"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Ferdinando Cotugno *
(24 novembre 2024) È finita nella notte tra sabato e domenica, con reazioni furenti e senza lacrime di gioia, con un applauso quasi d'ufficio, timido, nel momento in cui il punto 11a dell'agenda CMA (la burocrazia COP un giorno meriterà un'analisi semiotica a parte) è stato approvato: il New Collective Quantified Goal sarà l'eredità principale di queste due assurde settimane a Baku.
Ne parliamo, in questo episodio di Areale di chiusura, e ne parleremo ancora. Ci accompagnerà per un decennio il colpo di martelletto di Babayev, seguito dalle reazioni indignate delle delegazioni di Cuba, India, Bolivia e Nigeria.
È stata probabilmente la conferenza sul clima più deprimente a cui io abbia partecipato. Il teatro del mondo che si svolge alle COP è stato assorbito e neutralizzato dall'angoscia e della sfiducia, dal cinismo di un paese ospitante che ci ha fatto rimpiangere gli Emirati (e ce ne voleva), dalla prospettiva di Trump e dagli ingombranti fantasmi che gravano sempre più sul negoziato: la Russia, l'Iran, l'Arabia Saudita, ancora più ingombranti del solito.
E forse era inevitabile che fosse così, per la COP sulla finanza. L'avevano definita COP di transizione, forse era solo una COP di attivazione: i soldi avrebbero dovuto riavviare un percorso di transizione che va troppo piano e che non tiene il passo della crisi. È difficile sapere come andrà, oggi.
Le COP non curano il mondo, ma sono figlie del mondo, e in queste due settimane si sono viste tutte le ferite accumulate negli ultimi anni: pandemia, inflazione, Ucraina, Gaza. Senza cooperazione e fiducia non c'è lotta ai cambiamenti climatici. La COP della finanza doveva servire a mostrare la buona volontà dei paesi industrializzati nel provarci: in politica i soldi sono sempre una misura esatta e credibile delle intenzioni. E una cifra così bassa certifica una cosa preoccupante: che ai budget dei paesi ricchi si poteva chiedere di più (si chiede costantemente di più, per guerre, sussidi alle fossili e così via). È alle opinioni pubbliche dei paesi ricchi che non si poteva chiedere di più.
La COP29 è stata la certificazione di quanto vale oggi il clima nel discorso pubblico occidentale: molto poco. I paesi in via di sviluppo hanno fatto bene ad accettare, e a farlo con rabbia e indignazione: piccole nazioni senza risorse che hanno salvato ancora una volta il multilateralismo climatico ingoiando un boccone terribile, come fanno a volte per decenni, in attesa di rare epifanie come l'accordo di Parigi.
È un po' che non vediamo un'epifania climatica su quella scala, penso come come società civile globale possiamo davvero darci l'obiettivo che non possiamo aspettare oltre il prossimo autunno, COP30 in Amazzonia.
Questo è l'ultimo episodio di Areale da Baku. Dunque, vediamo come è andata, e cosa significa.
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Numeri, senso ed eredità di questa Cop29
La ventinovesima conferenza dell'ONU sui cambiamenti climatici di Baku doveva essere la COP dei soldi e, come sempre quando si parla di soldi, tutte le parti che hanno accettato l’accordo finale tornano a casa sentendosi defraudate. L'approvazione del documento finale più politicamente delicato di COP29, quello sulla finanza climatica, è avvenuta alle 3 nella notte tra sabato e domenica: il martelletto del presidente Mukhtar Babayev ha sigillato il risultato: i paesi in via di sviluppo riceveranno una quota crescente di aiuti climatici che deve arrivare a 300 miliardi di dollari all'anno entro il 2035, tra undici anni. Nel documento viene menzionata anche un'altra cifra, quella che il sud globale ritiene più vicina ai propri bisogni, e che era stata calcolata da tre economisti del clima (Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern) all'inizio di questa COP: 1300 miliardi di dollari all'anno.
Nel documento i 300 miliardi sono però un impegno giuridicamente vincolato, che i paesi in via di sviluppo possono esigere, mentre i 1300 miliardi sono una vaga aspirazione, quasi un auspicio, niente che abbia valore legale. Il diplomatico dell'Uganda Adonia Ayebare, che negoziava a nome del G77, il più grande gruppo dei paesi in via di sviluppo, aveva ribadito: «Vogliamo vedere i triliardi nel titolo di questa COP». Li hanno avuti, ma è solo un titolo esca come quelli di certi siti spazzatura, perché quello che riceveranno davvero sono 300 miliardi.
Un altro tema discusso era come fornire ai paesi in via di sviluppo finanza climatica di qualità, che fosse basata prevalentemente su sovvenzioni pubbliche a fondo perduto e non su prestiti o investimenti privati, soprattutto per i progetti più difficili da finanziare sul mercato, come quelli di adattamento, che sono costosi, urgenti e non prevedono ritorno economico. «Siamo qui per conservare l'integrità dell'accordo di Parigi», aveva detto Cedric Schuster, il ministro dell'ambiente di Samoa, rappresentante delle piccole nazioni insulari. Nell'articolo 9 del trattato sul clima c'è scritto esplicitamente che i paesi industrializzati sono obbligati a fornire aiuto finanziario contro la crisi climatica. «Voi non siete donatori, questa non è beneficenza», è stato un mantra di questa COP29. Schuster aveva ragione dal punto di vista legale, ma i tempi politici sono cambiati, anche nella percezione delle democrazie occidentali su quanto sia legittimo spendere in clima.
E quindi nell'accordo finanziario siglato a Baku i 300 miliardi verranno non solo dai bilanci pubblici ma «da un'ampia varietà di fonti», una formula che piace ai paesi ricchi (perché scarica i budget da parte degli obblighi) e spaventa quelli poveri, che vedono i loro bisogni climatici affidati alle incertezze del mercato, dei tassi di interesse, delle banche multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale. In sostanza, i soldi che i paesi vulnerabili portano a casa sono pochi rispetto ai bisogni, arriveranno tardi, cioè nella loro interezza a metà del prossimo decennio, quando la crisi climatica sarà molto più grave di quella che sperimentano oggi, e da fornitori incerti e costosi per la parte privata.
Tra i punti che hanno sbloccato il negoziato c'è stata la proposta di una roadmap Baku-to-Belém (dove si tiene la prossima COP) per rivalutare gli impegni, una quota triplicata di fondi per adattamento e un canale di accesso speciale per i Least Developed Countries (i paesi meno sviluppati) e le Small Nation Developing Islands (le nazioni insulari), la cinquantina di paesi da Afghanistan a Samoa, da Malawi alle isole caraibiche che se la stanno vedendo peggio con il clima. Non è stato però sufficiente per non farli tornare a casa infuriati e delusi.
Chi l'ha presa peggio è stata l'India, che ha provato fino all'ultimo a fermare l'accordo, che è stato quasi estorto ai paesi in via di sviluppo, messi di fronte a un prendere o lasciare che ha creato momenti di straordinaria tensione nella giornata finale e nella plenaria di chiusura.
Il peso di tenere insieme sud e nord globale è caduto quasi tutto sulle spalle del commissario EU Wopke Hoekstra. Le altre figure chiave della diplomazia climatica europea erano indebolite dalle turbolenze interne (come la tedesca Jennifer Morgan) o da quelle dell'Unione (come nel caso della spagnola Teresa Ribera, promossa a commissaria ma sottratta alla diplomazia delle COP).
La strategia europea era accettare di mettere sul piatto più soldi di quello che i budget nazionali permetterebbero, ma in cambio di due cose: l'allargamento della base di donatori e nuovi sforzi globali per la riduzione delle emissioni. Sul primo fronte, l'Europa ha ottenuto un risultato interlocutorio: la Cina e gli altri paesi che solo formalmente possono essere ormai considerati in via di sviluppo (Corea del Sud, Singapore, Qatar, Arabia Saudita, Emirati) contribuiranno ma su base volontaria, senza obblighi di nessun tipo verso nessuno. Sul secondo è stata una sconfitta totale: è stata una COP sul clima in cui si è parlato pochissimo di clima.
Siamo abituati a vedere marginalizzati gli attivisti, ora è toccato anche agli scienziati, sempre meno centrali nel processo multilaterale sul riscaldamento globale. Di misure concrete contro i combustibili fossili, causa principale della crisi climatica, non si è praticamente parlato, a causa dell'asse tra paese ospitante (92% dell'export azero sono idrocarburi) e Arabia Saudita, che ha impedito ogni progresso.
Per l'Europa il risultato di COP29 è un paradosso: ha preso insulti da tutti, ha scontentato mezzo mondo, dovrà comunque confermarsi primo donatore climatico mondiale, soprattutto dopo l'uscita degli USA dall'accordo di Parigi, e non avrà nemmeno la possibilità di dire alle proprie opinioni pubbliche che in cambio ci saranno progressi sul contenimento della crisi climatica.
L'appuntamento è a Belém, in Brasile, nel novembre 2025. Sarà quella che la ministra Marina Silva ha definito «la COP delle COP», a dieci anni dall'accordo di Parigi, nella foresta amazzonica, con gli impegni nazionali dei paesi tutti appena rinnovati (si spera, scadono a febbraio 2025). Potrebbe essere il primo vertice sui cambiamenti climatici da un po' di anni in cui si parla di cambiamenti climatici, e non solo di finanza e geopolitica
* da Areale, newsletter settimanale del quotidiano “Domani”
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