"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Postmodernità

di Michele Nardelli

Uno sguardo strabico peri cogliere quel che – immersi nel proprio quotidiano – diventa più difficile mettere a fuoco…

(Aprile 2014) Ho scelto di dedicare una parte significativa del mio tempo al lavoro di formazione, rispondendo alla necessità di provare a ricostruire i tratti di un pensiero capace di leggere una realtà in profonda e rapida trasformazione. Mi ha aiutato lo spostarmi di lato, scoprendo ben presto che quel che stavo facendo non aveva a che fare più di tanto con la solidarietà bensì con l’indagine sulla modernità, come se i Balcani rappresentassero una lente di ingrandimento verso i fenomeni più hard della globalizzazione.

Facce stupite, talvolta qualche sorriso incredulo farsi via via sguardo preoccupato…

Fra le molte immagini proposte, il fatto che la Lega Nord rappresentasse, oltre le apparenze, il fenomeno politico più moderno presente nel panorama italiano, capace cioè di interpretare gli umori, trasformando il rancore in progetto politico. Parlavo della “kr¬cma”, la locanda balcanica, e dei suoi fantasmi. Di quei fantasmi che hanno portato un paese civile ad una guerra nel cuore dell’Europa solo qualche tempo prima inimmaginabile. Del disprezzo verso la cultura e gli intellettuali, verso le città ed il loro cosmopolitismo, verso il pensiero e la politica. Luoghi dove spadroneggiano strani personaggi, leader dei loro microcosmi, riconoscibili dal modo di vestire e dai vetri abbrunati delle loro automobili.

Prendere sul serio quel che invece ci faceva ridere…

Parlavo degli intellettuali belgradesi, i quali di quel che si agitava nella caršija (i frequentatori della locanda) non si curavano affatto, ridendo dei personaggi da baraccone che di lì a poco sarebbero diventati i leader del post comunismo. Pseudo poeti, biscazzieri, affaristi, dediti alla blasfemia, alla pornografia e all’alcol. Figure paradigmatiche come il generale Fikret Abdic, uomo d’affari e protagonista nel 1987 della prima Tangentopoli jugoslava, lo scandalo Agrokomerc, che scosse profondamente la credibilità dell’apparato economico e finanziario di quel paese. Della sua vittoria nelle prime elezioni libere in Bosnia Erzegovina e del suo divenire negli anni ’90 “signore della guerra” dalle spregiudicate alleanze che non rispondevano ad alcun richiamo nazionalistico. Del suo controllo paternalistico e mafioso del territorio (tanto da essere soprannominato “Babo”), padre-padrone della sua “Zapadna Bosna” e della tendenza al neofeudalesimo.

Immagini della modernità che anticipavano la fine di una storia, preludio di quella successiva dove lo scontro di civiltà avrebbe scalzato la lotta di classe.

Anche noi ridevamo. Di là la guerra. Da quest’altra parte del mare lo spaesamento. I toni erano gli stessi. Il nord laborioso che considerava il sud una zavorra, il business ostile verso la casta della capitale e le regole (corrotte) del sistema politico, la solitudine sociale che si trasforma in rancore, l’odio della campagna contro la cultura ed il cosmopolitismo delle città. Anche la guerra avveniva nel segno della modernità. Niente territori da conquistare, biblioteche da distruggere invece. Ci si accaniva contro la cultura, non certo contro l’Holiday Inn dal quale i giornalisti dovevano documentare il gioco del gatto col topo. Non c’erano città da conquistare ma ponti da abbattere.

“Però sulla questione delle moschee quelli della Lega hanno ben ragione…” mi sentivo dire da persone che consideravo di sinistra. Provavo ad obiettare che le moschee, così come ogni altro luogo di culto, hanno rappresentato nella storia straordinari presidi culturali. Per sentirmi rispondere: “Della cultura non me ne frega proprio niente”.

Molte campagne elettorali, mai che mi sia capitato di stare con le mani in mano. Così ho pensato che poteva essere utile parlare di un islam endogeno, far conoscere l’“editto di Blagaj”, di una Europa che nasce “fuori di noi”, come la principessa da cui prende il nome. Parole al vento. Cresce la barbarie, invece. I suoi simboli moderni sono le Hummer dorate che imperversano nei saloni dei “Luxuri show”, punto d’incontro fra delocalizzazione delle imprese e mafia criminale. L’assenza di regole ne costituisce il terreno più congeniale: produzioni senza limiti, operai senza diritti, sogni occidentali ridotti a bordelli. La traduzione nostrana di tutto ciò non è forse così eccessiva ma in fondo poi non così distante: atomizzazione, morti sul lavoro e precarietà, incapacità di resistere alle sirene del consumo e invidia. E’ il centro commerciale l’agorà della modernità. Un analfabetismo di ritorno che impoverisce i linguaggi, che non sopporta il pensiero, che guarda all’altro con paura e rancore.

Perché non  indagare i fantasmi?

Solitudine e spaesamento producono paura. La paura è un fatto reale quand’anche molto spesso irrazionale. Che a sua volta provoca chiusura, talvolta aggressività. Possiamo bollarla come “razzista”, ma così facendo non entreremo mai in comunicazione con chi ne è preda. Cosa invece necessaria. Quel che non serve è l’agitare parole ormai vuote che rispondono ideologicamente a problemi reali. Riconoscere i conflitti anche quando spuri, saperli affrontare ascoltando le narrazioni, mettendosi in comunicazione. Non per dare ragione o torto, ma per affrontare i problemi, prendendosene carico. Ma anche comprendere che nella globalizzazione si pongono problematiche inedite che richiedono scelte politiche concrete. Penso all’effetto devastante del denaro riciclato nell’economia di un territorio, di come si possano comprare intere vie di una città a prezzi che non hanno nulla a che vedere con il valore di mercato degli immobili, di come tutto questo scassi l’economia locale, producendo effetti perversi ed insicurezza. O lasciamo che sia il mercato finanziario e la criminalità organizzata a regolare la vita economica e sociale delle nostre comunità?

Politica, cultura della responsabilità, autogoverno

Nell’interdipendenza nessuno può chiamarsi fuori. Ecco perché la coesione sociale, la cultura del territorio, il mettersi in relazione attraverso le reti della mondialità, sono aspetti decisivi se non vogliamo essere travolti dalla postmodernità. La risposta non può essere che culturale e collettiva, cioè politica. Vuol dire farsi carico della complessità e disporsi a ricercare strade inedite. Servono tempi lunghi, non certo furbate.

 

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