di Federico Zappini
Avremmo bisogno di un ritmo diverso, di tempi meno frenetici. È vero che la politica – almeno quella che oggi conosciamo – vive di strappi, di improvvise accelerazioni, di discontinuità violente. Ma non per questo dobbiamo abituarci, senza cercare strade alternative, a questo schema. È altrettanto vero che anche le nostre vite, in generale, sembrano scorrere assecondando le emozioni del momento, gli umori che per un attimo fanno presa su di noi. Eppure neanche questo è motivo sufficiente per mettere da parte la ragione dando libero sfogo alla pancia.
Perché – è bene ricordarlo – ogni qualvolta la politica non si accorge che la fretta è la sua peggiore nemica e che le scorciatoie sono lastricate di appoggi instabili e scivolosi va ulteriormente ad assottigliare il proprio patrimonio di credibilità, ormai già seriamente compromesso. Sbaglieremmo se pensassimo che il problema possa essere tutto interno al personale politico. Certo, è in quella dimensione che emerge con disarmante evidenza la gravità della situazione. La superficialità con cui si affronta ogni questione, la tendenza ad agire per emergenze o – all’opposto – posticipando all’infinito le scelte necessarie, la deriva leaderistica o peggio tifosa nell’approccio a qualunque argomento, l’imbarbarimento dei linguaggi e delle forme del confronto, la totale autoreferenzialità o una referenzialità esasperata (che scade in forme degradate di “attenzione” o velleitario minoritarismo). Malattie della politica, certo, ma che sarebbe falso considerare assenti nelle nostre esistenze, nei rapporti politici e sociali che intratteniamo ogni giorno. Un incrocio di patologie mortale.
Condiviso il contesto è importante interrogarsi sul come restituire centralità alla politica. A fronte di un’offerta piuttosto variegata (non ne giudico qui la qualità), della bulimia da talk show e dibattiti dai tratti spesso imbarazzanti, della moltiplicazione degli spazi virtuali di cronaca e approfondimento politico (questo piccolo blog, uno tra i tanti) non si percepisce invece un’apprezzabile crescita della domanda di politica. Anzi. Aumentano parallelamente le esperienze di partecipazione e di attivazione dei cittadini – con tensioni tra loro anche fortemente discordanti -, nuove aggregazioni collettive che raramente intrecciano la propria attività con le classiche forme della politica. Una domanda potenziale e gassosa, che fatica a trovare interlocutori attenti e curiosi e che rischia di ripiegarsi su se stessa e di non esprimere appieno le potenzialità che porta con sé.
Da tempo sostengo che vada interpretata un’azione per così dire preliminare, che tenti di riconnettere i cittadini partendo dal riaffermare il ruolo della politica, oggi ritenuta – per molti versi a ragione – inaffidabile e dannosa. Va riaffermato il significato più autentico del termine consenso. Oggi lo si misura nelle scadenze elettorali (non troppo frequentate), nei sondaggi online, contando il numero dei re-tweet in rete. Un semplice sistema di posizionamento virtuale, che lascia completamente inevaso il tema della crisi della politica. Serve allora non solo inseguire il consenso, ma provare a elaborarlo facendolo germogliare e crescere con pazienza e costanza. Sperimentando – così dice la stessa etimologia della parola – “l’atto di provare insieme le stesse sensazioni”. Sarebbe abbastanza, come primo passo, darsi il tempo per iniziare.