"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
Avere timore per un futuro incerto, laddove processi di portata mondiale investono le nostre vite quotidiane, è più che comprensibile. L’interdipendenza investe il nostro presente di cittadini (perché ogni persona responsabile si chiede ragione di quel che accade), ma anche di lavoratori (o di giovani che vivono nella precarietà), di consumatori, di risparmiatori e così via.
E c’è motivo di preoccupazione, specie se ci interroghiamo sul mondo che andremo a consegnare alle generazioni che verranno dopo di noi. Per questo è importante non chiudere gli occhi di fronte ai problemi, comprese le paure, ma chiederci di continuo quali potrebbero essere le soluzioni più responsabili per darvi risposta.
Quel che invece non si dovrebbe fare è spostare altrove il problema (“non nel mio giardino”), oppure dire semplicemente dei No, pensando che in questo modo possiamo stare tranquilli. Perché non è così che funziona e perché questo è un atteggiamento da irresponsabili.
Dichiarare “il mio stile di vita non è negoziabile” significa dire, dato il carattere limitato delle risorse, che non c’è posto per tutti sulla faccia della terra; sentenziare “no alle moschee” significa negare ad altri cittadini il diritto umano fondamentale alla preghiera; legiferare “le case prima ai trentini” significa negare a chi è nato sotto Borghetto il diritto ad un tetto dove costruirsi un’esistenza dignitosa con la propria famiglia; negare il diritto di unione per le coppie di fatto (eterosessuali come di altri orientamenti sessuali) significa rendere obbligatorio, e non più una libera scelta, il matrimonio; dire “no alle micro-aree per i sinti”, significa negare a queste persone (molte delle quali sono nate e vissute a Trento da diverse generazioni) un luogo in cui mettere la propria roulotte avendo un minimo di acqua, luce e gas ed ai bambini di frequentare più serenamente la scuola (proviene da un luogo di serenità e non di concentramento), agli anziani di avere un luogo un po’ accogliente in cui trascorrere quel che gli resta da vivere.
Dietro a tutti questi “No” c’è in realtà una grande ipocrisia. Quella di non aver il coraggio di dire esplicitamente quel che in realtà si pensa, ovvero che queste persone dovrebbero scomparire dalla nostra vista perché indesiderate. Ci aveva già provato qualcuno nel secolo scorso, tanto che per primi nei lager ci finirono i malati psichici, poi i portatori di handicap, seguiti dagli omosessuali, le persone di colore, gli intellettuali scomodi, dagli zingari ed infine dagli ebrei.
Non c’è pertanto da stupirsi che l’effetto di tutti questi “No” sia la proliferazione di ideologie e comportamenti che s’ispirano al nazismo, quello esibito delle teste rasate, dei picchiatori di ogni diversità, dei siti internet che inneggiano all’olocausto; e di quello più nascosto ed ipocrita che si nasconde appunto dietro ai “No” e che esprime un rifiuto ignorante e nichilista verso ogni diversità, verso il valore del sapere e della parola, verso il tradizionale cosmopolitismo delle città. Non per caso le guerre moderne (all’insegna dello scontro di civiltà) si accaniscono contro i luoghi della storia e della cultura, le biblioteche nazionali, i cimiteri, i ponti.
Dire invece dei “Sì”, sì al diritto di vivere in primo luogo, ma anche di pregare per chi ha fede, o di avere un’istruzione e una casa, vuol dire in primo luogo “farsi carico”. Non negare che esistono dei problemi e nemmeno che si possa aver paura (perché la marginalità sociale e l’ignoranza sono spesso alla base di comportamenti asociali e talvolta criminali), ma saperli affrontare in quanto tali, riconoscendoli ed affrontandoli responsabilmente. Distinguendo in primo luogo il comportamento individuale da quello di una comunità nel suo complesso, ma anche non mettendo la testa sotto la sabbia rispetto a fenomeni di esclusione sempre più diffusi, sia che siano a qualche migliaio di chilometri dalle nostre vite che dietro l’angolo di casa nostra o sul pianerottolo di fronte; spesso preferiamo non sapere e non conoscere, nascosti dietro la nostra ipocrisia. Quella stessa ipocrisia che faceva chiudere gli occhi a tante persone per bene quando nei camini dei campi andavano in fumo milioni di esistenze senza che ciò provocasse l’indignazione delle comunità che vivevano a ridosso di quell’orrore. Hannah Arendt ci ha ammonito su tutto ciò e su un’altra cosa spesso inconfessabile, la banalità del male, ma non sembra che abbiamo imparato granché.
Non è solo il problema, intollerabile e perseguibile penalmente, di chi inneggia al nazismo o al primato della razza. E’ lo sdoganamento culturale e politico di questi personaggi che ci deve preoccupare, che nei fatti porta alla legittimazione dell’aggressione e della violenza. E’ quel fare spallucce dicendo che ci sono cose ben più gravi (cosa ad esempio?) che ci dovrebbe far riflettere…
Forse non porterà consenso, ma credo che oggi dobbiamo essere in tanti ad affermare il diritto alla vita e alla dignità delle persone. Per questo dobbiamo dire tanti “Sì”. “Sì” al diritto alla preghiera per ogni credo religioso, sì al riconoscimento delle culture altre ed al loro incontro con esse. Sì al diritto di voto nelle elezioni amministrative per chi vive e lavora in un territorio contribuendo al pari degli altri cittadini a costruire benessere collettivo. Sì, infine, alle micro-aree per i sinti come ha avuto il coraggio di dire il Comune di Trento di fronte al sovraffollamento inumano del campo nomadi.
E’ il coraggio della civiltà, contro l’aggressività che invece produce emarginazione e paura.
«…per chi viaggia in direzione ostinata e contraria,
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità…»
Fabrizio De Andrè, Smisurata preghiera
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