"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La politica come riconoscimento della complessità. In ricordo dell'amico Massimo

Massimo Gorla in un momento di convivialità con Emilio Molinari

Sono vent'anni da quando Massimo Gorla ci ha lasciati. 

di Emilio Molinari e Michele Nardelli

Chissà come Massimo avrebbe vissuto questi anni “maledettamente interessanti”. Intanto forse avrebbe avuto da ridire su questo aggettivo, interessanti. O comunque avrebbe messo l'accento sull'avverbio, quel “maledettamente” che già segnava il tempo del suo mettersi di lato, quella “nuttata” che già nell'ultimo decennio del secolo scorso lasciava intravedere quel che ci saremmo dovuti aspettare nei decenni a venire.

Per non sbagliarsi, Massimo Gorla pensò di lasciarci il 20 gennaio 2004, alla soglia del suo settantunesimo compleanno. Per chi non ha avuto il privilegio di conoscerlo, Massimo è stato un protagonista nella storia della nuova sinistra in Italia e in Europa, parlamentare italiano per due legislature, responsabile esteri di Democrazia Proletaria e tanto altro ancora, ma in primo luogo un caro amico con il quale abbiamo condiviso un tratto importante delle nostre vite, pubbliche e private, quando questa distinzione era piuttosto sottile, forse fin troppo per quanto l'agire politico avvolgeva le nostre esistenze. Eppure se la gioia del vivere non ci era affatto estranea, per Massimo di certo occupava un posto speciale che faceva il paio con la sua gentilezza.

Quando partimmo – poche settimane prima – per il Messico nulla lasciava presagire che se ne sarebbe andato tanto rapidamente. Eppure, ripensandoci, era da tempo che Massimo aveva preso congedo da questo mondo. Non dalle persone care, certo. Ma per una persona come lui che aveva fatto dell'impegno politico il tratto principale della propria esistenza, era come se la sua vicenda si fosse conclusa con il venir meno dell'impresa collettiva alla quale aveva dedicato i suoi anni migliori, guardando con scetticismo a quel che di alternativo veniva proposto.

In quel Capodanno fra il 2003 e il 2004 si celebravano i dieci anni dell'insurrezione zapatista[1] e così decidemmo di andare a San Cristobal de las Casas e poi nella Selva Lacandona per visitare le comunità indigene autogestite e parlare con la (sub)dirigenza zapatista.

La curiosità e la comune ricerca di strade inedite di liberazione umana ci portarono in quelle lontane latitudini che già conoscevamo, chi per esserci stato all'indomani del sollevamento indigeno con una delegazione parlamentare[2], chi per aver partecipato proprio nel 1994, con un altro caro amico come Alberto Tridente, alla campagna elettorale per le elezioni presidenziali al fianco di Cuauhtémoc Cardenas[3].

Scorgevamo in quella rivolta un segnale politico rivolto al mondo intero che però le famiglie politiche novecentesche non sapevano cogliere, quasi che quel grido di dolore proveniente dagli ultimi della Terra non fosse accoglibile dalle “magnifiche sorti progressive” di cui buona parte del pensiero politico occidentale era espressione.

Ci rendevamo conto di quanto fosse impari quella lotta e di come quella povera gente che aveva subito le angherie della storia cercasse disperatamente di prendere la parola. Se la presero, si posero domande alte, ne parlò il mondo. Parlavano al Mondo, questo ci parve, aggrappati a speranze ancora ben lontane dalla realtà. Ne venimmo via con disincanto e domande inevase.

Lo sguardo benevolo di Massimo avrebbe dovuto indurci ben prima ad aprire gli occhi sul nostro stesso vitalismo e a riflettere sul fatto che la fine di una storia della quale – ci poteva piacere o meno – eravamo parte, avrebbe richiesto di fare i conti con le macerie del Novecento, nella sua tragica ambivalenza fra sovrumane aspettative ed eterogenesi dei fini. Ma non ci fu la possibilità di parlarne. Neanche il tempo di rientrare e Massimo aveva deciso che il suo tempo era finito.

Da quel giorno sono trascorsi vent'anni, che non sono pochi avvicinandoci noi stessi al materializzarsi di quel senso del limite che investe prima o poi l'esistenza di ciascuno. Quel che ci porta oggi a scrivere di Massimo non è solo il ricordo di un amico fraterno e dei momenti di affetto indimenticabili che ci portiamo dentro. E' piuttosto l'avvertire il valore del suo sguardo insieme mite e sferzante che non si lasciava fagocitare dalle semplificazioni di un tempo complesso che facciamo fatica nel mettere a fuoco.

Massimo era un intellettuale che aveva deciso di dedicare la propria sensibilità e il proprio impegno professionale alla politica, quale strumento di cambiamento della società, della comunità in cui viveva alla quale era intimamente legato, come di quel nuovo mondo che il maggio francese, da lui vissuto, sembrava annunciare. La politica come professione, certo. Lui che era architetto e che da quella professione avrebbe potuto avere davanti a sé strade spianate e soddisfazioni, non esitò a mettere al primo posto le idee in cui credeva e che richiedevano un apporto pressoché totale. A quel tempo non ci si “prestava” alla politica, si era politica. Era ragione di dedizione e di studio, di elaborazione e di ricerca, di accompagnamento e di servizio per fornire soluzione ai problemi quotidiani delle persone. L'unico privilegio poteva venire dal far coincidere le cose nelle quali credevi con la propria attività anche professionale in ambiti politici che avevano ben poco da offrire, tanto meno carriere, e nei quali ai rappresentanti nelle istituzioni veniva riconosciuto uno stipendio commisurato a quello di un normale lavoratore dipendente.

Oggi affermare il valore della politica, associata com'è al potere e al privilegio, può sembrare fuori luogo. Ne conosciamo la bellezza, ma anche i rischi e le derive. Eppure se c'era una dimensione importante nell'idea che ne aveva Massimo, era quella del collettivo, del suo carattere pedagogico e comunitario. Che vivifica l'idea della polis a fronte dell'occupazione che ne hanno fatto i miliardari e gli impostori nel traghettare istituzioni sempre più malate e svuotate verso una post-politica che fa strame delle forme partecipative della democrazia attraverso la cultura plebiscitaria, l'universo degli algoritmi e dell'intelligenza artificiale. Scenari rispetto ai quali la passione gentile di Massimo Gorla potrebbe sembrare improbabile e fuori dalla realtà.

Le cose sono andate come sappiamo. Ci piace pensare che – di fronte all'annunciarsi di questi tempi “maledettamente interessanti” fra indifferenza e falsa coscienza, guerra ed esclusione – Massimo si sia posto di lato, osservando da chissà dove lo scempio che ne viene. Non con gli occhi di chi si erge a giudicare, quanto piuttosto di chi – a dispetto degli anni – ha ancora la luce per “riconoscere il molteplice”[4], quella cultura della complessità che rappresenta, oggi più di ieri, la declinazione di senso della politica.


[1]Il primo di gennaio del 1994 la sollevazione della popolazione indigena del Chiapas giunse a San Cristobal de las Casas. Da allora le istituzioni dell'autogoverno zapatista convivono in maniera parallela con quelle statali, in un equilibrio che si fonda sulla democrazia comunitaria.

[2]Delegazione di cui facevano parte Claudio Fava, Emilio Molinari, Niki Vendola e Giovanni Russo Spena

[3]Alberto Tridente, Dalla parte dei diritti. Rosenberg & Sellier, 2011

[4]Il riferimento è all'espressione usata da Massimo Gorla in occasione del convegno “Se vuoi la pace, prepara la liberazione” svoltosi a Trento il 13 aprile 1991