"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (115)
di Michele Nardelli
Qualche sera fa, a San Michele all'Adige, nel corso della presentazione de “Il monito della ninfea”, Walter Nicoletti mi ha posto quasi a bruciapelo una domanda che ritengo cruciale e che vorrei riprendere in questo spazio di riflessione.
Suonava grosso modo così: «Di fronte ai profondi mutamenti che investono questo passaggio dell'Antropocene la parola chiave sembra essere “resilienza”. Che cosa ne pensi?»
In effetti questa parola, resilienza, fino a qualche anno fa pressoché assente dal dibattito pubblico, sembra diventata il mantra con cui affrontare le grandi sfide del nostro tempo, tanto da guadagnarsi il titolo del più importante piano – secondo solo al Piano Marshall della ricostruzione post bellica – che questo paese sia chiamato a realizzare.
Resilienza viene dal latino resilire ovvero rimbalzare, la capacità di un materiale di assorbire un urto. Nell'accezione assunta nel gergo internazionale significa adattamento, la capacità di un individuo di superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
Ora, la scelta e l'uso delle parole non è mai casuale, né tanto meno neutrale. Adattamento significa riconoscere l'ineluttabilità di una condizione considerata oggettiva, rispetto alla quale l'umano agire può ben poco, che si tratti dei processi di esclusione prodotti dal modello dominante o degli effetti della crisi climatica/ambientale non fa differenza.
Imparare ad essere resilienti significa allora adeguarsi, abdicare all'azione di contrasto, rinunciare al cambiamento. Credo sia proprio questo il nodo che il concetto di resilienza ci pone, non nuovo per la verità, ma che nell'accelerazione dei processi che stiamo conoscendo assume tutta la propria valenza mistificatoria di anestetico culturale e sociale.
Qualcuno potrà farcela, anche il neonato abbandonato in un cassonetto può diventare un business men, come ci ricordano le cronache di questi giorni. Come se questo cancellasse l'esclusione di intere masse di diseredati. Temo che quel che si vuole demolire sia l'idea stessa di cambiamento come processo partecipato e collettivo.
Scrive a questo proposito Serena Marcenò: «La rottura del nesso che legava, sin dalla sua origine, la concezione liberale della sicurezza e dello sviluppo, ha prodotto uno spazio governamentale che fa affidamento sui processi di responsabilizzazione individuale, visti come l'unica risorsa da poter attivare in modo sostenibile a fronte di rischi legati a fenomeni che vanno oltre la nostra capacità di controllo. Questa condizione di insicurezza esistenziale ha ridotto la sostenibilità a una mera resilienza, diventata l'unica risposta razionale ai rischi e ai pericoli, facendo leva sulla capacità di adattamento e sull'istinto di sopravvivenza dei singoli»1.
E' questa, a ben vedere, la deriva delle politiche di governance che hanno segnato il neoliberismo in ogni sua declinazione, dal modello di sviluppo regolato dal mercato agli aiuti allo sviluppo, dalla green economy che non si pone il tema del limite alle politiche caritatevoli di sollievo alla povertà. L'effetto è quello della de-politicizzazione dei contesti, la riduzione di crisi strutturali e culturali ad emergenze, la ricerca di soluzioni di natura populistica e plebiscitaria.
E' paradossale che l'interprete di questa deriva antipolitica sia spesso la politica, sempre più incline a rafforzare la governance rispetto alle istituzioni rappresentative, al bilanciamento dei poteri, allo stato di diritto.
Il nuovo millennio è costellato sotto ogni latitudine da questa deriva. Basta saperla vedere. Di fronte allo scenario balcanico, qualche anno fa ho parlato di neo-feudalesimo. In quello straordinario caleidoscopio avremmo potuto cogliere per tempo gli effetti della post-modernità e della post politica. Ma un approccio superficiale e stereotipato ha fatto sì che non imparassimo nulla dalla guerra che per dieci anni ha devastato il cuore dell'Europa e dalle implicazioni che ne venivano, in primo luogo sul piano dell'incagliarsi del progetto politico europeo.
Bastava cogliere i segni del tempo, dai processi di desertificazione allo scioglimento dei ghiacci, dai nazionalismi ai sovranismi, dal delirio consumistico al vuoto di senso che attraversa la vita delle persone. Così da ritrovarci sull'orlo del baratro, con una sindemia che non ha precedenti nell'intreccio di crisi di portata storica rispetto alle quali l'interrogativo non è più solo sulla necessità di cambiare ma se saremo in tempo a farlo.
E la risposta che ci viene proposta si riduce alla necessità di adattarci. Adattarci alla crisi climatica? Di fronte a fenomeni inediti come il “ciclone tropicale” che ha investito l'arco alpino a fine ottobre del 2018 e non trovare il tempo di interrogarsi. Adattarci alla pandemia? Dopo 3 milioni di morti e all'evidente connessione fra inquinamento e crisi sanitaria non ne abbiamo ancora compreso l'origine. Adattarci all'insostenibile “normalità” di un modello di sviluppo che ha da tempo oltrepassato il limite e che si guarda bene dal riconsiderare la propria impronta ecologica, condannando allo “scarto” una parte crescente di umanità?
Resilienza? Ciascuno di noi nella propria esistenza quotidiana compie molti compromessi. Del resto, non è bastato un virus per impossessarsi di tutte le vite del mondo? Ma non per questo dovremmo rinunciare all'idea di cambiamento. Oggi più necessario di ieri. Sempre che lo vogliamo e che lo scempio non diventi irreversibile.
1Serena Marcenò, Critica alla cooperazione neoliberale. Mimesis, 2018
0 commenti all'articolo - torna indietro