"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(26 aprile 2024) Vittorio Cristelli nei giorni scorsi ha lasciato questo mondo. Non ci vedevamo da tempo e, malgrado mi fossi riproposto di andarlo a trovare, alla fine le nostre vite di corsa hanno avuto il sopravvento, perché il limite anche se ne parliamo (ma non abbastanza) poi non lo sappiamo declinare. Ed ora un'assenza, definitiva. Che si traduce in disagio. Provo a scriverne, avvertendo un debito di riconoscenza.
Perché c'è stato un passaggio di tempo, in particolare nel decennio successivo alla caduta del muro di Berlino, in cui la frequentazione con Vittorio è divenuta parte di una comune ed intensa ricerca culturale e politica. In quegli anni di profonde trasformazioni, negli assetti globali come intorno a noi, l'impegno per la pace s'intrecciò con un profondo interrogarsi su come reimmaginare lo scenario politico, trentino ma non solo.
Certamente la pace fu il terreno del nostro incontro. Le grandi speranze di un mondo diverso da quello che aveva segnato il secondo dopoguerra, che accomunava persone anche tanto diverse come noi attorno alle parole di padre Ernesto Balducci, si erano ben presto rivelate nel loro opposto: era di nuovo la guerra il tratto che riempiva lo scenario globale, dal Vicino Oriente alla regione africana dei Grandi Laghi, dall'America centrale ai Balcani.
La guerra ci investiva in prima persona, non solo per la nostra sensibilità sulle cose del mondo. La guerra era in casa. A pochi chilometri da noi, nel cuore dell'Europa o sulle sponde del Mediterraneo, i morti si contavano a migliaia, il flusso dei profughi inarrestabile, per terra e per mare. Ci interrogammo a fondo per cercare risposte che non si fermassero all'emergenza e ne venne una stagione, lo si può dire senza enfasi, straordinaria.
Vittorio era uno di noi. Dopo l'amara vicenda del suo allontanamento dal settimanale della Diocesi “Vita Trentina” di cui era direttore, anche grazie al suo impegno nei “Beati i costruttori di Pace”, divenne parte di un collettivo informale che cercò di declinare l'impegno per la pace come ambito di educazione permanente e nell'intento di darle cittadinanza nelle istituzioni della nostra autonomia.
Era la stagione delle grandi kermesse all'Arena di Verona, delle quali Vittorio fu tra i principali protagonisti. In Trentino nacque la Casa per la Pace, il primo coordinamento delle associazioni pacifiste trentine; pensammo l'UNIP, l'Università internazionale delle istituzioni dei popoli per la pace, con i suoi corsi internazionali e locali; prese corpo l'idea del Forum trentino per la Pace e i Diritti umani, istituito per legge nel 1991 come consapevolezza che la pace andava costruita come tessuto quotidiano di impegno sociale, politico ed istituzionale. Talmente innovativa da rimanere un'esperienza unica nel suo genere nel nostro paese.
Così come le politiche per l'accoglienza. Anche su questo terreno Cristelli c'era. Ricordo – era l'ottobre del 1990 – quando stesi l'appello “Benvenuto fratello”, che poi sarebbe stato firmato da numerosi esponenti del mondo sociale, culturale e politico trentino. Una delle prime telefonate fu quella a Vittorio che aderì senza nemmeno lasciarmi finire la lettura del testo. Avvertivamo un'effervescenza del tutto nuova ed in effetti bastava leggere i nomi dei firmatari in calce all'appello per capire che c'era nell'aria qualcosa che avrebbe potuto aprire un'inedita stagione politica.
Erano gli anni della fine della prima Repubblica. Vittorio Cristelli era un sacerdote impegnato e, insieme, un attento osservatore politico. Si potrebbe dire che considerava la politica come un ambito tutt'altro che estraneo al suo stare al mondo. Un'attenzione in fondo non così diversa da quando, già sul finire degli anni '50, diede vita con don Franco Demarchi alla Scuola di Preparazione Sociale, con l'obiettivo di fornire uno sguardo critico ad un mondo in rapida trasformazione, quello sguardo che spesso in seguito entrò in aperto conflitto con il conservatorismo della politica ufficiale. Nel crepuscolo per certi versi traumatico che portò alla seconda Repubblica, Vittorio percepiva con inquietudine il vuoto che ne sarebbe venuto.
Che cercammo di riempire. Le carovane che presero il cammino non mancarono. Sotto quelle parole che campeggiavano nel salone della prima assemblea congressuale di Solidarietà, “la ricerca di percorsi inediti di liberazione”, Vittorio non esitava a metterci la faccia e naturalmente il pensiero. E se il Trentino in quegli anni non fu preda delle derive dello spaesamento e del rancore che conoscemmo in buona parte del profondo nord, lo si deve anche a quello sforzo di coniugare pensieri diversi che, al contrario, i chierici di ogni genere temevano come la peste. Quando gli chiesi se quella tensione politica intendesse rappresentarla attraverso una sua candidatura elettorale, bastò il suo sguardo benevolo a dissuadermi dell'insistere. Capii in quel momento quanto la sua sensibilità e apertura politica non fosse altro dal suo essere profondamente un uomo di Chiesa.
Anche negli anni che seguirono, tanto interessanti quanto contraddittori, Vittorio non smise mai quello sguardo critico sulla propria terra. Personalmente iniziai ad osservarla anche da lontano, uno strabismo che mi insegnò a leggerne più nitidamente i chiaroscuri attraverso il kaleidoscopio balcanico. Così, quando ci si incontrava, erano più le domande che le risposte. Mi accadeva la stessa cosa con il professor Pietro Nervi, recentemente scomparso (https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=5011), con il quale Vittorio aveva incrociato azione e passione ai tempi della Scuola di Preparazione Sociale. Osservazioni acute, talvolta sferzanti, tutt'altro che accondiscendenti con il governo dell'autonomia non ancora nelle mani della Lega. Ma allora, con una destra così inconsistente, toccava a noi (l'ho vissuta questa situazione dal 2008 al 2013 in prima persona) essere ad un tempo maggioranza e opposizione. Per niente facile, ma devo riconoscere che la cosa mi aiutò a comprendere prima di altri le derive che ne avrebbero decretato in un breve lasso di tempo la fine.
Poi il limite delle stagioni della vita resero sempre meno frequenti le nostre occasioni d'incontro, fino a perdersi del tutto, anche nel timore di non riconoscersi.
Per questo, il Vittorio che voglio ricordare abita in quel passaggio di tempo sicuramente interessante, per certi versi fertile, per altri doloroso, in cui ci siamo guardati negli occhi senza pregiudizio. Per dissipare lo stupore, questo sì pregiudizievole, verso quel sacerdote che mi ha regalato una grande lezione di laicità.
Michele Nardelli
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