«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Andare, restare, tornare? Un lessico per il Trentino di oggi e domani.

Foto Ottani

di Federico Zappini

(6 settembre 2025) Ogni città possiede ed elabora un proprio vocabolario. Gesti, luoghi, sentimenti, movimenti. C’è chi arriva, chi parte, chi resta. Perché si parte? Perché non lo si fa? E ancora, cosa serve ad una città per essere riconosciuta come luogo nel quale investire un pezzo della propria esistenza?

Questi interrogativi mi accompagnano da qualche tempo. Si sono rafforzati con l’ormai prossima partenza – direzione sud – di una carissima amica. Una studiosa di grande sensibilità, ricercatrice vivace e militante, compagna di riflessioni su politiche trasformative per le terre alte, cultura e welfare di prossimità, partecipazione civica e animazione comunitaria. La sua scelta mi ha colpito profondamente. Sul piano personale, certo, ma anche per un segnale più generale che mi sembra ci inviti a cogliere. Non “solo” una perdita individuale, ma una linea di faglia su cui ci muoviamo.

Il caso singolo da cui parto si iscrive dentro una dinamica più ampia che riguarda – per usare le categorie proposte da Raffaele Alberto Ventura – la cosiddetta classe disagiata” e la sua progressiva conquista dell’infelicità”. Una generazione (forse due, di più se non si agirà per modificare il contesto) che sperimenta quotidianamente precarietà nei contratti e basse retribuzioni, costi abitativi insostenibili, fatiche fisiche e mentali crescenti e che subisce sempre più spesso una forza centrifuga che li costringe altrove – sradicati, spatriati, nomadi – a cercare condizioni di vita migliori, più capaci di creare presupposti minime di futuro.

Tra il 2011 e il 2024 il Trentino ha perso 6500 under 34, il 60% dei quali laureati. Una fuga silenziosa ma costante, che non viene compensata da un flusso di uomini e donne – non solo cervelli, o braccia – nella direzione opposta. Basti pensare che anche il vicino Alto Adige – che pure attrae di più e meglio dialoga con il suo nord – ha un rapporto di cinque a uno tra uscite e ingressi di laureati. Parliamo di due province che, numeri alla mano, continuano a primeggiare nelle classifiche italiane per qualità della vita. Primati che però in un Paese complessivamente in declino (demografico ed economico, come l’intero Occidente) ci raccontano di un territorio un po’ stanco e non di un’avanguardia generativa.

Dentro questo scenario anche la nostra specialità – l’Autonomia, cui riconosciamo giustamente una prioritaria importanza – assomiglia più a una trincea che a un trampolino. Un sistema di governo sulla difensiva, più attento a conservare che a trasformare, più affezionato al passato (ben sapendo che nostalgia e presunte tradizioni identitarie sono merce a buon prezzo) che proiettato nel futuro.

I sintomi – causa ed effetto si sovrappongono quasi – sono visibili e preoccupanti. Della progressiva perdita di capitale sociale abbiamo già accennato. Da questa deriva – nel campo manifatturiero come in quello sociale, culturale o politico – una crescente difficoltà nell’essere protagonisti di spinte alla ricerca e all’innovazione. Non di meno pesa un diffuso invecchiamento delle dinamiche (non solo ma anche anagrafiche) dentro il tessuto comunitario, sulla base di un restringimento degli spazi della contesa democratica – tra terzi mandati, Comuni a lista unica e bassa partecipazione al voto – e della fatica dei soggetti collettivi preposti all’esprimere classi dirigenti adeguate alla sfida del tempo che si vive.

Trento, come ogni città, e il Trentino, come territorio più vasto, possono attrarre o respingere, accogliere o espellere, prendersi cura o far ammalare, incuriosire o spegnere, far innamorare o farsi odiare, entusiasmare o stancare. Non tutto è bianco o nero, ovviamente. In questo momento però – almeno nell’analisi che emerge dal mio punto di vista – il barometro tende al brutto. Una sensazione che deriva da una certa “provincializzazione” (intesa come chiusura, rivendicazione di autosufficienza) in atto da queste parti soprattutto dopo il 2018, anno della vittoria elettorale del centrodestra a trazione leghista, e dall’ancora troppo debole spinta per la costruzione di un’alternativa credibile per l’autogoverno trentino. Forse abbiamo immaginato – o peggio, stiamo ancora immaginando – di poter sfidare l’attuale potere dentro lo spazio arido della comunicazione e delle pratiche di piccolo cabotaggio per la conquista e la difesa del consenso invece di impegnarci nella rigenerazione complessiva del campo da gioco. Partendo dalla condivisione di idee e di progettualità coraggiose e coinvolgenti, degne di quelle visionarie che abbiamo ereditato da precedenti amministratori e amministratrici della cosa pubblica trentina. Tentando di sconfiggere prima di ogni altra cosa la disillusione e il senso di impotenza, come consigliava nei giorni scorsi Marco Damilano rivolgendosi alla coalizione di centro-sinistra anche a livello nazionale.

Il rischio concreto altrimenti è che in molt* decidano di sottrarsi e che restare diventi un fatto di pura resistenza – dove non di privilegio – più che una scelta convinta e felice. Proprio per questo il concetto di restanza (come lo ha elaborato negli anni Vito Teti) può tornarci molto utile. Non immobilismo nostalgico – non credo nel richiamo morale alla difesa della propria casa o del proprio focolare –, ma come atto creativo di cura, di costruzione di opportunità, di legame con i luoghi, anche nelle difficoltà e nell’incertezza che contraddistingue questo tempo. Chi resta compie comunque un viaggio, tanto quanto chi invece si trova costretto o attratto dalla partenza. E chi parte può e deve tenere aperta la porta per un giorno percorrere la strada al contrario. Lo potrà fare però solo se troverà spazi aperti e comunità accoglienti, istituzioni capaci di ascolto e di progettazione di lungo periodo.

Questa non vuole essere un’accusa sparata nel mucchio e mi scuso in anticipo se il mio giudizio potrà sembrare troppo netto e duro. È invece una richiesta di confronto, un invito e un richiamo all’ambizione politica. Perché i verbi che definiscono un territorio continuino a essere quelli dell’accoglienza, del desiderio e della curiosità. Verbi necessariamente declinati al plurale e al futuro.

 

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