"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
La maledizione di vivere tempi interessanti (61)
di Michele Nardelli
(23 febbraio 2017) Nell'osservare il triste spettacolo che si consuma in questi giorni nel Partito Democratico avverto soprattutto distanza. Certo, c'è anche l'amarezza per il definitivo consumarsi di un progetto nel quale avevo creduto, l'idea che potesse nascere un soggetto politico che, nel portare a sintesi le migliori culture politiche del campo democratico, fosse in grado di esprimere un pensiero capace di rappresentare un'alternativa originale al neoliberismo dominante.
“Abitare i conflitti” mi dicevo e dunque perché non provarci anche in un partito che nasceva consapevole dell'inadeguatezza tanto dei partiti precedenti, quanto delle culture politiche novecentesche dalle quali proveniva? In realtà questa consapevolezza si dimostrerà ben presto marginale a fronte di una progressiva omologazione, più attenta al marketing politico che alla necessità di leggere i processi sociali, al cercare consenso che alla crescita di uno spirito critico, al difendere condizioni di privilegio piuttosto che interrogarsi sull'insostenibilità del nostro modello di sviluppo. Come se la tragicità della condizione umana fosse scomparsa con la fine di una storia che vedeva contrapposte le grandi ideologie novecentesche. E come se l'emergere di un nuovo conflitto fra inclusione ed esclusione avesse solo a che fare con la nostra insicurezza.
Una distanza cresciuta nel tempo che mi ha portato tre anni fa a decidere che quella non era più la mia casa. E che avverto oggi ancora più profonda per l'impossibilità di riconoscersi in una dialettica che – al netto dei personalismi – si svolge nello spazio che va dal “Partito della Nazione” (lo stesso orizzonte che in Francia si va delineando con la candidatura di Emmanuel Macron) alla socialdemocrazia di stampo keynesiano (ora identificata a livello europeo con la candidatura di Martin Schulz). Uno spazio angusto, di cui il PD è prigioniero.
Perché entrambi questi orizzonti – ancorati come sono ai paradigmi novecenteschi – mi appaiono in tutta la loro profonda inadeguatezza, tanto nel descrivere come nell'affrontare questi tempi nuovi. Sono anni che vado dicendo, più o meno inascoltato, che è necessario cambiare “i fondamentali” della nostra progettualità politica, ma quel che avviene anche nella turbolenza politica di queste ore sembra aver più a che fare con gli involucri e, semmai, con le simbologie che non con i contenuti.
Si è continuamente scomodata in questi giorni la pesante degenerazione dei rapporti personali nel gruppo dirigente del PD, come se in passato l'etica politica non si fosse accompagnata alle picconate. O come se questa fosse una prerogativa del solo livello nazionale... basterebbe frequentarli un po' da vicino questi luoghi per capire che non è affatto così, come del resto è testimoniato dall'estinzione dei circoli e dall'emorragia degli iscritti. Il fatto è che più debole è la politica (la progettualità politica), maggiore diviene la personalizzazione e più forti le dinamiche di potere. Ma ridurre il confronto interno al PD allo scontro fra Renzi e Bersani non fa che banalizzare la realtà di una politica a corto di pensiero.
La crisi del PD (ma a guardar bene la crisi della politica e dell'insieme dei corpi intermedi) è crisi di sguardo, rivela l'obsolescenza delle chiavi di lettura nella comprensione dei nuovi scenari, il rimanere avvinghiati a vecchi paradigmi quali la crescita a fronte dell'insostenibilità di un modello di sviluppo che produce esclusione, il rilancio dei consumi a fronte della coscienza di limite, il rivendicare più lavoro quando si dovrebbe redistribuire e qualificare quello esistente, la centralità dello stato-nazione a fronte di un'interdipendenza che scardina le sovranità, il continuare a far parte di alleanze militari (e proseguire sulla strada degli armamenti) in nome della pace, l'Europa delle sovranità nazionali a fronte di un progetto come quello pensato a Ventotene che richiede cessione di sovranità verso l'alto (l'Europa politica) e il basso (l'autogoverno territoriale).
Ed è così anche qui, fra queste nostre montagne dove pure una sperimentazione politica originale era riuscita a rendere possibile per quasi vent'anni l'anomalia dell'unica regione dell'arco alpino non finita nelle mani della destra. Di questa anomalia è stata parte anche la sperimentazione politica nella sinistra trentina, che andava proprio nella direzione di quel soggetto politico autonomo che oggi, con vent'anni di ritardo, si richiede a gran voce dopo averla in tutti i modi avversata. Nell'incapacità di saperla riconoscere prima ancora che interpretare e sostenere. Nel voler omologare – in nome del maggioritario – il quadro politico trentino a quello nazionale. Nel mettere in difficoltà dall'interno la coalizione di governo invocando una leadership diversa da quella di Dellai fino a far vincere le primarie al Patt. Ed infine, da parte degli stessi protagonisti dell'anomalia, nell'incapacità di cogliere i limiti e la contraddittorietà nell'azione di governo, come se l'autonomia ci mettesse al riparo dai flussi lunghi della globalizzazione, come se l'esercizio di un livello importante di autogoverno non richiedesse una capacità di interpretazione dinamica (il terzo statuto e l'Europa), come se la conservazione e lo sviluppo di questo patrimonio non richiedesse una nuova classe dirigente diffusa.
Pronti a far rapidamente marcia indietro (tanto sono palesi i limiti di cultura autonomistica presenti nella sinistra trentina) qualora fosse più conveniente vivere di rendita rispetto al quadro nazionale, come del resto è stato nel momento di euforia verso il renzismo.
Credo che la “lunga marcia” invocata da Vincenzo Calì richieda non solo il dotarsi di buoni scarponi ma di capacità di osservazione e, a partire da ciò, di quello sguardo lungo senza il quale la nostra agenda politica altro non farà che rincorrere il tempo. Il passo da montagna richiede inoltre prudenza e saggezza. E, magari, saper dove andare.
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