"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (79)
di Michele Nardelli
Amo il buon vino, ma non “Vinitaly”. Ogni volta che ci ho messo piede dopo un po' avevo solo voglia di venir via da questo luogo che sa intensamente di finto, di denaro e di potere. E di tante altre cose volgari. Perché è forse proprio la volgarità, oggi, il genius loci di questa manifestazione.
Non frequento gli expo e, da quel che mi dicono, è ormai ovunque così. E ciò nonostante mi chiedo perché mai la presentazione di un vino non possa sapere solo della terra e del sole che la natura e la maestria sanno trasferire in un bicchiere.
Penso al clima completamente diverso che si respira a Terra Madre, laddove i contadini provenienti da ogni parte del pianeta ti fanno amare la loro unicità e al tempo stesso sentire cittadino del mondo.
Vinitaly, al contrario, ti dà la sensazione dell'omologazione culturale e della banalizzazione, un contesto che riesce a fagocitare anche le esperienze più vere ed espressive di un qualsiasi territorio, che pure spesso vivono con la stessa mia estraneità questo mondo fatto di commercianti, di business e di escort.
Lo dico per averne parlato negli anni scorsi con alcuni amici vignaioli, me lo conferma stamattina un caro e vecchio amico che di questo mondo è stato uno dei più acuti narratori. Lo raggiungo al telefono proprio a Vinitaly e mi dice che da quel “troiaio” ha proprio voglia solo di andarsene. In questo ambiente della fatica (e della gioia) della terra rimane ben poco.
E allora non c'è affatto da stupirsi se in questi giorni negli hangar della Fiera di Verona si accostino più che in passato i nuovi leader di questo paese e i loro codazzi (anche quelli un po' spelacchiati dell'ex ministro dell'agricoltura, ora capo “pro tempore” del PD, Maurizio Martina), come a certificare la vicinanza verso l'export italiano nel mondo, a guardar bene tanto capace di quantità più che di qualità, non capendo che sui numeri la partita del futuro è già persa. E dove parole come qualità e territorio vengono banalizzate e usate a sproposito un po' come il concetto di sostenibilità.
Anche questa nostra terra vanta nella kermesse veronese una notevole presenza. Nel padiglione trentino sono i grandi brand dell'export (Cavit, Mezzacorona, Ferrari...) a farla da padroni tanto che i vignaioli indipendenti scelgono di starsene altrove, fotografando così una profonda spaccatura che va ben oltre il “piccolo è bello”, a testimonianza di un'agricoltura trentina che in questi anni non ha saputo imboccare una strada nuova, preferendo la certezza del profitto immediato piuttosto che investire sull'unicità delle varietà antiche e della biodiversità. Così il mondo vitivinicolo si conferma lo specchio della propria terra, qui come altrove.
Il fatto è che società e politica non sono poi tanto diverse. Nel sentirsi a proprio agio, fra immagine, ricchi premi e cotillons, "i signori del vino" sembrano anticipare scenari autunnali.
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