qui sia tutto facile, sono attratti da tutte le cose che vedono in tv. Per un telefonino nuovo attraversano il Sahara. Se ce la fanno».
Appunto, se ce la fanno. E lui, tanti anni, fa è stato uno di questi ragazzi in fuga verso il sogno. E l'impatto con la realtà fu tremendo, ancor più che tremendo.
«Io andai via dal Senegal - racconta - perché c'era stata la siccità: il bestiame moriva, i campi davano poco. Lavorai duramente per un periodo dove si facevano i mattoni di terra e riuscii a raccogliere una cifretta, mi pare 350 mila lire. Arrivai in Mali, da lì l'Algeria e il Sahara. Terribile. Gli organizzatori di questi viaggi ci portarono con le jeep nel deserto per alcuni chilometri e da lì a piedi verso la Libia.
Ci guidava un tuareg con un cammello: il caldo era tremendo, l' acqua poca. I ragazzi che erano con me, ragazzi del Mali, del Gambia, della Liberia, morivano uno dopo l'altro. Se rimanevano senza acqua li abbandonavamo. Non potevamo fare altro, l'acqua non si poteva dividere, era troppo poca.
Alcuni impazzivano e correvano nel deserto senza meta e finivano male. Qualcun altro veniva preso dai dolori al ventre, noi cercavamo per un momento di incitarli: "Dai resisti! Cammina!". Ma non ce la facevano a rialzarsi e rimanevano lì a morire. Così, a piedi nel deserto per tre settimane. Un giorno finalmente arrivammo ad un pozzo, eravamo torturati dalla sete, ma sul bordo c'era il cadavere di uno come noi che era morto mentre stava bevendo.
Non riuscimmo a buttare giù un sorso. Insomma, siamo partiti in trenta e in Libia siamo arrivati in quindici».
Ma perché c'era e c'è questo passaggio in Libia.
«Perché, quando sono emigrato io almeno, in Libia per un po' si riusciva a lavorare. Nonostante tutto è il paese africano dove la gente sta meglio. E infatti io per un po' sono vissuto di lavoretti qui e là, nella speranza di passare in Europa. Ma ad un certo punto sono stato arrestato. I militari mi hanno preso per strada e mi hanno portato via».
Niente processi, niente garanzie.
«Macchè processi! Assieme ad altri africani, eravamo più di mille, siamo stati portati in un campo in mezzo al deserto e lì ce ne facevano di tutti i colori. C'erano ragazzini in divisa crudelissimi. Per loro la nostra vita non valeva nulla. Se non ubbidivi prontamente i soldati ti sottoponevano a quella che loro chiamano la falga ».
Tortura, immagino.
«Sì, ti legavano con le braccia e le gambe ad un palo e giù botte con un bastone sulle piante dei piedi. Impazzivi di dolore».
Quanti anni aveva?
«Quindici anni».
Dalla Libia riuscì a scappare?
«Ad un certo punto ci portarono a Tripoli a fare dei lavori e lì sono riuscito ad andarmene. Sono rimasto in un paesino libico ancora per qualche tempo, facevo l'elettrauto ed ero bravo. Ma i libici mi trattavano male e non mi pagavano. Per questo decisi di andarmene: prima in Turchia e da lì, in aereo, a Milano. Ed eccomi qui, ho sposato una trentina ed ho un figlio».
Questa è la storia di Mamadou, una delle tante tragiche storie di immigrazione clandestina. Lei cosa pensa della decisione del governo Berlusconi di rimandare indietro i barconi in Libia? Questa scelta, per quanto dura, può fare da deterrente?
«Io posso anche dire che questa decisione può servire a fermare le partenze e, di conseguenza, a fermare un po' queste stragi che non avvengono solo in mare. Il deserto, e lo so per esperienza, è pieno di cadaveri. So che dicendo così mi sentirò ribattere: tu la pensi così perché sei riuscito ad arrivare qui. Però, finché il modo di vivere occidentale sarà un mito per gli africani, queste ondate emigratorie non si fermeranno. La cause non stanno solo nella povertà».
Ma se è vero, come è vero, che la tv è ovunque la gente vedrà anche le tragedie dei migranti clandestini.
«Vado spesso nel mio villaggio dove ho avviato un progetto di sviluppo che sta dando frutti e quando vado giù non mi metto niente di firmato perché basta niente per far venire voglia ad un ragazzo di venire via. Le faccio un altro esempio: l'altro giorno un mio amico m'ha detto: ho comprato una Mercedes di seconda mano e mi piacerebbe portarla in Senegal. Io gli ho risposto: no, non farlo, perché per i giovani è uno stimolo ad emigrare e questi, inseguendo un miraggio, vanno a morire!»
Ma questi disgraziati che vengono sbarcati di nuovo in Libia che fine fanno?
«O finiscono nelle galere oppure li portano al confine con un: tornate da dove siete venuti. Però davanti a loro c'è il Sahara».
E ci muoiono.
«Eh già, tantissimi ci muoiono».
Ma chi torna racconta...
«Certo, che raccontano. Anche noi diciamo: attenti, c'è gente che viene abbandonata in mare, che viene ammazzata per niente ma non basta. Come posso dire...chi viene chiamato risponde. Voi occidentali continuate a chiamare la nostra gente con la pubblicità e il vostro modo di vivere».
In Senegal come sta andando?
«Mah, qualcosa alla fine si muove. Ma quello che cerco di far capire alla mia gente è che da noi non si vive male. Dico: ma vi rendete conto che gli occidentali vengono da noi per rilassarsi! Questo deve farvi capire che lassù non è tutto oro! Ed è così. In Africa non trovi un depresso; il ritmo della vita è calmo e le risorse sono enormi. Ma noi seguiamo il vostro modello di sviluppo e per noi è un disastro. Dobbiamo seguire un altra strada e capire che il vostro tipo di vita non è migliore del nostro».
Lei non pensa che la via stia nell'industrializzazione? Nella crescita economica?
«No, le fabbriche distruggono. Sa cosa mi impressiona ogni volta che torno giù? L'enorme quantità di plastica. C'è plastica ovunque. Io spiego alla gente: così avvelenate la terra, state attenti! Ma per loro plastica vuol dire occidente. L'uomo occidentale ha inventato la cultura, ha mosso il mondo e, ora, con le comunicazioni di massa sta chiamando milioni di persone. È un continuo "venite, venite" che provoca tragedie. Tragedie per chi emigra e tragedie per voi che vi sentite assediati».
Lei non ha mai pensato di tornare a casa?
«Certo che ci penso. Ma ho qui la mia famiglia: mia moglie è di qui, mio figlio è italiano. Sì, se non avessi qui la famiglia tornerei a vivere nel mio villaggio. Un piccolo villaggio di 250 abitanti. Alla mia gente sono legato: come dicevo, ho avviato un piccolo progetto di sviluppo che si chiama Bromkouda, appunto il nome del villaggio dove sono nato e dove abitano i miei fratelli. Con piccole iniziative abbiamo migliorato l'allevamento, costruito un pozzo di cemento. Le condizioni sono migliorate, le famiglie possono vivere. Ma per i giovani il fatto di non poter avere due paia di jeans; di non avere un telefonino nuovo; di non poter fare la vita che immaginano è una spinta fortissima a scappare. Io quando vado giù dico che qui da immigrato clandestino non hai diritti, che si vive male. Racconto che quando in Italia, all'inizio, facevo l'operaio potevo spendere quindici euro alla settimana per mangiare e comperavo, non carni ma ossi, per farmi il ragù. Ma non basta, il miraggio è troppo forte».
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