"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere in tempi interessanti» (14)
di Michele Nardelli
Assisto sgomento al dibattito seguito al naufragio del peschereccio nel quale hanno perso la vita oltre settecento persone (stando alle stime più prudenti). Una tragedia del mare fra le tante che smuove la coscienza civile più per la conta dei morti che per ciò che ciascuna di queste vite rappresenta, con il loro portato di tragedia e di dolore.
Perché nel Mediterraneo si continua ogni giorno a morire in un'indifferenza che ci racconta di come nel sentire diffuso ci si senta già in guerra, ognuno a difendere con le unghie il proprio spazio vitale che si percepisce come insidiato dall'immigrazione.
Così il cinismo è diventato la cifra di questo tempo, inutile stupirsi. “L'Italia agli italiani” si grida, allo stesso modo con cui un tempo si guardavano con ostilità altri italiani che migravano dal sud in cerca di lavoro. O rimuovendo totalmente l'emigrazione italiana nel mondo.
Oggi, in più rispetto al passato, c'è la percezione che – in un villaggio globale dove nel 2030 saremo in 9 miliardi di esseri umani, le risorse sono limitate e il 19 di agosto1 già abbiamo consumato quel che gli ecosistemi sono in grado di produrre in un anno intero - una guerra per la sopravvivenza sia già forse inconsapevolmente iniziata.
Anche la risposta che viene dalle istituzioni e dalla politica risente del diffondersi dalla paura di futuro, senza interrogarsi affatto su quel che sta avvenendo, sulle motivazioni profonde che determinano esodi così massicci di persone alla ricerca di una speranza di vita, sulla sostenibilità di un modello di sviluppo e di consumi che la globalizzazione ha reso – almeno sul piano delle aspettative – globale.
E la risposta che sanno dare non va oltre l'approccio emergenziale. Ci si chiede come fermare i mercanti di essere umani, come presidiare le coste libiche (se distruggere i barconi o se istituire blocchi navali). Qualcuno si spinge oltre, proponendo di accogliere a cannonate i profughi in arrivo.
Nessuno o in pochi a chiedersi come mettere fine alle cause che generano flussi così massicci di persone in fuga dalla guerra, dalla fame o semplicemente dalla miseria e dall'assenza di prospettiva di vita. Come se in buona parte questo non fosse anche l'esito delle nostre politiche, delle guerre che abbiamo scatenato o contribuito a scatenare, dell'impoverimento indotto dalle grandi multinazionali attraverso l'omologazione dei consumi o la privatizzazione delle biodiversità, ed infine della dichiarata non negoziabilità dei nostri stili di vita.
Credo sia giusto far sì che di questa situazione si debbano fare carico l'insieme delle istituzioni internazionali e dei governi europei, posto che ancora l'Europa politica non c'è. Affrontando l'attuale emergenza ma ponendo contemporaneamente in atto politiche in grado di modificare alla radice le cose. Temo (ma è un eufemismo) che ciò non accadrà (non nell'immediato, quanto meno) perché questo significa cambiare i paradigmi di una politica (e di un immaginario collettivo) immersa nel passato.
Fra il “non più” di cui iniziamo ad avere, seppure con fatica, consapevolezza e il “non ancora” cui ci costringono le idolatrie che ci ancorano al Novecento, immersi come siamo nel delirio della crescita illimitata e dei nazionalismi, è necessario cambiare. Riguarda la politica. Riguarda ciascuno di noi.
1Nel 2014 l'overshoot day, che misura il rapporto fra i consumi globali e la capacità degli ecosistemi di rinnovarsi, è stato il 19 agosto. Significa in buona sostanza che dal giorno successivo consumiamo riserve sempre più limitate. Una situazione di insostenibilità che determina effetti di cui abbiamo solo una vaga percezione e che si va ad aggiungere alla diseguale distribuzione delle risorse sul pianeta.
0 commenti all'articolo - torna indietro